molto di più di un centro antiviolenza
Un progetto di Ponte Donna, finanziato anche dall'Otto per mille valdese
Sta
per cominciare la ricostruzione della Casa delle donne a Kobane, spazio
di condivisione e solidarietà, distrutta dai miliziani di Daesh durante
l'occupazione della città siriana. Il progetto di ricostruzione del
luogo di scambio ed empowerment femminile è stato ideato
dall'associazione romana Ponte Donna ed è stato finanziato anche
dall'Otto per mille della Chiesa valdese: «siamo partite con un utopia,
siamo tornate con un progetto concreto», racconta Carla Centioni, presidente dell'associazione.
Perché Kobane?
«Ponte Donna si occupa di donne e nello specifico di
violenza, ha gestito dei centri e l'attenzione alle tematiche femminili è
centrale nella sua attività. In questo contesto, quando c'è stata
l'occupazione di Kobane da parte di Daesh e si sono formate le prime
staffette di solidarietà, noi abbiamo voluto realizzarne una di donne,
nel febbraio del 2015. In quell'occasione siamo andate a Kobane con
l'idea di avviare uno scambio di pratiche con le donne a proposito della
Casa delle donne prima che fosse distrutta dai militanti di Daesh.
Sono
partita con un'idea molto occidentale di cosa sono i centri anti
violenza in Rojava, ma mi sono dovuta ricredere, perché lì hanno un
livello di evoluzione maggiore rispetto a noi.
La casa delle donne di
Kobane rappresenta il luogo dell'incontro delle diverse culture e
religioni, un luogo della solidarietà con un senso molto più ampio
rispetto ai nostri modelli in Italia, uno spazio di formazione e di
ricerca volto alla consapevolezza delle donne curde, che ha trent'anni
di evoluzione.
Loro hanno dovuto fare un lavoro villaggio per villaggio,
partendo dalle esigenze delle donne locali: la critica che hanno fatto a
noi durante lo scambio, per esempio, è che il nostro femminismo è molto
teorico.
Loro sono partite dal basso su necessità impellenti, come
capire perché nel villaggio accanto le ragazze si suicidavano, per poi
intervenire. Lavorano su tematiche pratiche e fanno un lavoro di ricerca
storica partendo da dove è sorto il patriarcato nella loro società».
Le immagini delle donne curde col fucile ci
hanno fatto immaginare un'emancipazione che ripartiva dalla
consapevolezza e dall'azione: ma c'è molto di più oltre a questo.
«Sì, c'è molto di più. L'immagine che abbiamo visto è
una delle motivazioni che mi hanno spinto ad andare a Kobane:
un'immagine riduttiva, strumentale e occidentale. Il corpo delle donne
curde qui in occidente veniva dipinto come “le donne con kalashnikov”,
ma loro hanno una consapevolezza molto più alta rispetto al fucile che
portano addosso. Anche la nostra idea di ricostruire la Casa delle donne
si è trasformata con l'incontro: si è fatta strada la possibilità di
creare un luogo di incontro con tutte le donne del mondo, dove ognuna
dal suo paese porti la propria pratica, le proprie idee e dove possa
vivere quello che abbiamo vissuto noi, diventando dunque un'accademia,
un luogo ancora più forte di ricerca e formazione».
Cosa prevede il progetto edile della casa?
«Siamo partite con un’utopia, siamo tornate con un
progetto concreto. Abbiamo lavorato insieme a volontari che ci hanno
creduto, mentre con degli ingegneri ci siamo procurate delle foto
satellitari per realizzare un computo metrico, cercato i materiali per
la costruzione per poi immaginare come edificare la casa: uno stabile di
tre piani, con una foresteria all'ultimo per l'accoglienza di uomini e
donne da tutto il mondo, perché questo luogo diventi una testimonianza
di una liberazione possibile».
Con quali altre associazioni avete collaborato?
«Come partner del progetto abbiamo il Koerdisch
Instituut di Bruxelles, che si occupa di cultura curda, Uiki Onlus che
si occupa dei contatti politici e Lucha Y Siesta, un centro antiviolenza
di Roma. Costruire la casa sarà possibile anche grazie al finanziamento
dell'Otto per mille della Chiesa valdese».
Come avete incontrato questa chiesa?
«Sono gli unici che hanno creduto in questo progetto.
Il moderatore della Tavola valdese ha apprezzato l'idea ma ci ha
chiesto molta concretezza, che siamo riuscite a realizzare solo dopo un
anno. Volevo che il progetto fosse molto credibile e realistico, e ha
funzionato».