giovedì 24 settembre 2015

Prima di me, oltre me.

(Quasi una lettera in attesa di risposte)
 
 
WebDimension Snc
 
Per quelle come me, che hanno vissuto dagli anni settanta un tempo lungo segnato dalla sperimentazione di forti relazioni tra donne per uscire dal sistema culturale e politico del patriarcato, essere oggi una anziana femminista significa avere un patrimonio di consapevolezze e di saperi che confliggono, a volte stridono dolorosamente, con molto di quello che accade intorno a noi in ogni ambito della vita.

Quando ho iniziato il mio impegno nel movimento delle donne ero cattolica osservante, artista per formazione e passione, insegnante impegnata in una pedagogia e una didattica antiautoritarie. Avevo due figli maschi molto piccoli e mi interrogavo in solitudine su come essere madre in un altro modo, attenta a mostrare i valori della tenerezza e della cura come responsabilità di tutt*: tra i loro giocattoli c’erano, richiesti, la lavatrice e una bambola fino a quando… sono entrati nella scuola per l’infanzia dove qualcun* ha detto loro che erano giochi “da femmina”.
Venivo da una adolescenza vissuta nella convinzione che avrei lavorato per vivere e che era possibile costruire con l’altro una relazione di reciprocità, nonostante i modelli e i comportamenti tradizionali dicessero il contrario; vivevo infatti con disagio il mio corpo di donna esposto a rischi di aggressioni e offese (la violenza sessuale era reato contro la morale pubblica e indicibile vergogna per la donna; le botte del “capofamiglia” una normalità) e sopportavo come inevitabili fatalità piccole e grandi discriminazioni quotidiane e limitazioni di libertà. 

Quando nel 1974 sono entrata nell’Udi non conoscevo l’estenuante lotta delle donne per ottenere il diritto di voto e nulla sapevo dell’impegno del movimento di emancipazione, di cui l’Udi era parte fondamentale, per ottenere le principali leggi antidiscriminatorie nel mondo del lavoro e leggi istitutive di servizi sociali quali la scuola per l’infanzia e gli asili nido. Tuttavia ero, senza rendermene conto, all’interno di un processo storico che mi aveva in parte allontanato dall’esperienza quotidiana della maggioranza delle donne della generazione di mia madre, senza libertà e dignità sociale, eppure portatrici di un senso autentico dell’esistenza umana nel suo risvolto materiale e relazionale e perciò, nonostante tutto, modelli potenti di riferimento.

Stare nell’Udi ha significato entrare in una storia collettiva nata prima di me: alcune donne che l’avevano vissuta dall’inizio rappresentavano nella mia pratica politica quotidiana una memoria viva, parlante. Uscita da una scuola di stampo patriarcale, immersa in un clima culturale estremamente misogino, ho sentito come altre il bisogno di conoscere una mia/nostra collocazione storica più veritiera di quella trasmessa dalla storiografia ufficiale e trarre da lì radici e alimento per una diversa idea di me come genere e una ricostruzione della storia umana mai fatta prima.
Fondamentale è stato il lavoro di ricerca delle storiche femministe, ma anche il riferirsi reciproco tra donne, la capacità di nominare e nominarsi al di fuori di un simbolico di disvalore. Mi ci sono voluti anni di riflessione, confronti, letture, convegni per conoscere e far conoscere quel faticoso percorso individuale e collettivo delle donne verso l’autodeterminazione e la libertà: eredità preziosa per il senso della vita e dello stare insieme che ci consegna, patrimonio in parte rimosso dalla trasmissione e tradizione culturale e politica di donne e uomini del nostro Paese eppure imprescindibile per superare tanta della violenza e dell’ingiustizia che ancora abitano la nostra imperfetta democrazia. 

Stando nell’Udi ho incontrato da subito il neofemminismo nato tra la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta che, attraverso la pratica dell’autocoscienza e una radicale critica al sistema patriarcale in tutte le sue manifestazioni e i suoi saperi, ha rappresentato senza dubbio per tante di noi una accelerazione e un potenziamento nel processo di differenziazione dal maschile in termini di valore. Ma il neofemminismo non è partito da zero: il patriarcato era già stato scalfito in più punti da quelle venute prima.
Parlare di diritto all’istruzione, al lavoro retribuito, al voto, affermare il valore sociale della maternità, rifiutare la divisione sessuale dei ruoli, riconoscere per le donne una soggettività degna di una esistenza libera significava già due secoli prima iniziare a ribaltare, anche se con alcuni palesi elementi di debolezza, i pilastri del patriarcato. Penso, solo per fare alcuni esempi, alle donne inglesi del 1600, le petitioniers, e alla loro pretesa di parlare nelle piazze, inoltrare petizioni per chiedere pari poteri all’interno della Chiesa; o alle donne della Rivoluzione americana e francese, del Risorgimento italiano; infine alle protagoniste della Resistenza che hanno dato inizio, dopo la parentesi fascista, alla seconda stagione dell’emancipazione.
Per questo quando dico femminismo intendo riferirmi ad un movimento storico di donne transazionale, plurale e differenziato, con i suoi conflitti interni e le sue contraddizioni, e patisco la cancellazione e il disconoscimento da parte di autorevoli esponenti del femminismo dell’autocoscienza che nelle loro narrazioni ed analisi fanno coincidere la crisi del patriarcato e l’avvento della libertà femminile con l’inizio della loro personale esperienza politica, riducendo l’emancipazione a piatta omologazione al modello maschile. Mi sembrano infantilmente ancorate ad una insufficiente e imprecisa dimensione storica.
Non è un caso che tra loro le storiche difficilmente fanno questo errore, costrette ad intrecciare emancipazione e libertà come elementi costitutivi dell’esistenza delle donne, ponendosi così al di fuori della logica del pensiero binario che preclude una conoscenza complessa della vita e dei soggetti.
Il mio femminismo si è da sempre posizionato nell’intreccio tra emancipazione e libertà, differenza ed uguaglianza, categorie che subiscono a loro volta i mutamenti che la libertà femminile sta producendo. E’ stato sempre forte in me il bisogno di costruire l’alterità nell’interconnessione, evitare quel rischio di sessismo alla rovescia contiguo a un essenzialismo irreale e inefficace.
Il mio desiderio più profondamente femminista è quello di saper agire i conflitti fuori da quel dualismo contrappositivo su cui il patriarcato, a partire dal rapporto uomo-donna, ha costruito per millenni pensiero, conoscenza, pratiche: mi sembra la strada più giusta per la libertà che è prima di tutto relazionale, nominabile e misurabile solo all’interno di tutte le nostre relazioni pubbliche e private. 

Se penso a ciò che sono diventata, la mia gratitudine va a tutte quelle che mi hanno preceduta e arricchita o che mi hanno accompagnata e mi stanno accompagnando in questi lunghi anni segnati da un impegno che ha iniziato a restituire valore al mio genere, ha reso non più credibile la superiorità maschile e mostrato agli uomini una possibile strada per uscire da modelli che mortificano la loro dignità e il loro libero agire nel mondo. Sono grata da un po’ di tempo anche ad alcuni di loro, impegnati in una ricerca di sé al di fuori di modelli identitari tradizionali, poiché mi consentono di verificare l’autenticità della mia libertà in relazione alla loro, nella verità delle reciproche differenze, disagi, desideri.

Oggi, oltre me, vedo con sollievo e speranza tante giovani donne, dislocate su più fronti, prendere in mano la propria vita e lottare con passione e con una freschezza che in parte io ho perduto: il valore di sé in quanto differenti, il diritto all’inviolabilità del corpo e della mente e ad un lavoro umanamente sostenibile, la libera scelta in materia di sessualità, orientamento sessuale e maternità. Le vedo costrette a fare chi più chi meno i conti da un lato con canoni di bellezza e di consumo insostenibili, dall’altro con un mercato del lavoro sempre più selvaggio e disumano; tra loro c’è chi si sta misurando con nuove tecnologie riproduttive che aprono scenari inediti e rischiano di riconfermare la riduzione del corpo femminile a semplice contenitore, proprio nel momento in cui la genitorialità viene riformulata non di rado in termini di reciprocità e di condivisione dell’accudimento e della cura. Vedo anche purtroppo da più parti nel linguaggio e nei comportamenti, confusa con la libertà, una imbarazzante omologazione ai valori maschili, una assenza totale di conoscenza del movimento di emancipazione e del femminismo.


Sono convinta che noi femministe storiche (nel senso che abbiamo già fatto insieme un pezzo di storia) dobbiamo imparare a consegnare nei giusti modi la nostra complessa e plurale eredità lasciandoci interrogare e contaminare: la nostra esperienza, i nostri saperi sono nati in altri contesti storici e culturali; al contrario oggi si impongono analisi, categorie interpretative e risposte adeguate al tempo presente e ai differenti soggetti che lo abitano. E dobbiamo imparare ad ascoltare quello che le nuove generazioni hanno da dire sulla loro esperienza di cui noi non siamo titolari. Dobbiamo, impresa non facile, provare a leggere insieme il contesto in cui ci è dato vivere se vogliamo cambiarlo.
Siamo passat* nell’arco di pochi decenni da una società connotata da una rigida regolamentazione di ruoli e poteri ad una società tendenzialmente liquida rispetto a modelli, valori, identità segnata da dati inediti come l’evaporazione del padre e la crisi della famiglia tradizionale. Alcuni di questi cambiamenti sono l’esito dell’irrompere nello spazio pubblico di noi donne, altri sono determinati da un’idea di sviluppo che non siamo state in grado di governare o da nuove tecnologie sempre più pervasive e condizionanti, altri ancora sono frutto della reazione maschile alla nostra conquistata libertà.

Noi nate prima viviamo questo presente sperimentando aspetti nuovi della vita: la vecchiaia e un corpo non più fertile e non più forte; un futuro diventato corto, fragile e precario in cui collocare al meglio quel che resta da vivere; assistere e resistere ai tanti ritorni indietro rispetto a elementi di civiltà conquistati con lotte e fatiche e con la certezza che fossero acquisiti per sempre (la 194, tanto per fare un esempio). Eppure, nonostante evidenti differenze, abbiamo molto in comune: il rifiuto di molti aspetti di questa confusa contemporaneità basata non tanto, come noi volevamo, sulla centralità e qualità delle relazioni, ma sull’individualismo, il profitto, il denaro, il cinismo. Stupri, femminicidi, prostituzione coatta, tratta, precarietà lavorativa e esistenziale, degrado progressivo della politica istituzionale, dominio senza regole del potere finanziario, vecchie e nuove forme di schiavitù e troppe guerre avvelenano le nostre vite.
Ci accomuna perciò il desiderio di una socialità solidale e senza violenza a partire dalle relazioni di genere, di una società senza ingiustizie e diseguaglianze in un pianeta ogni giorno da salvaguardare e da amare.
Condividiamo in tant* la voglia di essere soggetti di cambiamento; questo richiede politica, una politica capace di governare le differenze, i conflitti, la complessità dentro e fuori di noi rinunciando alle dinamiche del potere come dominio, al narcisismo imperante; una politica orizzontale capace di superare la frammentazione dei tanti piccoli gruppi per un noi più ampio ed efficace, una politica che è in primo luogo costruzione della libertà di ciascun* in un contesto di responsabilità e cura verso gli altri e le altre.
Ci accomuna, infine, il desiderio di amare e di essere amat*, un amore da imparare a riformulare nella sua verità, mai più confuso con la gelosia, la violenza, la sopraffazione.
Sono da tempo convinta che l’amore in ogni sua forma, con la sua retorica fuorviante e i suoi intrecci col potere, rappresenti un luogo con forte valenza politica e resta a mio avviso il nodo più problematico e duro da sciogliere nel linguaggio e nei comportamenti. Abbiamo perciò, se lo vogliamo, una strada difficile da percorrere insieme controvento. Non vi pare?

Rosanna Marcodoppido