lunedì 28 marzo 2016

Le donne musulmane di Milano pedalano

contro pregiudizi e discriminazioni

IL LATO BICI - Un progetto di lezioni di bicicletta a donne emigrate coglie l'attenzione di Striscia la Notizia che, nel suo servizio, intervista un Imam che non vede di buon occhio l'utilizzo della bicicletta da parte delle donne islamiche. La risposta è stata la pedalata rosa di domenica 13 marzo. Cui abbiamo partecipato.

di Mariateresa Montaruli

pedalata donne arabe il lato bici mariateresa montaruli

Ho inforcato una delle mie vecchie biciclette e mi sono unita, ieri, 13 marzo, a Sumaya Abdel Qader e ad altre 200 donne per lo più musulmane, per la prima pedalata con il velo, contro la violenza e la discriminazione di genere, mai avvenuta a Milano. Una manciata di chilometri, 7 appena. In portata simbolica, un intero Camino di Santiago. La massa critica si è mossa lentamente all’inizio, con qualche insicurezza – molte delle donne non salivano in bicicletta da tempo; in 70 hanno utilizzato le bici messe a disposizione dal bikesharing del Comune – dalla Moschea di via Padova, nella profonda periferia Nord. Su via Palmanova, il corteo era già più spedito, addirittura cantato, senz’altro accompagnato da una riaffermata allegria fino a Porta Venezia.

I fatti sono che da qualche mese, coinvolta dall’associazione sportiva Cyclopride, sto dando “lezioni di bicicletta” a donne emigrate, per lo più nordafricane, con qualche presenza sudamericana e dell’Europa dell’Est. Ne ho raccontato sul mio bike blog, Il lato Bici. L’articolo è stato letto dal regista Marco Melloni di Striscia la notizia che è partito da quelle lezioni nel cortile di una scuola elementare di Milano per fare più di un servizio.

Le affermazioni, apparse nel suo primo video, dell’Imam della Moschea di Segrate sulla presunta preziosità delle donne musulmane che meritavano, piuttosto che una modesta bicicletta o lezioni di bici, di viaggiare in Cadillac e Mercedes, hanno suscitato un vespaio. 

“L’Imam si è espresso male: ha voluto fare una battuta che gli è venuta malissimo. Il suo centro ha aderito alla nostra pedalata” nota Sumaya Abdel Qader, l’attivista che ha lanciato con il Caim, il coordinamento delle associazioni islamiche di Milano, l’idea della pedalata in rosa.

sumaya il lato bici mariateresa montaruli
Sumaya Abdel Wader, l'attivista nata a Perugia da genitori giordano-palestinesi
Nata a Perugia 37 anni fa, di origini giordano-palestinesi, i genitori già studenti di medicina in Italia, tre figli e un marito di origini siriane, Sumaya ha studiato biologia, lingue e culture straniere, e sociologia. Lavora attualmente per Telefono Azzurro. Ad andare in bicicletta ha imparato a tre anni, con l’aiuto del padre. Adesso, lo schiacciamento di una radice nervosa, le impedisce di usare la bici come un tempo. Ma non le ha vietato, via Facebook e distribuendo volantini nelle moschee, di organizzare la sua specialissima Critical Mass partecipata anche dalle figlie Dana di 13 anni e Lin di 11 che sanno già andare in bicicletta.

Rispetto alla scivolata dell’Imam di Segrate dice ancora: “esiste una pluralità di opinioni. Tuttavia, la maggioranza dei musulmani è a favore della dignità e delle pari opportunità delle donne. La sfida dell’attivismo, in Italia, è quella di costruire ponti per avvicinare le diverse culture. Siamo un unico grande Paese. Dobbiamo riconoscere che siamo interdipendenti. La donna musulmana, in Italia, è purtroppo discriminata due volte: perché è donna e perché è emigrata. Le sue esigenze nascono dalla provenienza da culture diverse: non vanno confuse con questioni di religione.

Con la biciclettata vogliamo far passare il messaggio che la maggioranza degli uomini musulmani che vivono in Italia non sono contrari all’uso delle bici. Un mezzo che è certamente a sostegno a una vita più green, ma che è soprattutto attività fisica, cura di sé, attenzione alla salute. Anche un momento di grande libertà. 

Così immagino siano le vostre lezioni di bicicletta: uno spazio e un tempo per fare ciò che piace, per disporre di sé. Sono contenta che il Comune di Milano, con la fornitura delle biciclette del bikesharing, abbia risposto positivamente alla nostra iniziative. La maggior parte delle donne che partecipano alla pedalata non possiede infatti una bicicletta: hanno paura, abitano lontano o non se la possono permettere”.

Sumaya indossava un velo giallo domenica e ha fatto da apripista sul percorso. Dietro di lei, veli rossi, grigi, rosa, arancione. Hafida e Reem, due “allieve” del nostro Mamme in Bici, erano con noi, per la prima volta su strada, fuori dal cortile dove teniamo le lezioni. Martedì ci rivediamo in classe. Con una briciola di fiducia e contentezza in più. Il 15 maggio, con loro, apriremo la pedalata pubblica di sensibilizzazione organizzata da Cyclopride. Accade, talvolta, di fare, e scrivere, qualcosa di utile.

mie nuove amiche cicliste il lato bici mariateresa montaruli
Con due mie "allieve" del corso Mamme in bici
fonte: IoDonna

Jeans, velo e bicicletta: dall’Africa a Milano per imparare a pedalare

IL LATO BICI - È partito a gennaio un corso di bicicletta rivolto a donne provenienti da Paesi in cui l’uso femminile delle due ruote è malvisto o non incoraggiato, retaggio di una visione che lo ritiene sconveniente e provocatorio. E che mi vede nell'inedito ruolo di "maestra". Impegnata a ragionare, gioco forza, sui malefici della sella


Jeans, velo e bicicletta: dall’Africa a Milano per imparare a pedalare
Tutto è cominciato dal sellino, il primo intimo punto di contatto tra la bicicletta e i genitali femminili. Non fosse stato per la relazione pericolosa con la sella, non sarebbero fiorite, a metà del 1800, le ipotesi di ulcerazioni, malesseri durante il parto, sterilità, eccitazione sessuale costante che la bicicletta avrebbe provocato sulle prime ardite cicliste donne. Meglio sempre consultare “le médecin habituel de la famille” suggeriva un manuale sull’uso dei velocipedi pubblicato a Tours, nel 1898, prima di mettere una donna in sella.

Andare in bicicletta era ritenuto poco sano, ma soprattutto immorale. Le gambe delle donne avrebbero dovuto rimanere coperte, unite e immobili. In bicicletta accadeva esattamente il contrario. Sconveniente era sia salirci sia cadere scomposte. E solo i calzoni a sbuffo che si restringevano sul polpaccio per impedire colpi di vento indiscreti, in inglese chiamati bloomers perché fortemente sostenuti dalla femminista Amelia Bloomer, arrivarono a salvare le donne dalla forzata immobilità di gonnelloni e corsetti.

E’ dunque ragionando sul potere malefico attribuito alla sella che ho voluto cominciare le mie “lezioni” come maestra di bicicletta a un gruppo di 16 donne straniere, per lo più nordafricane, che incontro ogni martedì, da qualche settimana, nei corridoi e tra i banchi di una scuola elementare in zona ovest, la Luigi Cadorna, a Milano. Odori neutri. Cappottini appesi. Alberi dalle chiome tondeggianti dipinti dai bambini alle pareti. Memorie di scuola dimenticate. Nessun rimpianto da parte mia di un’infanzia che non è stata super felice.
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In questa scuola, coinvolta dagli amici Federico del Prete ed Ercole Gianmarco di Cyclopride e da Mamme a scuola Onlus, ci entro con la mia bicicletta. Due piani di scale e sono in un’aula di donne con gli occhi intensi, per lo più sorridenti, per lo più coperte da abiti che non lasciano intravedere le forme del corpo. Alcune con il velo. Donne egiziane, marocchine, eritree, ucraine. Che non hanno mai fatto sport. Che non sanno cosa significhi spostare il peso del corpo su una sola gamba e non cadere. Che non sono mai salite su una bicicletta. Nei Paesi di provenienza è fonte di imbarazzo, di vergogna. Una donna in bicicletta, nel Maghreb, sfida il comune senso del pudore. Provoca, ostentando le sue forme. Nega la modestia che l’Islam impone all’estetica. Corre il rischio di essere colpita o malamente apostrofata.

mamme in bici verticale il lato bici mariateresa montaruli
“Mi chiamo XY e ho 32 anni”, racconta una di loro. “Mi sono iscritta a questo corso per imparare ad andare in bicicletta. Mi piacerebbe saper pedalare. In Egitto non abbiamo le biciclette. Nella nostra cultura, gli uomini godono di libertà, le donne no. Il rischio, per noi, è quello di incorrere in molestie verbali. Per questo le ragazze hanno paura di andare in bicicletta: temono di essere apostrofate in modo volgare. Io son qui per cercare di rompere la regola. Mi piacerebbe fare anche dello sport, una cosa nuova per me. Vorrei far parte della cultura italiana, imparare e non essere qui semplicemente per mangiare e dormire. Sono qui per integrarmi. Posso dare, non solo prendere. Da qui posso poi trasmettere alla mia comunità in Egitto l’idea che l’Occidente non è poi così male…”.

A questa giovane donna con il velo e alle altre ho chiesto qualche martedì fa di sedersi su una sella che avevo smontato da una delle mie bici. Un selllino comodo, largo e da donna, con cui bisognava sciogliere il ghiaccio. Eppure, non tutte hanno osato provarlo. Imbarazzo, vergogna, retaggio, esitazione?
Il sellino non va demonizzato, ho detto: è solo il posto dove poggiamo le ossa ischiatiche che sostengono la colonna, non le parti più delicate del sesso. Ossa di cui sono dotati anche gli uomini. Che problema c’è a poggiare le ossa su un supporto di pelle e schiuma? Avreste paura ad appoggiarci un gomito?

All’incontro successivo erano arrivate dalla Sicilia le biciclette Lombardo Bikes, il costruttore che le ha offerte al progetto Mamme in bici -arriveranno poi le rastrelliere fornite dal Politecnico, gli antifurti di Abus, le selle d’artista regalate da Selle Royal e Girolibero da mettere all’asta-. Le abbiamo montate: sella e reggisella, manubrio e campanello, usando chiavi e brugole. I pedali lasciati per il momento da parte. Con Federico e le altre operatrici, studentesse dell’Università Bicocca, abbiamo chiesto alle future cicliste urbane di camminare: sedute sul sellino, senza i pedali, per cominciare a prendere velocità, sollevare di poco le gambe, tenere il manubrio dritto, provare i freni.

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Alla fine, erano tutte stanche. Titubanti, arrossate, dubbiose che si possa manovrare un manubrio senza cadere. Certe solo che il velo non chiuda l’angolo visuale in curva. “Non sapevo che anche in Europa la bicicletta fosse un tempo malvista”, mi dice una di loro.

Ignorano le nostre allieve che le donne cominciarono più agilmente ad andare in sella solo intorno al 1885 quando le ruote dei primi velocipedi divennero più piccole, ovvero quando le biciclette si dotarono di catena a trazione posteriore.
Non sanno che un articolo del New York World di quegli anni consigliava, nel suo ciclo galateo, di “non urlare se vedi una mucca in bicicletta, sarà lei a scappare per prima”. O che l’affermarsi della bici in Europa sia intrecciato a doppio filo con le rivendicazioni dei movimenti femministi.
In bici diventiamo tutti uguali: liberi nei movimenti, di riappropriarci del corpo, di andare e venire. In Europa, la percentuale di donne che va in bicicletta raggiunge il 49% in Germani e il 55% nei Paesi Bassi.

In Arabia Saudita è consentito alle donne di pedalare a solo scopo ricreativo, in spazi delimitati, parchi e aree di ricreazione, “only around in circles” ironizzava un titolo del Guardian di qualche tempo fa, ma non per recarsi in alcun luogo e soprattutto mai da sole. In Corea del Nord e Iran è reato. In Africa, sulle grandi distanze, la bici salva vite, regala mobilità, accorcia i tempi di percorrenza tra villaggi, case, mercati e scuole. Eppure è poco usata perché considerata pericolosa – la Fédération Routière International stima che il 45% degli incidenti in Africa coinvolga veicoli non motorizzati-, fonte di paura, poco agile da inforcare con le tuniche proprie ad alcune culture.

Che ben vengano allora i film come La bicicletta verde di Haifaa al Mansour, i documentari come Mama Agatha sulle lezioni di bici alle donne migranti ad Amsterdam. Che ben escano nelle sale Afghan Cycles di Sarah Menzies che con l’associazione umanitaria Mountain2Mountain dal 2013 ha seguito dagli esordi la prima squadra di cicliste afghane e l’italiano Voglio una ruota sulla bicicletta al femminile che ha destinato al nostro Mamme in bici parte del suo crowdfunding.

La bicicletta come sfida alla regola manifesta e segno di autoaffermazione? Per ora mi basta pensare che quella donna di 32 anni che martedì ha imparato a camminare senza i pedali, e che in arabo mi ha insegnato a dire “faccio la giornalista”, possa andarci a fare la spesa, farsi un giro in un giorno di sole. Sentire che la sella, fuori e dentro metafora, non fa poi così male.

fonte: IoDonna

mercoledì 9 marzo 2016

Tremate. Tremate le streghe son tornate.

storia di uno slogan

di Bia Sarasini

Era l’otto marzo 1976.
Le riunioni avevano preso un ritmo frenetico, tra fine febbraio e inizio marzo 1976. 
Quelle del mio collettivo di lettere e filosofia, a Roma, che continuavo a frequentare anche se ero già laureata e anzi, ero ormai dall’altra parte: con la qualifica di “esercitatore” lavoravo come assistente di antropologia.
Poi c’erano le riunioni dei collettivi universitari.
E infine gl’intercollettivi, ci incontravamo da tutta la città, Pompeo Magno come Il gruppo della Salute di San Lorenzo, o la Commissione cultura.
Preparavamo l’otto marzo.

Ricavo queste notizie dalla mia agenda di quell’anno, su cui ho ritrovato appuntamenti e orari.
Eravamo entusiaste, eccitate, convinte di fare qualcosa di nuovo, importante.

Qualche mese prima, nel dicembre 1975, c’era stata una grande manifestazione, eravamo solo noi donne, noi ragazze, senza i nostri compagni maschi. Li avevamo tenuti fuori, io ero nei cordoni che avevano resistito, che avevano respinto assalti anche rabbiosi, ne avevo ricavato una grande soddisfazione, un senso di forza mai provato prima.



In febbraio le studentesse delle scuole medie erano scese in piazza, per la prima volta da sole. “Le streghe siamo noi” era uno dei loro slogan. Aveva colpito i giornalisti e le giornaliste, che l’avevano riportato nelle cronache, ci sono anche delle foto dei cartelli, avevano cominciato a seguire attentamente questo strano movimento di donne ribelli. Come tanti uomini che ci guardavano dai marciapiedi e spesso ci insultavano.
E di streghe si parlava, si leggeva.

Avevamo letto La strega di Jules Michelet, avevamo scoperto la strage delle nostre simili, avvenuta nei tribunali e nei roghi dell’Inquisizione in tutta Europa. Nelle riunioni avevamo deciso che dovevamo presentarci come streghe. Ci erano piaciute, le studentesse medie.

Mi ricordo l’incontro del nostro collettivo di lettere per preparare striscioni, e slogan da ritmare nel corteo. Era il 4 marzo, risulta dall’agenda.
Eravamo all’aperto, nel piazzale della Minerva della Sapienza. Una del gruppo dice: Bello Le streghe siamo noi, ma non possiamo, dice un’altra, c’è già. E allora, dice un’altra, hai presente quella foto di un cartello americano? Witches are coming back, Le streghe sono tornate, va bene no?
A me non piaceva, non mi suonava bene. Ma no, è troppo piatto dico, ci vuole qualcosa di più. E, mi ricordo benissimo, ogni volta che lo racconto mi succede di nuovo, mi sentì attraversare come da un brivido, una forza ridente, sfidante. Ci vorrebbe qualcosa, dico, qualcosa che non faccia stare tranquilli, ecco qui il brivido: tremate…
E subito fu ripreso dalle altre, tutte: “Tremate. Tremate le streghe son tornate”.
Nel corteo lo slogan rimbalzò dall’una all’altra. Ognuna lo sentì suo.


Era l’otto marzo 1976. La più grande manifestazione del femminismo italiano.

*Per il controllo delle date a supporto dei miei ricordi, ringrazio le amiche di Archivia, del centro di documentazione della Casa Internazionale delle donne di Roma. In particolare sono state preziose l’agenda di Edda Billi, e la rassegna stampa dell’epoca da lei raccolta e conservata.


(e allora lo voglio ricordare al completo quello slogan che sentivo e urlavo anche io con le altre delle medie. dunque, era così: "tremate, tremate, le streghe son tornate, a vendicar le donne dall'uomo violentate. si! si! si! le streghe siamo noi, ma a bruciar sul rogo ci manderemo voi")

lunedì 7 marzo 2016

L'assassinio di Berta Caceres


Solidarietà con il popolo Lenca

Con immenso dolore comunichiamo l'assasinio di Berta Caceres, amica honduregna, esempio lumonoso di vita spesa al servizio dei più deboli.

Berta Cáceres, leader del Consiglio delle organizzazioni popolari e indigene dell’Honduras (Copinh), da oltre vent’anni rischiava la vita per difendere lo straordinario patrimonio culturale e ambientale del popolo Lenca, tra i più antichi del continente.
Lo scorso aprile è stata insignita del Premio Goldman per l’Ambiente, il più alto riconoscimento assegnato agli ecoattivisti per le vittorie conseguite nel proprio contesto comunitario.
Alla guida della comunità di Rio Blanco, Cáceres ha estromesso l’impresa nazionale Desa e i maggiori costruttori di dighe al mondo, i cinesi di Sinohydro, dalla realizzazione del complesso idroelettrico Agua Zarca, previsto sul Rio Gualcarque, nell’Honduras Nord-occidentale. Un fiume sacro nella cosmogonia Lenca, fonte d’acqua per circa 600 famiglie che vivono nella foresta pluviale d’alta quota compresa fra i dipartimenti di Santa Barbara e Intibucà.
Senza il loro consenso, l’impianto era stato autorizzato contravvenendo alla Convenzione Ilo 169 del 1989 sul diritto all’autodeterminazione dei popoli indigeni.
Per oltre un anno, i nativi hanno bloccato l’accesso al cantiere resistendo a sgomberi, aggressioni, arresti, torture.

Presentato ricorso all’International finance corporation (Ifc), ente finanziatore e braccio privato della Banca Mondiale, la leader indigena ha portato il caso fino alla Commissione dei diritti umani interamericana.
L’ennesimo omicidio di un membro del Copinh ha convinto la Sinohydro a sciogliere il contratto e l’Ifc a ritirare i fondi. Un traguardo importante, strappato col sangue.

Berta Cáceres ha subìto minacce di morte e portato i figli in Argentina per scongiurare il rischio sequestri. Accusata di terrorismo, è stata arrestata e perseguitata giuridicamente dal governo. Ciò nonostante, è diventata un riferimento per la causa indigena, da lei perorata di fronte alla Corte europea di Strasburgo, alla Banca Mondiale e lo scorso novembre in Vaticano.
Dopo infinite minacce di morte, la scorsa notte Berta è stata assassinata nella sua casa. 

Averla conosciuta e accompagnata per un breve tratto di strada ci rende orgogliosi, commossi, grati.
Ci stringiamo attorno alla sua famiglia, al popolo lenca, a tutti quelli che l'hanno conosciuta, stimata, amata.
Berta Caceres vivrà per sempre nei nostri cuori.
Chi c'è dietro questo omicidio?

Dal comunicato stampa dei figli e della madre di Berta Caceres
"Responsabilizziamo l'impresa DESA, così come gli organismi finanziari internazionali che  sostengono il progetto, Banco Olandese FMO, Finn Fund, BCIE, Fichohsa, e le imprese compromesse CASTOR, Gruppo impresario ATALA, della persecuzione, la criminalizzazione, l'istigazione, le continue minacce di morte contro la sua persona, la nostra e del progetto COPINH. Responsabilizziamo lo Stato honduregno di aver oscacolato notevolmente la protezione della nostro Bertha, e di aver portato alla persecuzione, criminalizzazione e omicidio. Avendo scelto di tutelare gli interessi delle società di cui sopra delle decisioni e mandati della comunità."


articolo di Lorenzo Brenna postato su lifegate.it

Omicidio Berta Cacéres, in pericolo l’unico testimone, bloccato in Honduras - LifeGate

L’attivista messicano Gustavo Castro Soto, testimone del delitto, è stato fermato all'aeroporto mente cercava di tornare in Messico. E accusa la polizia di aver alterato la scena del crimine. 

L'attivista Gustavo Castro SotoIl popolo honduregno sta ancora piangendo la morte di uno dei suoi leader più carismatici e influenti, Berta Cacéres, la militante ecologista uccisa a colpi di arma da fuoco lo scorso 3 marzo.
La scia di sangue potrebbe però allungarsi ulteriormente in quello che la ong Global Witness ha definito il posto più pericoloso per un attivista ambientale.

Ad essere in pericolo è Gustavo Castro Soto, attivista messicano appartenente alle organizzazioni non governative Otros Mundos, Amigos por la Tierra México, Rema, la Rete messicana dei danneggiati dalle miniere nata in Chiapas nel giugno 2008 e il Movimento Mesoamericano contro il Modello Estrattivo Minerario (M4).
L’uomo è l’unico testimone dell’omicidio della Cacéres, quella notte infatti era ospite in casa della donna, l’indomani avrebbero dovuto partecipare insieme ad un incontro sulle energie rinnovabili.

Quando il commando armato è penetrato nell’abitazione e ha ucciso la leader del Copinh (Consejo Civico de Organizaciones Populares e Indigenas de Honduras), Gustavo Castro Soto è stato ferito a una mano e a un orecchio e si è salvato fingendosi morto.
Soto potrebbe dunque fornire informazioni preziose per identificare gli assassini di Berta Cacéres, non è detto però che il governo honduregno cerchi questo tipo di informazioni. Proprio la madre dell’attivista uccisa ha dichiarato apertamente di ritenere il governo responsabile della morte della figlia.

Lo scorso 6 marzo l’uomo, sentendosi in pericolo, ha cercato di lasciare l’Honduras per tornare in Messico ma il governo glielo ha impedito, bloccandolo all’aeroporto di Tegucigalpa. Secondo le fonti governative l’attivista messicano sarebbe trattato come un testimone protetto, gli attivisti del Copinh sostengono invece che sia trattenuto contro la sua volontà.

Brerta Cacéres riceve il Goldman Environmental Prize
(nella foto a sinistra Berta Cacéres, premiata nel 2015 con il Goldman Environmental Prize per aver bloccato la costruzione di una diga che avrebbe isolato la comunità dalle sue risorse naturali)

Gustavo Castro Soto, al quale l’Honduras dovrebbe “assicurare l’integrità fisica per tutto il periodo necessario a preparare e completare il suo allontanamento dal Paese”, secondo la Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh), è stato condotto a La Esperanza, dove è stata uccisa la Cacéres, per essere nuovamente interrogato dai pubblici ministeri. Secondo la denuncia di Otros Mundos Chiapas, il governo honduregno non avrebbe spiegato ufficialmente per quale motivo il cittadino messicano sia trattenuto nel Paese.

“Viene trattenuto perché vorrebbero usarlo per manipolare la sua versione dei fatti”, fanno sapere fonti vicine alla famiglia Cacéres. Dal canto suo la procura ha iscritto nel registro degli indagati un militante del Copinh, l’organizzazione delle popolazioni indigene, che Berta Cacéres aveva contribuito a fondare, teme che la magistratura voglia derubricare l’omicidio a “delitto passionale”.

“Gustavo Castro non viene trattato come una vittima di un tentato omicidio, la sua vita viene messa a rischio e gli viene negato il diritto alla libera circolazione”, si legge in un comunicato di Otros Mundos.

Silvio Carrillo, nipote della Cáceres, ha affermato che a Soto non è stato permesso di dormire né di cambiarsi gli abiti insanguinati dopo l’attacco, mentre lo stesso attivista messicano, al quale è stato offerto aiuto medico solo tre giorni dopo la sparatoria, ha affermato che la scena del crimine è stata alterata. Ha infine aggiunto che gli investigatori gli hanno chiesto di visionare delle immagini per identificare possibili sospetti, “ma con mio rammarico tutti i video e le foto che mi hanno mostrato ritraevano marce e manifestazioni del Copinh”.

Funerale di Berta Cacéres
Il popolo honduregno raccolto a lutto per la morte del suo leader Berta Cacéres
I quattro figli della Cacéres hanno evidenziato la necessità di una commissione internazionale imparziale “poiché è già stata dimostrata una mancanza di oggettività nel modo in cui sono state avviate le indagini nel Paese”. Nonostante le evidenti reticenze del governo un intero popolo chiede giustizia e la fine dell’impunità per i colpevoli, al grido di “Berta no muriò, se multiplicò”.

giovedì 3 marzo 2016

Lettera aperta di Eve Ensler


Sorelle e fratelli di questa meravigliosa terra sofferente,Vi scrivo con il cuore aperto, entusiasta e commossa.Vedo
 immagini di milioni di volti e corpi che ballano, avanzano, si piegano,
 con un’energia che è sacra e militante, profonda e gioiosa, radicale e 
resistente. In voi vedo il desiderio e la volontà di un miliardo di 
anime. Vedo lo splendore dei corpi che spezzano le catene del 
patriarcato, si liberano dalle strazianti violenze del razzismo, da ogni
 distinzione di casta e classe, dagli stupri e violenze fisiche, dalle 
baraccopoli, da ogni esclusione e intimidazione, dal silenzio, dalla 
schiavitù, dalla solitudine devastante e dall’isolamento, dalla 
disperazione economica.Vedo
 i corpi esausti dei profughi che improvvisamente diventano vivi mentre 
incontrano le sorelle che li accolgono per le strade d’Europa. Vedo 
donne rom orgogliose che guidano le danze della Croazia.Vedo
 le ragazze del centro di apprendimento di Kabul che muovono i loro 
corpi al ritmo della protesta, riprendendosi la città e dimenticando gli
 invasori imperialisti e le guerre senza senso. Vedo le donne di 
Tocloban, sopravvissute alle tempeste causate dall’avidità e dal 
saccheggio, che si sollevano in difesa del clima. Vedo i corpi dei 
guerrieri indigeni Lumad che portano la loro manifestazione tribale di 
ribellione nella piazza di Davao City. Vedo che la loro danza è la danza
 delle nostre origini e poiché danzano per non essere cacciati dalle 
loro terre ancestrali, ci riportano a pensare a noi e a proteggere la 
terra.Vedo la danza che non ci 
farà mai dimenticare il movimento “Black Lives Matter”. Quando 
pronunciamo il Suo nome con le nostre voci e nei nostri ricordi, diventa
 impossibile per la polizia uccidere e far scomparire le donne di 
colore. Vedo corpi di donne in sedia a rotelle che non saranno fermati 
dal pregiudizio o dall’indifferenza. Vedo l'insistente e coraggiosa 
danza fluida di persone gay, bisessuali, queer e transgender. Vedo 
centinaia di città in Italia, Indonesia, India, Messico, Germania, e 
nelle Filippine che si sollevano, una dopo l'altra, accendendo fuochi in
 diversi paesi e culture. Vedo la danza inarrestabile dei giovani che si
 rifiutano di ereditare un mondo di odio e crudeltà, la loro danza che 
sa che l'istruzione è un diritto e i loro corpi forti non si 
accontenteranno. Vedo proteste di artisti radicali a Delhi, Dacca, 
Oakland, Atlanta, Santa Fe, San Francisco, Londra e Città del Guatemala,
 sono cantanti, batteristi, poeti, attori, ballerini, artisti hip-hop 
con le loro danze di rottura che aprono nuovi spazi e visioni. Vedo le 
organizzatrici, estremamente generose, e coloro che insegnano e guidano 
le danze sui palcoscenici, nei parchi, nelle sale prova, nelle palestre 
di zumba e yoga, portando nelle case per anziani quella musica che mette
 in moto i piedi e accende la passione di donne centenarie le cui sedie a
 rotelle prendono il volo. Vedo le famiglie in lutto dei lavoratori che 
sono bruciati nelle fabbriche non sicure e sepolti sotto le macerie di 
edifici fatiscenti; vedo lavoratori che marciano e danzano con i pugni 
alzati, abbattendo i cancelli di metallo delle fabbriche, ballando la 
danza della giustizia, della sicurezza e della dignità; e vedo le 
ragazze, le bambine dei quartieri poveri di Tondo dire che siamo di più,
 che non vogliamo più solo la spazzatura e il carbone sporco che 
scaricate davanti alle nostre case e nei nostri polmoni. Vedo le donne e
 le ragazze del Gambia e di tutta l’Africa che si oppongono 
all’infibulazione, ispirando decreti presidenziali e nuove leggi. Sento 
l’energia cosmica di 5000 ragazze e suore gridare con gioia mentre le 
loro uniformi bianche e blu si alzano come ali di uccelli bellissimi che
 le sollevano nei cieli della sorellanza.Vedo
 gli uomini di tutto il mondo, migliaia di uomini che danzano da veri 
uomini, una danza vulnerabile,  altruista,  una danza senza vergogna…Vedo
 il rosso brillante dei palloncini, degli ombrelli e  dei fiori, di 
bandiere e fasce alle braccia trasportati dal vento del nostro futuro. 
Vedo donne infagottate per le strade innevate dell’Austria, del Colorado
 e donne grondanti di sacro sudore in Asia, Africa e Caraibi. Vedo 
bambini con un dito alzato nelle scuole elementari, lungo le strade 
polverose dell’Africa, tra le montagne di Himachal Pradesh, nei licei 
italiani, in quelli di danza austriaci. Li vedo sollevarsi a centinaia 
nelle verdi terre fertili del Congo per porre fine alla violenza contro 
le donne, la terra e la guerra per il saccheggio delle loro risorse.Vedo
 le donne rischiare la vita per insegnare e portare l’istruzione in 
Somalia, in Iran, in piccoli villaggi, e mentre ballano tessono un 
percorso sicuro per coloro che verranno. Vedo la danza quotidiana di un 
gruppo di esuberanti, divertenti, brillanti creativi coordinatori 
globali e organizzatori locali che hanno dato ogni goccia del loro 
sangue e delle loro vite per incoraggiare, unire, promuovere e 
potenziare.Vedo ballare, vedo 
come il terrore che vive nel corpo di un miliardo di persone, il dolore,
 la contrazione, si trasformi improvvisamente in coraggio, diventi 
gioia, si apra, diventi potente nell'alchimia della comunità.Vedo
 noi, un miliardo di noi abbandonare la paura, aver fiducia nella 
generosità,  ascoltarci reciprocamente e seguire nostra madre che guida 
con il cuore i nostri passi mentre stiamo ballando sul suo corpo gentile
 affidandole i nostri corpi che hanno sempre saputo che c’è un altro 
modo, un modo senza dominazione o privazione.Sento
 un’esplosione, non bombe o granate o devastazione capitalistica, ma 
un’esplosione di luce,  una luce carnale, mistica, fisica, un’esplosione
 di fiducia, di amore, di celebrazione e rivoluzione. Ballando la nostra
 danza con il cuore aperto e imparando i passi degli altri, la loro 
strada, le sofferenze e la forza. I nostri corpi stanno aprendo ogni 
barriera. Ci stiamo muovendo, ci stiamo alzando, fino a quando 
riusciremo a spezzare ogni catena e ad andare oltre.Con amore EveQui potete leggere la lettera di Eve in lingua originale  http://www.onebillionrising.org/36744/obr-2016-letter-eve/
Sorelle e fratelli di questa meravigliosa terra sofferente, Vi scrivo con il cuore aperto, entusiasta e commossa.
Vedo immagini di milioni di volti e corpi che ballano, avanzano, si piegano, con un’energia che è sacra e militante, profonda e gioiosa, radicale e resistente. In voi vedo il desiderio e la volontà di un miliardo di anime.
Vedo lo splendore dei corpi che spezzano le catene del patriarcato, si liberano dalle strazianti violenze del razzismo, da ogni distinzione di casta e classe, dagli stupri e violenze fisiche, dalle baraccopoli, da ogni esclusione e intimidazione, dal silenzio, dalla schiavitù, dalla solitudine devastante e dall’isolamento, dalla disperazione economica.
Vedo i corpi esausti dei profughi che improvvisamente diventano vivi mentre incontrano le sorelle che li accolgono per le strade d’Europa. Vedo donne rom orgogliose che guidano le danze della Croazia.
Vedo le ragazze del centro di apprendimento di Kabul che muovono i loro corpi al ritmo della protesta, riprendendosi la città e dimenticando gli invasori imperialisti e le guerre senza senso.
Vedo le donne di Tocloban, sopravvissute alle tempeste causate dall’avidità e dal saccheggio, che si sollevano in difesa del clima.
Vedo i corpi dei guerrieri indigeni Lumad che portano la loro manifestazione tribale di ribellione nella piazza di Davao City.
Vedo che la loro danza è la danza delle nostre origini e poiché danzano per non essere cacciati dalle loro terre ancestrali, ci riportano a pensare a noi e a proteggere la terra.
Vedo la danza che non ci farà mai dimenticare il movimento “Black Lives Matter”. Quando pronunciamo il Suo nome con le nostre voci e nei nostri ricordi, diventa impossibile per la polizia uccidere e far scomparire le donne di colore.
Vedo corpi di donne in sedia a rotelle che non saranno fermati dal pregiudizio o dall’indifferenza.
Vedo l'insistente e coraggiosa danza fluida di persone gay, bisessuali, queer e transgender.
Vedo centinaia di città in Italia, Indonesia, India, Messico, Germania, e nelle Filippine che si sollevano, una dopo l'altra, accendendo fuochi in diversi paesi e culture.
Vedo la danza inarrestabile dei giovani che si rifiutano di ereditare un mondo di odio e crudeltà, la loro danza che sa che l'istruzione è un diritto e i loro corpi forti non si accontenteranno.
Vedo proteste di artisti radicali a Delhi, Dacca, Oakland, Atlanta, Santa Fe, San Francisco, Londra e Città del Guatemala, sono cantanti, batteristi, poeti, attori, ballerini, artisti hip-hop con le loro danze di rottura che aprono nuovi spazi e visioni.
Vedo le organizzatrici, estremamente generose, e coloro che insegnano e guidano le danze sui palcoscenici, nei parchi, nelle sale prova, nelle palestre di zumba e yoga, portando nelle case per anziani quella musica che mette in moto i piedi e accende la passione di donne centenarie le cui sedie a rotelle prendono il volo.
Vedo le famiglie in lutto dei lavoratori che sono bruciati nelle fabbriche non sicure e sepolti sotto le macerie di edifici fatiscenti; vedo lavoratori che marciano e danzano con i pugni alzati, abbattendo i cancelli di metallo delle fabbriche, ballando la danza della giustizia, della sicurezza e della dignità; e vedo le ragazze, le bambine dei quartieri poveri di Tondo dire che siamo di più, che non vogliamo più solo la spazzatura e il carbone sporco che scaricate davanti alle nostre case e nei nostri polmoni.
Vedo le donne e le ragazze del Gambia e di tutta l’Africa che si oppongono all’infibulazione, ispirando decreti presidenziali e nuove leggi. Sento l’energia cosmica di 5000 ragazze e suore gridare con gioia mentre le loro uniformi bianche e blu si alzano come ali di uccelli bellissimi che le sollevano nei cieli della sorellanza.
Vedo gli uomini di tutto il mondo, migliaia di uomini che danzano da veri uomini, una danza vulnerabile,  altruista,  una danza senza vergogna…
Vedo il rosso brillante dei palloncini, degli ombrelli e  dei fiori, di bandiere e fasce alle braccia trasportati dal vento del nostro futuro. Vedo donne infagottate per le strade innevate dell’Austria, del Colorado e donne grondanti di sacro sudore in Asia, Africa e Caraibi. Vedo bambini con un dito alzato nelle scuole elementari, lungo le strade polverose dell’Africa, tra le montagne di Himachal Pradesh, nei licei italiani, in quelli di danza austriaci. Li vedo sollevarsi a centinaia nelle verdi terre fertili del Congo per porre fine alla violenza contro le donne, la terra e la guerra per il saccheggio delle loro risorse.Vedo le donne rischiare la vita per insegnare e portare l’istruzione in Somalia, in Iran, in piccoli villaggi, e mentre ballano tessono un percorso sicuro per coloro che verranno.
Vedo la danza quotidiana di un gruppo di esuberanti, divertenti, brillanti creativi coordinatori globali e organizzatori locali che hanno dato ogni goccia del loro sangue e delle loro vite per incoraggiare, unire, promuovere e potenziare.Vedo ballare, vedo come il terrore che vive nel corpo di un miliardo di persone, il dolore, la contrazione, si trasformi improvvisamente in coraggio, diventi gioia, si apra, diventi potente nell'alchimia della comunità.
Vedo noi, un miliardo di noi abbandonare la paura, aver fiducia nella generosità,  ascoltarci reciprocamente e seguire nostra madre che guida con il cuore i nostri passi mentre stiamo ballando sul suo corpo gentile affidandole i nostri corpi che hanno sempre saputo che c’è un altro modo, un modo senza dominazione o privazione.

Sento un’esplosione, non bombe o granate o devastazione capitalistica, ma un’esplosione di luce,  una luce carnale, mistica, fisica, un’esplosione di fiducia, di amore, di celebrazione e rivoluzione. Ballando la nostra danza con il cuore aperto e imparando i passi degli altri, la loro strada, le sofferenze e la forza. I nostri corpi stanno aprendo ogni barriera.
Ci stiamo muovendo, ci stiamo alzando, fino a quando riusciremo a spezzare ogni catena e ad andare oltre.
Con amore Eve

fonte: OneBillionRisingItalia
QUI potete leggere la lettera di Eve in lingua originale