lunedì 27 gennaio 2014

Libro: Il delitto del Circeo (2a parte)

4. Il processo a Latina

Il delitto ed il processo per i fatti del Circeo rappresentano, per il movimento femminista, un’occasione imperdibile per richiamare l’attenzione dei mezzi di informazione e dell’opinione pubblica sul ruolo che le donne occupano all’interno della società italiana. Un evento così forte, così scioccante rappresenta un’ottima occasione per denunciare il profondo squilibrio di potere esistente nei rapporti uomo-donna, per mettere in evidenza la posizione di inferiorità in cui tutte le donne vivono e sono costrette a vivere dagli uomini, per denunciare l’atavico dominio maschile che tutte le donne subiscono in ogni ambito della vita quotidiana, dentro e fuori casa, un dominio che spesso si trasforma in violenza.

La giornalista e scrittrice radicale Maria Adele Teodori, nel 1977, pubblica un saggio dal titolo molto esplicito "Le violentate", nel quale ricostruisce i casi di stupro e di violenza verificatisi in Italia nell’arco di un anno e mezzo. La reale entità del fenomeno è difficilmente misurabile, a causa della totale assenza di dati e di statistiche ufficiali. Di conseguenza, i casi di cronaca e i processi per stupro rappresentano gli unici elementi concreti a cui poter fare riferimento per avviare un più ampio discorso della condizione femminile nella società.

Per presentare il caso del delitto del Circeo, l’attenzione della giornalista si concentra su ciò che succede in aula, durante il processo, e sulla presenza e sul ruolo giocato dalle femministe:

imponente è lo schieramento degli avvocati, una ventina, sia per gli imputati che per la parte civile, assiepati su due banchi. Ma più imponente
è la partecipazione femminista. L’eco del delitto del Circeo non si è mai spento. Anzi. A parte le polemiche ad alto livello socioantropologico, già nel sit-in del 5 ottobre in piazza Navona, qualche giorno dopo il delitto, le femministe romane avevano definito un crimine politico l’uccisione di Rosaria e l’avevano commemorata in modo inedito, narrando pubblicamente al microfono le loro esperienze quotidiane di violenza (14).

Durante il processo, le femministe si presentano regolarmente in aula, numerose e attente, per seguirne lo svolgimento; sono scatenate, vogliono far sentire la loro voce, urlano e scandiscono slogan, sia per le strade di Latina sia dentro l’aula: ed eccole, alle nove, arrivare in corteo al tribunale di Latina, con cartelli e slogan: “Guido, Izzo, Ghira sono normali, sono il prodotto dei valori patriarcali”, invadere l’aula, scavalcare le transenne. (...) Nella gabbia degli imputati c’è Angelo Izzo. Gianni Guido ha preferito restare in carcere. Il terzo, Andrea Ghira, è latitante. (...) Qualcuna grida “assassino” ed “ergastolo”. Izzo ne approfitta dopo un’ora per chiedere di rientrare in carcere. Non si sente “sicuro”. (...) l’avvocato Rocco Mangia chiede che il processo si celebri in un’altra città, per “l’eccezionale turbamento dell’ambiente... per le inammissibili aggressioni morali e minacce di violenze fisiche... per l’atteggiamento aggressivo del pubblico e della stampa che ha trasferito la piazza in questa sede”, cosicché Angelo Izzo, “ridotto in stato di terrore, è stato costretto ad abbandonare l’aula” (15).

Il clima all’interno dell’aula del tribunale è sicuramente insolito, sconcerta gli avvocati della difesa e gli imputati stessi; gli attacchi nei confronti degli imputati sono continui, al punto che Izzo - unico accusato presente - preferisce uscire dall’aula.
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   (14) M.A., TEODORI, "Le violentate", Sugar, Milano 1977, pp. 26-27. 15 Ibidem.
   (15) Ibidem.


È difficile mantenere il silenzio in aula, le femministe urlano, insultano, interrompono spesso, facendo sentire continuamente la loro presenza; sono furiose e determinate a trasformare questo processo in un processo storico, questa vicenda in una vicenda epocale. Il loro obiettivo è riuscire a determinare un radicale cambiamento di mentalità nell’opinione pubblica ed anche riuscire a modificare la legge sulla violenza carnale, considerata dalla legge italiana un delitto contro la morale e non contro la persona.

Gli autori del delitto sono descritti in questo modo:

i seviziatori, quale atteggiamento hanno? Non è mai cambiato dal primo giorno: ironia, sguardi di sfida,  indifferenza. Angelo Izzo parla di una ragazzata, di un atto di cui non hanno saputo valutare le conseguenze
e accusa: “Donatella mente sapendo di mentire” (16).

Dal comportamento che ha e che continua ad avere, appare evidente che Izzo, uno dei responsabili della morte di Rosaria Lopez, dello stupro e delle sevizie ai danni di Donatella Colasanti, non ritiene di essere davvero in pericolo, non crede di rischiare una condanna pesante. Delegittimando la testimonianza della ragazza sopravvissuta, sminuisce i fatti e definisce una ragazzata la orribile serie di azioni violente e brutali, commesse
con spietata crudeltà da lui e dai suoi due compari, con la precisa intenzione di uccidere entrambe le ragazze.

Gli avvocati della difesa e i tre colpevoli sembrano non rendersi conto che questa volta il processo andrà diversamente, che la compiacenza della magistratura, il trattamento di favore nei loro confronti, che in passato c’è stato, in questo caso non ci sarà.
Durante il processo le cose andranno in modo differente perché responsabili e vittime, avvocati della difesa e dell’accusa, giudici e medici legali si trovano nell’occhio del ciclone, sono protagonisti, loro malgrado, di un evento mediatico.
L’attenzione dell’opinione pubblica, dei mezzi di comunicazione di massa e del movimento femminista è ostinatamente puntata su di loro. Non è possibile mettere a tacere gli avvocati   dell’accusa, attenuare i capi d’imputazione, insabbiare il procedimento.

Il delitto del Circeo non è un delitto come gli altri, non lo è mai stato, fin dall’inizio. Questa volta l’indifferenza,
l’arroganza, il disprezzo dei colpevoli verso le vittime non serviranno; questa volta non ci sarà nessuno dalla loro parte, non ci sarà nessuno disposto a prendere esplicitamente le loro difese.

Come è già stato fatto in processi analoghi, gli avvocati della difesa utilizzano questo tipo di argomentazioni: “Donatella non vi dico che è stata incauta ad andare con degli sconosciuti, non vi diremo che tutto questo non sarebbe avvenuto se la famiglia l’avesse tenuta un po’ più a freno...”(17) nel tentativo di addossare parte della colpa alle ragazze, colpevoli perché, invece di starsene tranquille a casa, vanno in giro in cerca di avventure e accettano inviti dagli sconosciuti.
Questa volta, in aula, non ci sono solo Izzo, Guido e Ghira da una parte e Donatella e Rosaria dall’altra; questa volta non si tratta solo di giudicare e condannare tre ragazzi ricchi e violenti, protagonisti di un festino dall’esito tragico, si tratta, piuttosto, di lanciare un segnale chiaro e privo di ambiguità a favore di un cambiamento, di un nuovo modo di considerare casi come questo.

Ecco le parole degli avvocati di parte civile:

questo è un delitto di gruppo con la sola filosofia della violenza come valore su cui costruire un ordine nuovo. È l’ideologia del pestaggio come mezzo di persuasione violenta. La violenza è l’attacco alla persona, alla dignità. (...) Noi siamo qui per Donatella, ma anche per qualcosa di più. È la società che ci interroga e vuol vedere come si chiude questo capitolo... Vi chiediamo nell’interesse di Donatella e di tutto il paese, in nome della cultura, di tutte le donne e dei cittadini di tutte le classi, di giudicarli rifiuti del genere umano (18).

Viene richiesta una condanna non solo penale nei confronti dei colpevoli ma anche e soprattutto una condanna morale, un giudizio severo e senz’appello: i tre assassini devono essere considerati come rifiuti del genere umano e come tali devono essere giudicati. Questa presa di posizione della giustizia italiana riguarda non solo il caso particolare di Donatella e Rosaria ma anche tutti i casi che vedono una donna vittima della violenza maschile. Il movimento femminista e le donne italiane di tutte le classi sociali, di tutte le età, di tutte le città, accomunate dal semplice fatto di essere donne, attendono l’esito finale di questo processo e si aspettano una condanna esemplare. La decisione che il giudice deve prendere riguardo ai tre pariolini neri rappresenta, per le femministe e per l’opinione pubblica, una tappa fondamentale di un lungo cammino verso un cambiamento nel modo di considerare la violenza esercitata degli uomini contro le donne.

L’arringa finale del pubblico ministero, Vito Giampietro, dura più di tre ore; la pena richiesta è l’ergastolo, per tutti e tre gli imputati:

basta leggere le cinquanta pagine delle perizie e degli interrogatori per accorgersi che questo processo abbia una sola soluzione netta e precisa: l’ergastolo (...) non vi è follia negli imputati; il delitto è lucido, freddo, attuato per un fine ben predeterminato, con una violenza scatenata, gratuita, irrefrenabile (19).

Dopo il processo, il giornalista Giuseppe Marrazzo intervista il Pm Giampietro:

“Lei non ha avuto esitazioni a chiedere l’ergastolo?”,
 il Pm: “Assolutamente”,
 Marrazzo: “Non le è passato per la mente neanche per un momento il bisogno di una perizia psichiatrica di tre giovani che uccidono in quel modo?”,
 il Pm: “Assolutamente no”,
 Marrazzo: “Perché?”,
 il Pm: “Perché li ritengo del tutto sani di mente” (20).

Secondo l’accusa, non è la follia la chiave interpretativa del delitto, non è la pazzia che può spiegare tutto quello che è successo. I tre ragazzi, responsabili della morte di Rosaria, non sono malati di mente perché hanno agito con freddezza e lucidità; erano consapevoli delle loro azioni e delle conseguenze a cui avrebbero portato.
La morte di entrambe le ragazze era l’obiettivo finale a cui volevano giungere, al termine della serata. I tre pregiudicati dovevano eliminarle perché soltanto la loro morte poteva garantirgli di non essere nuovamente accusati per reati di questo genere.
Dopo aver chiuso i due corpi nel bagagliaio della Fiat 127 e averli riportati a Roma, i tre assassini , con l’aiuto di altri complici, li avrebbero fatti sparire; le due ragazze sarebbero scomparse nel nulla. Non c’è follia, non c’è raptus omicida, anzi, al contrario, il piano è stato studiato, organizzato e attuato con estrema precisione. Tutto quello che è avvenuto, durante le lunghe ore trascorse dall’incontro a Roma fino al ritorno in città, non è altro che la fredda esecuzione di un piano escogitato in precedenza, che prevedeva un macabro obiettivo finale da raggiungere.
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   (16) Ivi, pag. 28.
   (17) Ivi, pag. 30.
   (18) Ivi, pp. 28-30.
   (19) Ivi, pag. 28.
   (20) Queste dichiarazioni sono tratte dal sito www.lastoriasiamonoi.rai.it, 1975: Il massacro del Circeo, l’omicidio Pasolini.



Prosegue così l’arringa finale del pubblico ministero:

È una manifestazione anomala di esercizio del potere: vero, effettivo, reale. Non di quello scritto e codificato, ma di quello del forte sul debole, dell’armato sull’inerme, del ricco sul povero, del maschio sulla femmina, del maschio dei Parioli sulle ragazze delle borgate. Rosaria e Donatella non sono per loro veri e propri esseri umani, sono un qualcosa di meno, a metà tra il paria e l’oggetto. Qualcosa con cui giocare e poi gettare, eliminare. Da questo solco scaturisce il fatto scatenante. Uccisero solo per assicurarsi l’impunità.
Non si trattava di ammazzare due simili, non avrebbero tenuto lo stesso comportamento con ragazze del loro ceto e quanto vi è in loro di brutale e di bestiale s’indirizza sulla sottospecie (21).
Non solo il delitto è stato organizzato bene ma, soprattutto, le vittime sono state scelte con cura, con una attenzione particolare. Non potevano essere prese due ragazze appartenenti alla stessa classe sociale dei tre assassini; per divertirsi, per sfogarsi, per picchiare e uccidere era necessario andare a caccia di due borgatare, non proprio due esseri umani ma qualcosa di meno, come afferma il Pm. Prendere, usare ed eliminare, questo è lo schema che intendevano seguire, ed hanno seguito, i tre pariolini. Il fatto che Donatella sia sopravvissuta è l’imprevisto che li ha incastrati, perché anche lei, come Rosaria, doveva morire.

Nell’arringa finale, il Pm amplia l’interpretazione data dalla stampa ovvero richiama i concetti, abbondantemente ripetuti dai giornalisti, della ricchezza e della provenienza sociale degli assassini ma mette in evidenza anche le convinzioni che i tre hanno nei confronti delle ragazze: sono povere, sono borgatare e, per questo, diverse, inferiori a loro; nei confronti delle due ragazze, metà donne e metà oggetto, si esercita il potere dell’uomo forte, ricco, armato, che gioca, usa e abusa di loro a proprio piacimento. Terminato il gioco, non resta che disfarsi dei giocattoli, gettarli via.
I capi d’imputazione nei confronti degli accusati sono: omicidio volontario, tentato omicidio, ratto a fine di libidine, violenza carnale continuata, detenzione di arma da fuoco.
La sentenza del 29 luglio 1976 conferma la richiesta di ergastolo per Angelo Izzo, Gianni Guido e Andrea Ghira, ancora latitante.
Al momento della lettura della condanna, in un aula stracolma, la reazione delle femministe è di gioia incontenibile, applausi irrefrenabili, urla entusiaste. Per le strade di Latina risuona il grido: “per le donne morte non basta il lutto, pagherete caro, pagherete tutto”. Il movimento femminista - la sua lotta contro il potere maschile e le leggi maschiliste - esce vittorioso e rafforzato dall’aula del tribunale di Latina ed è pronto a dare battaglia in altre aule di tribunale, nelle università, nelle fabbriche, per le strade, in ogni luogo pubblico.

La vicenda giudiziaria e umana dei tre assassini e di Donatella Colasanti, la ragazza superstite, merita di essere raccontata.
Ne riprenderò il resoconto più avanti, nel terzo capitolo.
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   (21) M.A. TEODORI, op. cit., pp. 28-29.



5. L’onda lunga del delitto del Circeo

A partire dagli anni Sessanta, all’estero, in particolare negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, il fenomeno delle donne maltrattate (battered women) viene studiato da sociologi, psicologi e giuristi; nel corso degli anni Settanta e Ottanta gli studi, le riviste accademiche e l’attenzione dell’opinione pubblica verso questo tema aumentano continuamente. Le istituzioni pubbliche finanziano centri di ricerca, che svolgono regolarmente la raccolta di dati statistici e studiano l’evoluzione del fenomeno, ed aprono diversi servizi di ascolto e di assistenza rivolti alle vittime di violenza. Ad oggi, la letteratura scientifica disponibile in inglese su questo tema è vastissima e le esperienze attive sul territorio, in Europa e non solo, sono molteplici e innovative.

In Italia, a partire dal delitto del Circeo e dal processo svoltosi nel 1976, soltanto i gruppi femministi ed alcune giornaliste “impegnate” politicamente iniziano a parlare di violenza contro le donne e gettano un po’ di luce su un fenomeno molto diffuso ma, al tempo stesso, nascosto e taciuto. A loro va riconosciuto il merito di aver attirato l’attenzione dell’opinione pubblica italiana su una realtà scomoda, del tutto ignorata dagli studiosi e dagli accademici, dai mass media e dalle istituzioni.

In Italia un tema come questo viene considerato “femminile” e, di conseguenza, viene trattato esclusivamente da donne: scrittrici, giornaliste, avvocate, esponenti e militanti politiche.
Continuo, quindi, ad utilizzare articoli, interventi e saggi non-accademici, dato che, in italiano, non viene pubblicato nulla di scientifico e di specifico sulla violenza contro le donne praticamente fino agli inizi degli anni Novanta.
Premessa l’assenza di studi accademici e di saggi firmati da uomini, a parte rarissime eccezioni, analizzo altri materiali dell’epoca caratterizzati da due tratti immancabili: chi scrive è una donna ed è schierata politicamente a sinistra. Restando in ambito italiano, si tratta di una scelta obbligata.

In una lettera pubblicata su “Il Manifesto”, pochi giorni dopo il massacro del Circeo, intitolata La violenza dell’uomo sulla donna è, di per sé, un fatto politico (22) , il Collettivo Femminista di via Cherubini di Milano sostiene una tesi simile a quella di Pasolini: la particolare attenzione suscitata dal delitto del Circeo e l’ampio spazio che ha trovato sulla stampa italiana non sono dipesi dalla particolare crudeltà e spettacolarità dell’accaduto ma, piuttosto, dalla provenienza sociale degli assassini, figli della ricca borghesia romana, e dalla loro appartenenza ai gruppi fascisti.
I giornalisti hanno interpretato questo episodio di violenza carnale sulle donne come un “fatto politico”, condannando la violenza fascista.
Il Collettivo Femminista non accetta questa interpretazione dei fatti e, così come ha denunciato anche Dacia Maraini, sostiene che: molti fatti simili di violenza carnale sulle donne accadono ogni giorno ma vengono confinati nella cronaca nera.

La stampa italiana non ritiene degni di nota e di interesse gli stupri che le donne subiscono con preoccupante regolarità. Oltre alla mancanza di attenzione nei confronti del fenomeno della violenza carnale, il Collettivo Femminista critica la spiegazione, superficiale e riduttiva, che di solito viene data:

L’uccisione di una donna, le aggressioni che le donne subiscono quotidianamente restano quasi sempre “fatti privati” dove agisce il “caso” (“è toccato a lei ma poteva accadere a chiunque”) o gli “imprevisti” di una società che ha le sue disfunzioni (il solito maniaco, un disadattato, ecc.).
È opinione comune, è risaputo che ci sono uomini pericolosi in giro, maniaci sessuali o disadattati, che scelgono a caso una donna tra le tante, la aggrediscono e la stuprano. Sono cose che succedono e le donne farebbero bene a stare più attente quando vanno in giro da sole, magari la sera, perché lo fanno a loro rischio e pericolo.

Se questa è la lettura della realtà, di conseguenza, la società italiana non ritiene di trovarsi di fronte ad un fenomeno preoccupante, che costituisce un problema di ordine pubblico e che merita di essere considerato e valutato nella sua gravità perché danneggia tutti i cittadini. L’opinione pubblica e le istituzioni sembrano, piuttosto, accettare tutto questo come qualcosa di abituale, di inevitabile, che fa parte della quotidianità. Nelle pagine di cronaca nera, la stampa si limita a registrare il susseguirsi di singoli episodi violenti, così come registra gli incidenti stradali o i furti in appartamento, senza stupirsi o interrogarsi.
Definendo la violenza carnale un fatto privato, il Collettivo Femminista vuole sottolineare la profonda distanza che esiste tra ciò che si verifica sulla scena pubblica ed è noto all’opinione pubblica e ciò che, al contrario, avviene ai margini dell’ambito pubblico e tra le mura domestiche e che, quindi, non merita attenzione, rimanendo nascosto, celato. Le violenze inflitte alle donne sono vicende private, che riguardano le persone direttamente coinvolte, l’uomo aggressore, che solitamente resta impunito, e la donna stuprata, che non denuncia la violenza subita, ed anche, in ambito domestico, il marito brutale e la moglie picchiata.
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   (22) Collettivo femminista di Via Cherubini, "La violenza dell’uomo sulla donna è, di per sé, un fatto politico", in “Il Manifesto”, 12 ottobre 1975.



Il quartiere e la città in cui si verificano gli stupri e i maltrattamenti in famiglia e, più in generale, la società civile ed il governo italiano non si sentono chiamati in causa, anzi sono del tutto indifferenti verso la sofferenza delle vittime e l’impunità dei responsabili.
Dato il disinteresse della società, dei partiti politici e delle istituzioni pubbliche verso le donne che subiscono violenza, il movimento femminista avverte l’esigenza di far emergere dal silenzio, di portare alla luce del sole vicende intime e personali che hanno e devono avere un peso e una rilevanza per tutta la società italiana. Non si tratta di prestare attenzione ad un singolo caso ma, al contrario, si tratta di denunciare l’ingiustizia su cui si fondano i rapporti tra gli uomini e le donne, di svelare lo squilibrio di potere che caratterizza la società italiana e che porta, come conseguenza, all’agire violento dell’uomo contro la donna. Di seguito, le tesi sostenute dal Collettivo Femminista:

Noi diciamo:

- Che la violenza carnale è solo l’aspetto più vistoso di una violenza che le donne subiscono quotidianamente.
- Che questa violenza nasce dal dominio che l’uomo ha consolidato storicamente nei suoi rapporti con la donna.
- Che si tratta di un rapporto di potere che consente possibilità di esprimersi e affermarsi a un sesso solo, con conseguente cancellazione, o comunque limitazione, dei bisogni dell’altro sesso.

Il rapporto tra uomini e donne è profondamente segnato dalla violenza; la struttura gerarchica, che regola i rapporti tra loro, si fonda sulla superiorità e sul dominio dell’uomo nei confronti della donna. Le relazioni tra i sessi sono caratterizzate da un antico e radicato squilibrio di potere:
da sempre l’uomo esercita il proprio potere sulla donna, ricorrendo anche alla violenza fisica;

da sempre la condizione della donna è una condizione di inferiorità e di sottomissione.

Inoltre, nella società italiana il potere maschile è esclusivo:

soltanto agli uomini è data la possibilità di esprimersi, di affermarsi, di essere protagonisti sulla scena pubblica; alle donne spetta un ruolo secondario, subalterno, vivono confinate in casa e subiscono una forte limitazione nella possibilità di affermarsi e di realizzarsi. I bisogni maschili devono essere sempre considerati e soddisfatti, i bisogni femminili sono inascoltati, insoddisfatti o addirittura cancellati. La società italiana è una società costruita esclusivamente a misura d’uomo, in cui la presenza della donna è considerata marginale, se non irrilevante.

Continuando nell’analisi della contrapposizione tra ambito pubblico e ambito privato, il Collettivo Femminista afferma che la violenza che nasce dal dominio dell’uomo sulla donna è di “per se stessa” un fatto politico.
In questa affermazione, l’aggettivo “privato” viene utilizzato come contrario dell’aggettivo “politico” e politico equivale a pubblico.

Come abbiamo visto in precedenza, la stampa italiana utilizza l’aggettivo “politico” come sinonimo di “ideologico”, facendo riferimento ad una ideologia fascista per descrivere gli assassini ed il loro comportamento.
Ora ci troviamo di fronte ad un uso diverso degli stessi termini; per capire meglio il punto di vista femminista, riportiamo le affermazioni del movimento femminista romano:

(rifiutiamo) di accettare la divisione fra il sociale e il privato operato dalla società maschile per ghettizzare le donne. Una politica ben precisa che viene esercitata sia a livello ideologico di massa per cui il matrimonio, la sessualità, i rapporti interpersonali, il lavoro domestico non sono problemi politici, sia a livello individuale, per cui lo stupro e la violenza di cui siamo oggetto vengono minimizzati e tollerati (23).

Il matrimonio, la sessualità, il lavoro domestico – temi che approfondirò in seguito - fanno parte della vita privata, sono elementi della vita individuale di mariti e mogli ma non hanno un peso politico, così come lo stupro e la violenza rientrano tra i possibili comportamenti di un marito geloso verso una moglie disobbediente e non vengono criticati o condannati.
Nella società italiana, le vicende familiari, domestiche si svolgono lontano da occhi indiscreti, lontano dalla strada, insomma nel chiuso della quattro mura di casa e fuori dalla scena pubblica, sociale. I rapporti tra i coniugi, che siano sereni e affettuosi oppure burrascosi e violenti, riguardano i coniugi stessi e nessun altro. Non sono ammesse interferenze esterne. Paura e vergogna impediscono alle donne di confidarsi, di raccontare ad altri le difficoltà che hanno nel rapporto di coppia; inoltre, in base al vecchio adagio “tra moglie e marito non mettere il dito”, chi conosce la coppia (parenti, amici, vicini di casa, colleghi, ecc.) evita di esprimere giudizi o di dare consigli. Salvare le apparenze, fingere che vada tutto bene è un atteggiamento molto diffuso, basato sull’ipocrisia e sulla mancanza di comunicazione.

Per opporsi a questo stato di cose, un celebre slogan femminista recita: “il personale è politico”, tutto ciò che è privato deve essere anche pubblico; il movimento femminista ritiene cruciale abolire la separazione tra personale e politico, tra privato e pubblico: tutto ciò che avviene nella vita privata delle persone deve diventare tema di interesse pubblico, politico, non deve rimanere chiuso tra le mura domestiche ma deve, al contrario, entrare a far parte della discussione pubblica ed essere preso seriamente in considerazione dalla società, dai cittadini e dai partiti politici.
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   (23) AA.VV., Donnità. Cronache del movimento femminista romano, Centro di documentazione del Movimento Femminista Romano, Roma 1976, p. 6.



È necessario, quindi, suscitare un dibattito e dare vita a discussioni in piazza, nelle scuole e nelle università, nelle fabbriche, in tutti i luoghi pubblici, per sottrarre al silenzio e all’oblio temi privati, legati alla vita personale delle donne, al fine di renderli di rilevanza pubblica, temi come, ad esempio, il lavoro domestico, il divorzio, l’aborto, ed anche la violenza contro le donne. La separazione tra sfera privata e sfera pubblica deve essere messa in  dscussione:

la privata oppressione subita da ogni donna diventa oggetto centrale di riflessione, assume il significato e il senso di una grande questione collettiva. (...) La “rivoluzione copernicana” consisteva dunque nell’assumere come momento essenziale il dato soggettivo, personale del vissuto femminile (24).
Le donne devono uscire dalle loro case, dove sono state tenute prigioniere per secoli, devono organizzarsi in gruppi e appropriarsi dello spazio pubblico, delle piazze, delle strade, da cui gli uomini le hanno sempre escluse; devono unirsi e farsi sentire, devono condividere le proprie esperienze individuali con altre donne, prima di tutto per rendersi conto che esistono problemi specifici, comuni a tutte loro e poi per trasformarli in temi di interesse collettivo. Spetta alle donne, quindi, porre domande a se stesse ed anche alla società e ai partiti politici; raggiunta la consapevolezza dei bisogni e delle esigenze femminili, è fondamentale che le donne facciano sentire la propria voce - a partire dalla famiglia in cui vivono fino ai vertici del governo italiano - e pretendano risposte adeguate alle loro richieste.
Non è più ammissibile che venga ignorata metà della popolazione italiana: i problemi delle donne sono problemi che toccano le vite private delle singole donne e che, al tempo stesso, riguardano l’intera società.

La condizione della donna in Italia, così come viene denunciata dal Collettivo Femminista, è questa:

le donne sono “quotidianamente” uccise, picchiate, insultate, costrette a prostituirsi, messe in condizione di soggezione e di paura e quindi segregate nelle case. Le donne vivono nella paura e nella soggezione, sono al servizio di uomini che dispongono di loro, dei loro corpi, delle loro vite e che usano la violenza come strumento di controllo e di dominio, come mezzo per sottometterle e per costringerle all’obbedienza. Le donne devono obbedire, sempre, agli uomini altrimenti sono guai. Non si tratta della vita sfortunata di una ristretta minoranza, povera e disadattata, svantaggiata
ed emarginata, al contrario, questa è la realtà esistenziale di tutte le donne italiane, indipendentemente dall’età, dall’estrazione sociale, dalla provenienza, dal livello culturale; la condizione di inferiorità rispetto agli uomini riguarda tutte le donne, senza distinzioni.
Di conseguenza:

La presa di coscienza di questo sfruttamento, che ci riguarda direttamente in quanto donna, ma che è presente in tutte le situazioni sociali (famiglie, fabbrica, scuola, ecc.) ha fatto nascere il movimento delle donne.
A noi donne interessa oggi una lotta che non salti più la violenza che passa sui nostri corpi.
L’impegno del movimento femminista è sia politico sia pratico; in altre parole, oltre a denunciare pubblicamente l’esistenza del fenomeno della violenza, i gruppi femministi si fanno carico del problema concretamente, vogliono offrire aiuto alle vittime e decidono, quindi, di creare sportelli di assistenza legale, di aprire case delle donne e centri anti-violenza, nelle principali città italiane, per aiutare chi ha subito uno stupro e per accogliere le mogli che fuggono da mariti pericolosi ed hanno bisogno di un rifugio.
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   (24) G. CRAINZ, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Donzelli, Roma 2005, pp. 509-510.


Come già detto, in Italia sono esclusivamente le donne ad occuparsi di donne. Di fronte al disinteresse delle istituzioni pubbliche e dei partiti politici e in seguito all’ennesimo caso di stupro, il movimento femminista si organizza e reagisce; in particolare, il Movimento di Liberazione della Donna (MLD) apre degli sportelli antiviolenza, dei punti di ascolto e di assistenza a Roma, Torino e Milano.

Di seguito, riporto parte del comunicato che annuncia l’apertura di uno sportello anti-violenza a Roma, nel 1976, dopo il diciassettesimo caso di stupro avvenuto nella capitale:

Siamo sicure che questo numero è una minima parte delle donne violentate, perché moltissime vogliono evitare con il silenzio le altre infinite violenze che subirebbero denunciando il fatto: la violenza degli interrogatori e delle visite ginecologiche quando si presentano al commissariato. Infatti, per la mentalità e l’atteggiamento maschilista i cosiddetti tutori della legge e della giustizia mirano solo a scoprire se la donna ha provato anche un solo attimo di piacere, per scagionare il violentatore.
Quando poi “i fatti” vengono riportati dai giornali, subiamo l’ennesima violenza della distorsione scandalistica che troppo spesso mette in risalto particolari assolutamente irrilevanti che non servono a mettere in giusta luce la violenza subita o a ritrovare lo stupratore, bensì a rendere la donna, ancora una volta, oggetto sessuale.
Infine, dopo che avvengono questi tristi fatti abbiamo “bellissime” indagini sociologiche da parte degli intellettuali di sinistra, che ci spiegano per l’ennesima volta da dove ha origine la violenza della nostra società e perché sono le donne che la subiscono. Non vediamo però mai un gesto per risolvere il problema, oltre quello della denuncia.
L’MLD denuncia l’immobilità di tutta la sinistra a partire dai grossi partiti storici per finire agli stessi extraparlamentari (...)
Il Movimento di Liberazione della Donna ha formato un collettivo di donne “contro la violenza carnale”; invitiamo quindi tutte coloro che sono state stuprate, picchiate e violentate anche dagli stessi mariti a rivolgersi all’MLD, via del Governo Vecchio 36, ogni mercoledì pomeriggio.
Offriamo assistenza gratuita legale: con le donne dalla parte delle donne (25).

È importante, in questo comunicato, prendere in considerazione lo slogan finale - con le donne dalla parte delle donne - perché permette di leggere l’intero comunicato in una precisa e specifica prospettiva: il MLD propone una nuova visione del mondo, che si basa sulla teoria della differenza sessuale.
Essa è il principio teorico fondamentale che permette al movimento femminista di interpretare la realtà circostante: esistono due sessi, il maschile e il femminile, distinti e differenti; nella società italiana gli uomini detengono il potere politico, economico, culturale e sociale ed esercitano, quotidianamente e ovunque, il loro dominio sulle donne.
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   (25) M.A. TEODORI, op. cit., pp. 183-184.

È da questa visione del mondo che deriva la spiegazione che le femministe danno al fenomeno della violenza contro le donne:

gli uomini esercitano quotidianamente il loro tradizionale potere nei confronti delle donne e l’esercizio di questo potere include anche l’uso della violenza.
Il movimento femminista critica questa struttura sociale, che prevede una distribuzione del potere nettamente a sfavore delle donne, e si mobilita per l’emancipazione femminile, per ottenere il riconoscimento dei diritti civili delle donne.
Al tempo stesso, data la totale mancanza di servizi rivolti alle vittime, il MDL ritiene necessario un proprio intervento attivo per fornire assistenza legale e per offrire una concreta via di fuga dalla violenza alle donne in difficoltà.

Le case di accoglienza e i centri antiviolenza, creati e gestiti da gruppi femministi alla fine degli anni Settanta e nel corso degli anni Ottanta in varie città italiane, sono considerati lo strumento veramente utile, il mezzo indispensabile per assistere tutte coloro che hanno bisogno di un aiuto pratico e immediato.
I centri antiviolenza sono organizzati in base al principio delle differenza sessuale: in una società dominata dagli uomini, occorre creare dei luoghi femminili pensati e organizzati esclusivamente da donne e destinati ad accogliere altre donne. Gli uomini non possono entrare in questi spazi, a loro è vietato l’accesso. Escludere gli uomini è considerato un atto necessario, per dare vita ad un posto diverso dagli altri, caratterizzato dalla totale assenza maschile e dalla esplicita presenza femminile ovvero un posto gestito in modo autonomo da un gruppo di donne, senza alcun intervento maschile. Solo a queste condizioni sia coloro che lavorano nel centro che coloro che vi vengono accolte possono esprimersi in modo libero e autentico.

Nei centri antiviolenza, il metodo di intervento si basa principalmente sul contatto e sulla relazione tra donne: le operatrici del centro si occupano e si prendono cura delle vittime di violenza. È fondamentale, per una donna che telefona, che chiede consiglio, che arriva al centro antiviolenza, trovarsi di fronte ad un’altra donna che sia in grado di ascoltarla, di comprenderla e di sostenerla, evitando di esprimere giudizi. La relazione da donna a donna permette di instaurare un rapporto positivo, di fiducia e di rispetto, decisivo per affrontare il difficile percorso di uscita da una situazione di violenza e di maltrattamento.

Alla ricerca delle cause

Negli anni Settanta, in Italia, non esistono ricerche o statistiche che prendono in considerazione i casi di stupro che si verificano annualmente, mancano completamente dati e analisi specifiche. Tuttavia, la cronaca quotidiana registra numerosi casi di violenza carnale, soprattutto nelle grandi città e a Roma in particolare.
Secondo la giornalista radicale Maria Adele Teodori, nel 1975 i casi di stupro in Italia sono stati 11.000, uno ogni 40 minuti. Il dato, però, non è attendibile a causa della mancata denuncia del reato; sono pochissime, infatti, come è già stato detto, le donne che trovano il coraggio di recarsi al commissariato per denunciare la violenza subita.
Lo stupro, da intendersi come l’aggressione e la violenza carnale subiti da una donna ad opera di uno sconosciuto in un luogo pubblico, è considerato un “reato minore” da un dirigente della Buoncostume di Roma (ricordiamo che la Buoncostume è il reparto della pubblica sicurezza addetto alla sorveglianza e alla repressione dei reati contro la pubblica morale) ed è un reato minore anche secondo i procuratori generali che per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, nel loro discorso stracolmo di cifre e delitti come un catalogo ben confezionato, non hanno mai menzionato lo stupro (26).
Oltre all’incerto dato quantitativo, oltre alla frequenza dei casi, elevata ma difficile da quantificare, occorre iniziare ad ipotizzare i motivi alla base del fenomeno.
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  (26) Ivi, p. 61.

domenica 26 gennaio 2014

Libro: Il delitto del Circeo (1a parte)

pubblico qui una parte del libro di Sara Mascherpa dedicato al terribile stupro di gruppo e delitto del Circeo avvenuto nel 1975

Introduzione

Il delitto del Circeo nell’immaginario collettivo italiano

di Consuelo Corradi

L’immaginario sociale di un paese è fatto di eventi e personaggi che hanno avuto un ruolo, talvolta involontario, nel modellare la storia recente. Non sono eventi storici in senso stretto, non riguardano le élites politiche e non provocano mutamenti epocali. Eppure concorrono a formare quella pasta di simboli, narrazioni e nomi che plasma la memoria breve di un paese.

Sono passati trentacinque anni da quel settembre del 1975 quando venne commesso il “delitto del Circeo”. Oggi possiamo dire che esso è rimasto nell’immaginario sociale italiano, in particolare nella storia recente delle donne.

Il libro di Sara Mascherpa ha il grande pregio di ricostruire tale storia proprio nell’ottica di quell’evento e dei suoi personaggi, gettando in questo modo una nuova luce sul presente. Il delitto del Circeo è stato uno degli spartiacque nel cammino di emancipazione delle donne italiane; ma ha svolto questo ruolo  perché, nel momento in cui fu commesso, andò a intercettare correnti culturali e spinte verso il mutamento che già agitavano la nostra società sospingendola verso una migliore modernizzazione. Il clamore provocato, la scala nazionale nella quale il delitto venne subito riportato, il numero di commenti pubblicati dalla stampa si spiegano, in parte, con l’efferatezza delle azioni.

Quel terribile fatto di cronaca e la spontanea ondata emotiva da esso sprigionata ebbero in realtà anche la capacità di sintetizzare alcuni conflitti profondi che già  scuotevano la società italiana, prestandosi così a varie “letture”:
- la lettura classista di una contrapposizione tra ricchi e poveri, quartieri borghesi e periferie urbane;
- la lettura femminista di una contrapposizione tra uomini  e donne, predatori e oggetti sessuali;
- la lettura politica tipica degli anni della post-resistenza, di una contrapposizione tra rossi e neri, fascisti e antifascisti.
Fu per questo che alcune tra le migliori penne della cultura e del giornalismo italiano dell’epoca – tra le quali Italo Calvino, Pierpaolo Pasolini, Stefano Rodotà, Franco Ferrarotti, Dacia Maraini - si impegnarono nell’agone della cronaca, con esiti diversi.
Fu per questo spessore acquistato subito dal delitto nell’immaginario sociale di allora che i cinque protagonisti – due vittime e tre aggressori – diventarono non più solo persone, ma personaggi.

Da allora molte cose sono cambiate nella società italiana:
- la lettura politica degli eventi appare oggi datata;
- la lettura classista conserva una parte di verità: l’incontro di Rosaria e Donatella con i tre assassini sembra ancora oggi l’incontro tra lo svantaggio della vita di periferia e il vantaggio dell’istruzione e dei soldi, un incontro totalmente asimmetrico, sfruttato con ferocia dai tre;
- la lettura femminista ha preso vigore nel tempo.
Dal settembre del 1975, e ancora di più dall’anno successivo durante il quale si tiene a Latina il  processo, il delitto del Circeo ha saputo rafforzare quell’onda di interesse nei riguardi della violenza contro le donne che ancora oggi, soprattutto oggi, mantiene la sua forza nell’opinione pubblica.

Sono, sì, ancora oggi, cinque volti tragici, ma il destino sociale si è ribaltato. Le vittime e in modo particolare Donatella Colasanti hanno occupato un posto di rilievo nell’immaginario femminile, offrendo negli anni e con la testimonianza un contributo positivo all’emancipazione. La sorte degli assassini è stata molto diversa: pur con vicissitudini distinte l’uno dall’altro, a volte rocambolesche, ognuno di loro ha rappresentato in modo vivido un’icona negativa di spietatezza e sopraffazione. La storia ha ristabilito la verità delle persone e delle loro azioni.

Il libro di Sara Mascherpa ricostruisce con cura tutto questo e, in conclusione, apre alcune piste di riflessione sullo studio della violenza contro le donne, un fenomeno sociale rispetto al quale la sensibilità dell’opinione pubblica è cresciuta. Se appare infatti chiaro il filo rosso che lega quegli eventi alle campagne e alle politiche sociali di oggi, altrettanto chiara è la necessità di dotarsi di categorie interpretative e politiche di intervento che tengano conto dei cambiamenti avvenuti:
- sappiamo che la violenza contro le donne si registra oggi in tutti gli strati sociali, non solo tra le classi più umili;
- sappiamo che donne con elevati livelli di istruzione e reddito non ne sono immuni;
- sappiamo che la tradizionale divisione dei ruoli maschile-femminile è stata rimessa in discussione e, almeno in parte, anche superata.
Per questo, il libro si conclude formulando nuove letture del fenomeno sociale e nuove proposte di interventi. A questo riguardo, il lavoro della ricerca empirica e dell’elaborazione teorica trova ancora campo aperto.
CAPITOLO I

Il delitto del Circeo (1975)

1. La ricostruzione dei fatti

Roma, nella notte tra il 30 settembre e il 1° ottobre del ’75, in via Pola, una strada di un tranquillo ed elegante quartiere borghese, vengono ritrovate due ragazze nel bagagliaio di una Fiat 127, avvolte in sacchi di plastica: una morta, l’altra quasi. I carabinieri sono arrivati sul posto solo perché una donna, che non riusciva a dormire, ha sentito dei lamenti provenire da una macchina. Le due ragazze sono Rosaria Lopez, 18 anni, e la sedicenne Donatella Colasanti. Arrivata all’ospedale, Donatella riuscirà a dare una prima testimonianza:

Mi avevano messo un laccio intorno al collo e tiravano, tiravano, e poi vedendo che non riuscivo a morire mi hanno presa a sprangate sulla testa e dicevano sempre: “Madonna, questa qui resiste troppo, quand’è che muore? Casomai dopo gli diamo una pistolettata”. Quando mi hanno messa nel portabagagli, hanno detto: “Finalmente è morta”.

Poche ore dopo Donatella riesce a fornire particolari sufficienti per individuare i responsabili: sono Gianni Guido, 20 anni, figlio di un dirigente bancario (la 127 era quella di suo padre), Angelo Izzo, 17 anni, figlio di un ingegnere costruttore, e Andrea Ghira, 22 anni, anch'egli figlio di un costruttore. I primi due vengono immediatamente arrestati, mentre Ghira riesce a fuggire. Nessuno lo prenderà mai più.

Ma chi sono Guido, Izzo e Ghira? Loro stessi si definiscono fascisti. Ghira, in particolare, teorizza il crimine come mezzo legittimo di affermazione sociale.
Questa breve sintesi dei fatti è tratta dal sito della trasmissione Rai “La storia siamo noi” (www.lastoriasiamonoi.rai.it).
Di seguito la ricostruzione della vicenda, così come viene raccontata da Donatella Colasanti:

Tutto è cominciato una settimana fa, con l’incontro con un ragazzo all’uscita del cinema che diceva di chiamarsi Carlo, lo scambio dei numeri di telefono e la promessa di vederci all’indomani insieme ad altri amici. Con Carlo così, vengono Angelo e Gianni, chiacchieriamo un po’, poi si decide di fare qualcosa all’indomani, io dico che non avrei potuto, allora si fissa per lunedì. L’appuntamento è per le quattro del pomeriggio. Arrivano solo Angelo e Gianni, Carlo, dicono, aveva una festa alla sua villa di Lavinio, se avessimo voluto raggiungerlo… ma a Lavinio non arrivammo mai. I due a un certo punto si fermano a un bar per telefonare a Carlo, così dicono; quando Gianni ritorna in macchina dice che l’amico avrebbe gradito la nostra visita e che andassimo pure in villa che lui stava al mare. La villa era al Circeo e quel Carlo non arrivò mai.
I due si svelano subito e ci chiedono di fare l’amore, rifiutiamo, insistono e ci promettono un milione ciascuna, rifiutiamo di nuovo. A questo punto Gianni tira fuori una pistola e dice: “Siamo della banda dei Marsigliesi, quindi vi conviene obbedire, quando arriverà Jacques Berenguer non avrete scampo, lui è un duro, è quello che ha rapito il gioielliere Bulgari”. Capiamo che era una trappola e scoppiamo a piangere. I due ci chiudono in bagno, aspettavano Jacques.
La mattina dopo Angelo apre la porta del bagno e si accorge che il lavandino è rotto, si infuria come un pazzo e ci ammazza di botte, e ci separano: io in un bagno, Rosaria in un altro. Comincia l’inferno. Verso sera arriva Jacques. Jacques in realtà era Andrea Ghira, dice che ci porterà a Roma ma poi ci hanno addormentate. Ci fanno tre punture ciascuna, ma io e Rosaria siamo più sveglie di prima e allora passano ad altri sistemi. Prendono Rosaria e la portano in un’altra stanza per cloroformizzarla dicono, la sento piangere e urlare, poi silenzio all’improvviso. Devono averla uccisa in quel momento.
A me mi picchiano in testa col calcio della pistola, sono mezza stordita, e allora mi legano un laccio al collo e mi trascinano per tutta casa per strozzarmi, svengo per un po’, e quando mi sveglio sento uno che mi tiene al petto con un piede e sento che dice: “Questa non vuole proprio morire”, e giù a colpirmi in testa con una spranga di ferro. Ho capito che avevo una sola via di uscita, fingermi morta, e l’ho fatto.
Mi hanno messa nel portabagagli della macchina, Rosaria non c’era ancora, ma quando l’hanno portata ho sentito chiudere il cofano e uno che diceva: “Guarda come dormono bene queste due”.

La stampa italiana dedica al delitto del Circeo ampio spazio fin dall’inizio, dal giorno del ritrovamento del cadavere di Rosaria e di Donatella, la sopravvissuta; nei giorni successivi l’attenzione dei mass media è costante, anzi cresce. Non solo i quotidiani a diffusione nazionale ma anche i settimanali d’attualità («Panorama», «L’Espresso», «Il Mondo», «L’Europeo») se ne occupano, pubblicano approfondimenti, inchieste e articoli di commento, affidati alle firme più prestigiose del giornalismo italiano.
L’attenzione, la curiosità, l’indignazione, lo stupore degli italiani vengono alimentati da informazioni giornaliere. Troviamo articoli dedicati al delitto del Circeo in prima pagina, nelle pagine di cronaca o in entrambe, corredati da foto, quasi tutti i giorni, a partire dal 1° ottobre 1975 e per quasi tre settimane, come riassunto nella tabella riportata in appendice, al termine di questo capitolo.

La quantità di articoli pubblicati testimonia la straordinaria attenzione che il caso del Circeo attira su di sé; i lettori ricevono continuamente aggiornamenti, dettagli e novità su tutto ciò che riguarda la vicenda.
I maggiori quotidiani italiani seguono, giorno dopo giorno, le prime ricostruzioni dell’accaduto, dall’appuntamento a Roma fino al ritrovamento delle ragazze nel bagagliaio dell’auto, descrivono minuziosamente le ore di terrore trascorse all’interno della villa, le minacce, le sevizie e le violenze perpetrate contro le due giovani. In base all’autopsia effettuata sul corpo di Rosaria, i medici legali stabiliscono che è morta per annegamento.
Articoli più o meno lunghi ragguagliano circa le indagini in corso, il coinvolgimento e gli interrogatori di altri ragazzi, presunti complici e accusati di favoreggiamento; riferiscono della latitanza di Ghira e del ritrovamento della sua auto ed anche delle perizie relative all’assunzione o meno di stupefacenti (si parla di eroina e di anfetamine) durante il festino nella villa.
Diversi giornalisti forniscono il ritratto dei colpevoli, la descrizione del quartiere Parioli - dove sono nati e cresciuti i tre amici - e dell’ambiente che frequentano abitualmente; descrivono i locali e i bar in Piazza Euclide e in Piazza delle Muse, in cui i “pariolini neri”, i “picchiatori fascisti”, autori di intimidazioni, di assalti e di pestaggi nei confronti di “studenti democratici”, solitamente si ritrovano. Raccolgono le dichiarazioni degli amici dei colpevoli o degli abitanti del quartiere; elencano i loro precedenti penali, le condanne che hanno già collezionato, nonostante la giovane età, e mettono in evidenza l’impunità di cui hanno sempre goduto in passato.

Durante il mese di ottobre, i lettori dei giornali ricevono notizie circa il sopralluogo nella villa del Circeo, che viene più volte rimandato e vengono informati sull’elenco delle accuse formulate contro i tre ragazzi e sulle manovre dei loro avvocati difensori, manovre che possono spiegare le lungaggini circa l’assegnazione del processo al tribunale di Roma o al tribunale di Latina. Il conflitto di competenza territoriale si risolve a favore del tribunale di Latina, dato che il reato più grave, l’omicidio volontario di Rosaria Lopez, è avvenuto a San Felice Circeo, che si trova in provincia di Latina. Infine, viene dato risalto alla polemica, che cresce di giorno in giorno, circa il trattamento di favore, la speciale “protezione” di cui hanno goduto i tre ragazzi, già accusati in precedenza di reati simili e rimessi rapidamente in libertà.

I protagonisti: aggressori e vittime

I veri protagonisti di questa storia sono i cattivi; nei confronti dei tre ragazzi, colpevoli dell’omicidio di Rosaria e del tentato omicidio di Donatella, si concentra l’attenzione di quotidiani e settimanali, per tentare di capire come sia stato possibile che dei giovani, ricchi e privilegiati, si siano accaniti con tanta brutalità su due ragazze, povere e indifese.
Si domanda chi siano Cristina Mariotti, su «L’Espresso» (1): Li chiamano “i ragazzi della via Pola”. Abitano nello stesso quartiere, sono andati nella stessa scuola, hanno tutti le stesse abitudini, le loro famiglie si somigliano tutte l’una all’altra.
Chi sono? Anormali, delinquenti comuni o i figli assassini di una classe corrotta?
Sono molti i giornalisti che tentano di fornire una risposta esauriente a questo interrogativo. Per farsi un’idea dei tre pariolini neri, è indispensabile iniziare dai fatti ed analizzare il loro recente passato. 
 

   (1) C. MARIOTTI Io uccido, poi passa papà a pagare, in «L’Espresso», 12 ottobre 1975.


Nell’articolo “Razza fascista”, apparso su «Panorama» (2), troviamo il resoconto dei precedenti penali di Izzo e Ghira:

Andrea Ghira: arrestato nel 1973 per la rapina in casa di un ingegnere di via Panama fu condannato a 8 anni. Dopo 18 mesi di carcere, 10 giorni prima dell’orgia del Circeo, era di nuovo a spasso grazie a un provvedimento di libertà provvisoria. Prima della rapina aveva collezionato una sfilza di denunce: violazione di domicilio, lesioni personali, porto abusivo d’arma da fuoco, ricettazione, furto aggravato, sostituzione di persona. Il suo nome è inoltre da tempo segnalato tra gli spacciatori di droga pesante negli ambienti neofascisti della capitale.

Per Angelo Izzo la specialità invece è sempre stata la violenza carnale: il 2 marzo 1974, ancora studente del San Leone Magno, costrinse sotto la minaccia di una pistola una minorenne a subire atti di libidine. La stessa sorte nove mesi dopo l’ha riservata a un’altra ragazza di 18 anni. Per tutti e due i reati Izzo è stato condannato nel maggio scorso a due anni. Il regalo del giudice della condizionale, però, gli ha permesso, mercoledì primo ottobre, di partecipare al tragico festino del Circeo.

«L’Europeo» (3) pubblica tre articoli, raccolti sotto un unico, grande titolo La violenza ai Parioli: nel primo, dall’esplicito titolo "Il privilegio e la legge", scritto da Giuliano Ferrieri, si afferma che ben ferme restando le responsabilità dei singoli colpevoli, altre e gravi ne vanno ricercate di ambiente e di costume, di politica e di omertà - posizione che, come vedremo in seguito, viene sostenuta da numerosi ed autorevoli giornalisti e scrittori.
Gli altri due articoli, invece, descrivono il quartiere romano da cui provengono i protagonisti del criminoso festino nella villa al mare.

Duilio Pallottelli firma "Ritratto di un quartiere", un lungo articolo in cui vengono descritte le frequenti azioni dei picchiatori fascisti, continuamente attivi ai Parioli, e vengono intervistati alcuni abitanti della zona: una signora che manda i suoi due figli in un istituto privato “fuori zona”, il giovane prete della parrocchia di San Bellarmino, alcuni studenti del Liceo Scientifico Azzarita e del Liceo Classico Mameli.


      (2) Razza fascista, in «Panorama», 16 ottobre 1975.
  (3) G. FERRIERI, "Il privilegio e la legge"; Duilio Pallottelli, Ritratto di un quartiere; Claudio Lazzaro, "Parla un pariolino", in «L’Europeo», 17 ottobre 1975.



 Ecco parte delle interviste:

una studentessa del liceo scientifico Azzarita (una delle scuole più bersagliata dai fascisti) spiega: “All’interno di questo quartiere c’è una doppia componente. Oltre ai ricchi ci sono i miserabili. Pensi ai figli dei portieri, ai figli dei piccoli impiegati che sono finiti, per un motivo o per l’altro, a vivere quassù. Tutta questa gente è irrimediabilmente attratta dalle abitudini, dal modo di concepire la vita, dalla filosofia dei ricchi. Specialmente le ragazzine.
Alle ragazze loro dicono: tu ti salvi perché sei una donna, quindi non pigli botte. Però se vuoi stare con noi devi fare esattamente quello che ti chiediamo. E chiedono di tutto, creda a me. Ogni tipo di porcheria, ogni depravazione. Molte accettano. Non riescono a resistere al fascino dell’ambiente più elevato. Credono di fare un passo avanti. È un po’ il caso della tragedia del Circeo, anche se quelle poverette non abitavano ai Parioli, ma stavano in borgata. E per questi fascisti la “borgatara” deve fare di tutto: è un giocattolo qualsiasi. Le donne del loro stampo, invece, le trattano con tutte le cure e il rispetto possibili. Le difendono con ferocia. Ho visto dei poveracci mandati all’ospedale solo perché avevano lanciato un’occhiata troppo audace a una pariolina. Quindi siamo davanti al razzismo puro. I poveri maschi invece vengono usati, quando sono accettati, come truppa d’assalto, come carne da macello. E devono ubbidire.”

Oltre a questo scenario classista, presentato dalla studentessa liceale, una seconda ragazza intervistata parla esplicitamente dell’uso di stupefacenti:

Con la questione delle droghe bisogna starci attenti; qualcuno cerca di giustificarli perché si drogano. Cercano anche di giustificare l’ultimo orrendo delitto del Circeo con la scusa della droga. La droga è un fatto marginale. Essi non sono violenti perché si drogano, sono semplicemente dei violenti che fanno uso di stupefacenti.

Colpisce la nettezza di giudizio: la droga non è che una scusa, è un elemento irrilevante per spiegare il tragico epilogo dell’orgia nella villa del Circeo.
Sempre su «L’Europeo», in "Parla un pariolino", il giornalista Claudio Lazzaro racconta così la sua indagine conoscitiva nel quartiere romano, balzato improvvisamente alla ribalta della cronaca:

A Piazza delle Muse siamo venuti per conoscere i pariolini, per capire fino a che punto il contesto di questa piazza San Babila romana può produrre gli incubi della nostra società: i delitti come quello del Circeo.
Parlo con un gruppo di questi ragazzi. Hanno delle idee su quanto è successo al Circeo. “I peggiori”, dicono, “sono quelli sotto i vent’anni. La nuova generazione è la più cattiva. Hanno bisogno di mostrarsi duri, se picchiano una donna poi se ne vantano. Devono emergere, farsi notare in qualche modo: passano su un gippone, in gruppo, cantando inni fascisti, ma neanche sanno cos’è il fascismo.”

Tramite uno di questi ragazzi, il giornalista riesce a mettersi in contatto con un vero pariolino, uno rappresentativo, che lo riceve a casa sua, in Viale Parioli; ecco come si presenta il giovane: ha diciannove anni, alto, col fisico da lottatore agile. E questo è un breve estratto della loro conversazione; il giornalista gli chiede:

i giovani pariolini sono in maggioranza di destra e hanno utilizzato la violenza organizzata come mezzo di intimidazione politica?

“Certo in questa storia entra anche la violenza nera. Quella dei gruppi di estrema destra, come Lotta di Popolo, ai quali erano stati collegati alcuni degli imputati per il delitto del Circeo. Ma io non so fino a che punto a vent’anni uno abbia la coscienza di giocarsi la pelle per un’idea politica. Secondo me sono solo ragazzi che cercano di affermare la propria personalità con la forza. Più uno è violento, più uno esiste.
Conosco la formula: ‘Ma tu hai paura di fare una cosa del genere? Che uomo di merda?’
Sono sicuro che anche nella villa del Circeo questa formula ha funzionato: ognuno dei tre probabilmente temeva che l’altro lo considerasse una cacasotto. Dopo il primo schiaffo ognuno picchiava più forte per dimostrare che valeva di più.”

Se davvero, come afferma il vero pariolino, più uno è violento più uno esiste, i tre giovani hanno commesso violenze di ogni tipo non solo per dimostrare la propria forza, la propria capacità di dominio ma, principalmente, per costruirsi un’identità, per affermare la propria esistenza all’interno del gruppo, sotto lo sguardo giudicante degli altri due, in un gioco al rialzo difficile da interrompere. Chi tra loro, alla fine della trasferta fuori città, si è dimostrato un vero duro? Chi ha dato prova di essere il migliore dei tre?

Oltre agli articoli che si occupano dei colpevoli e dell’ambiente da cui provengono, la stampa rivolge la propria attenzione anche alle due ragazze: Rosaria, la vittima, e Donatella, la sopravvissuta, ricoverata in ospedale.
I giornalisti si recano alla Montagnola, quartiere povero e periferico di Roma, dove abitano le due giovani, per incontrare i familiari e i parenti della vittima e Nadia, l’amica di Donatella che, con una scusa, aveva rifiutato l’invito dei “pariolini”.

Maria R. Calderoni, in "Quando la periferia diventa un ghetto" (4), descrive così Rosaria e il suo mondo:

Apparteneva a una famiglia di origine siciliana, di piccola borghesia ministeriale. Il padre, settantacinquenne, impiegato del catasto, ora in pensione fa un ritratto affettuoso di questa sua ultima figlia, “moderna, ma con un suo forte orgoglio, autonoma ma non scapestrata”. Oggi, in questa casa, la  disgregazione si nota a occhio nudo, nelle due stanzucce e nel corridoio-budello che la compongono, i muri stinti, i mucchi di biancheria per terra, la specchiera rotta, le scarpe qua e là.
La disgregazione più acuta, tuttavia, non è negli oggetti; è nell’aria stampata sui volti delle persone che abitano la casa: su quello della madre, 59 anni, ma da venti in stato di abulica dissociazione mentale; su quello della sorella Teresa, diplomata maestra elementare, anch’essa in preda a squilibri psichici; su quello un po’ allucinato del fratello Emanuele: come una barca malferma che sta in piedi a fatica, che nessuno più s’è curato di raddrizzare. Tanto meno la spietata realtà di un quartiere dove ogni famiglia ha i suoi guai tangibili e cataloga semplicemente come un “po’ matta” questa gente.
La Montagnola è un quartiere abitato da persone che hanno tanti guai e difficoltà di ogni genere da affrontare ogni giorno; Rosaria Lopez è una giovane ragazza che proviene da una famiglia molto numerosa - è l’ultima di otto figli - una famiglia segnata dal disagio mentale, a cui nessuno offre un aiuto, né i vicini troppo presi dai loro problemi né i servizi sociali assenti dal quartiere.


   (4) M.R. CALDERONI, "Quando la periferia diventa un ghetto", in “L’Unità”, 3 ottobre 1975.


Sono questi i primi elementi utili per ricostruire il contesto in cui viveva Rosaria.
Così viene descritta fisicamente: piccola, minuta, ben fatta ma non sconvolgente, mai truccata, vestiva “come tutti noi”, jeans e magliette, un berretto sui capelli per le volate in motorino.
E questa è la sua carriera scolastica e lavorativa: licenzia media, un corso di formazione professionale, cassiera in un bar per un po’ di tempo, quindi la ricerca di un lavoro qualsiasi.
È il ritratto di una ragazza che conduce una vita semplice, modesta, conosciuta da tutti nel quartiere, nessun pettegolezzo, nessuna maldicenza; qualche aneddoto, piuttosto, frammenti di vita quotidiana:
Aveva fame di affetto: dai colloqui con i ragazzi del quartiere, con le ragazze sue coetanee, viene fuori un ritratto semplice, persino banale.
Non c’è quasi niente da dire, una storia senza rilievi. Squarci significativi illuminano la sua ansia di andar via, di riscattarsi. “Aveva sempre fame, a casa sua non trovava mai nulla da mangiare”. “Io l’ho frequentata fino a due anni fa - dice uno studente seduto al bar in piazza - ; andavamo in un prato dietro al Campidoglio e lì si parlava, si parlava. Aveva grossi problemi esistenziali e sentimentali: cercava un appoggio. E nemmeno aveva fama di “quella che tutti si fanno”, tutt’altro.”

Gli amici la difendono, raccontano di lei con tenerezza e semplicità, e definiscono calunnie le strane storie che girano sul suo conto, dopo la sua tragica morte.
L’assurda fine di Rosaria (nuda, il viso massacrato, rinchiusa dentro un bagagliaio, così come la mostrano alcune spietate immagini), l’ha consegnata a curiosità malsane, a mormorii morbosi che è facile riempire di insinuazioni. Dalle parole degli amici e dei conoscenti emerge un ritratto che nulla ha a che fare con una vita disordinata, con un comportamento frivolo o degradante, con frequentazioni compromettenti; piuttosto, viene fuori tutto il contrario ed è per questo che, nel suo quartiere, l’impressione è enorme; c’è in giro pietà, non scandalo; soprattutto, tra i ragazzi, c’è un grande e doloroso stupore.
È difficile trovare una spiegazione convincente ed accettare ciò che è successo, è difficile associare Rosaria, una ragazza semplice e modesta, con un festino in una villa fuori città a base di droga, sesso e violenza. Quello che è successo è quasi incomprensibile: perché allora quella “leggerezza”, quell’imprudenza improvvisa, un pomeriggio di lunedì, che sembra distruggere in un attimo questo ritratto di ragazza saggia? Di quale abbaglio è stata vittima? Quale verità è ancora da cercare?
Rosaria, ragazza senza radici, forse è solo colpevole di aver affidato ad una spider lucente e ad un delinquente vestito da ragazzo-bene, il suo infantile sogno di rivincita.
La stampa racconta il dolore e lo sconcerto degli abitanti della Montagnola, sentimenti che sono apparsi evidenti durante il funerale di Rosaria.

Cristina Mariotti, in "Io uccido, poi passa papà a pagare", ci racconta come si presenta la Montagnola, la borgata in cui Rosaria viveva, il giorno del suo funerale: i muri della zona sono tappezzati di manifesti mortuari, voluti dalla famiglia della vittima:

Nelle “partecipazioni di morte” che la famiglia Lopez ha voluto affiggere all’uso paesano sulle case della Montagnola, lo squallido rione-dormitorio
che nasce sulla Cristoforo Colombo poco più sotto del quartiere modello dell’Eur, si legge che “Rosaria, 18 anni, è stata barbaramente uccisa dalla “Gioventù della Roma-bene”. Un’attribuzione generica e quindi incompleta (della Roma bene e fascista sarebbe stato più esatto) ma che serve a mettere in rilievo i connotati classisti di questo delitto.
La distanza sociale e politica esistente tra i Parioli e la Montagnola, tra i pariolini ricchi, privilegiati e fascisti, e le borgatare, proletarie e povere, viene costantemente sottolineata nella cronaca nazionale.

Queste sono le parole pronunciate dall’ex parroco della Montagnola, don Pietro Orcelli, nel corso dell’omelia funebre:

Da una parte questi straricchi pariolini che tutto possono e che tutto hanno; fannulloni, privilegiati, debosciati, protetti dal denaro e da una magistratura con sedimenti fascisti, gratificati sempre della libertà provvisoria di una smaccata evasione fiscale, padroni di macchine e di case. Dall’altra la gente dei quartieri di periferia per la quale c’è la fiscalizzazione di tutto e c’è la miseria e non ci sono le case. Quelli possono spendere, possedere ville, ammazzare, coltivare il sadismo... Sia Rosaria a trenta anni dalla Resistenza a frenare il dilagare del fascismo violento.

Il vecchio parroco mette in evidenza l’enorme distanza che c’è tra due classi sociali, tra due quartieri, tra due veri e propri mondi, presenti nella stessa città, territorialmente vicini ma, in realtà, lontanissimi tra loro.
Ritroviamo considerazioni simili nell’articolo del sociologo Gianni Statera che, su “Il Messaggero” (5), scrive:

Quanto è accaduto nella villa di San Felice ha un significato emblematico: due mondi che solo fisicamente convivono in una città frammentata e profondamente dilacerata nel suo tessuto sociale, collidono drammaticamente; e a soccombere è il mondo di chi vive in due stanze di periferia. I predoni si scoprono per tali, si scatenano contro il diverso, l’ “altro” per sesso, estrazione sociale, visione del mondo; l’attitudine alla prevaricazione e alla sopraffazione che è dei padri si fa, nei figli, determinazione irresponsabile alla umiliazione, alla distruzione, alla cancellazione dell’altro, sia esso il “rosso” o la ragazza di periferia.
L’episodio, in sé esecrabile, insegna molte cose, insegna che la grassa borghesia dell’incultura, dello scempio edilizio e della connivenza col
potere, produce mostri; che la disgregazione del tessuto sociale della città ha raggiunto l’estremo limite.
La contrapposizione tra classi sociali che ci viene continuamente proposta, dal parroco durante il funerale di Rosaria, dai giornalisti, dai commentatori, appare oggi un po’ datata. È davvero questa la chiave di lettura del delitto del Circeo? È la marxiana lotta di classe che ci spiega la morte di Rosaria? O è il mito fascista dell’uomo forte e autoritario, che disprezza le donne, che ci permette di capire il sequestro di due ragazze, le sevizie protratte e l’intenzione dei tre “pariolini neri” di uccidere entrambe?
Queste interpretazioni “politiche” non sembrano avere retto alla prova del tempo; leggendole oggi, appaiono decisamente superate. Tuttavia, scorrendo gli articoli dedicati al delitto del Circeo, troviamo continuamente questa interpretazione classista e ideologica dei fatti.

   
   (5) G. STATERA, "I simboli falsi imposti dai mostri", in “Il Messaggero”, 4 ottobre 1975.



2. L’interpretazione della stampa italiana

Oltre agli articoli di cronaca, rivolgiamo ora l’attenzione agli editoriali che appaiono sulle prime pagine dei quotidiani nazionali e anche sui settimanali di attualità, firmati dei più importanti giornalisti e scrittori italiani.
Iniziamo da tre articoli di Lietta Tornabuoni, Antonio Capranica e Stefano Rodotà, che presentano riflessioni piuttosto simili tra loro.

Sul “Corriere della sera”, in prima pagina, compare l’articolo "Roma male", di Lietta Tornabuoni (6), che descrive così i tre colpevoli:
“Ragazzi della Roma-male, figli di ricchi professionisti, facce carine, pullover alla moda, belle automobili, belle case, belle estati: e, dietro, tutto il nero brulicare che può fare d’un ragazzo un assassino”.
In questa descrizione ci sono i soliti elementi, che sono già stati indicati in precedenza da altri giornalisti: la ricchezza, l’appartenenza sociale e quella politica. La violenza fa parte della vita quotidiana, le azioni organizzate dai gruppi di estrema destra (a cui i tre pariolini appartengono), gli assalti e i pestaggi continui contro gli avversari politici rendono abituale l’uso della violenza, che è considerata un mezzo di affermazione personale, un modo per emergere, per distinguersi dagli altri.   
L’arroganza dei soldi e il disprezzo per le donne, specialmente per quelle più povere, viste come esseri senza volontà né sentimenti propri, come oggetti di divertimento da raccattare per strada, prendere, costringere, violentare, massacrare di botte se fanno storie, se non ci stanno oppure s’azzardano a ribellarsi.
Arroganza e disprezzo per le donne sono tratti distintivi della personalità di Angelo Izzo e di Gianni Guido, che già in precedenza si erano resi protagonisti di reati analoghi.
Il vuoto di vite velleitarie, torpide, trascinate nella noia, viziate dal benessere, senza moralità. La furia irosa di chi non rispetta nessuno e non ammette ostacoli alla propria prepotenza. E alla fine, magari, la droga: per esaltarsi e darsi forza. Gli ultimi eredi della “dolce vita” sono neri, e ammazzano. La crisi, la disgregazione della società, l’arroganza del privilegio sociale, l’assenza di valori lascia spazio alla violenza come valore assoluto.

 
(6) L. TORNABUONI, "Roma male", in “Corriere della sera”, 2 ottobre 1975.


La conclusione di Tornabuoni è il solito atto di accusa nei confronti della società che si ritrova spesso nei commenti giornalistici ai fatti più eclatanti di cronaca nera. Il generico riferimento ad un sistema in crisi, disgregato e privo di valori sembra essere un alibi che giustifica anche i gesti più efferati, come quelli compiuti dai tre autori del delitto.

Sempre in prima pagina, su “L’Unità”, Antonio Capranica titola il suo articolo di fondo "Squadristi dal “fausto avvenire” di assassini" (7):

Gli squadristi assassini di Rosaria Lopez hanno scelto il silenzio. Un’autoaccusa evidentemente. Ma ancor più un ennesimo gesto di sprezzo verso le loro vittime, una arrogante riaffermazione di “superiorità” anche di fronte alla giustizia. L’impunità goduta dalla loro carriera di picchiatori sembra rassicurarli sui rigori di una legge che gli ha sempre presentato il volto benigno di una paterna tolleranza. Il ghigno sulle labbra di Izzo appena arrestato: “Che mi importa? Tra dieci anni sarò fuori, potrò ancora andare a donne.” Il tranquillo conversare di calcio coi carabinieri di scorta di Gianni Guido. Il commento degli amici del “giro” dei bar dei Parioli e di Corso Trieste “è stata pura sfortuna”.

Compare subito, all’inizio dell’articolo, il termine impunità, l’elemento principale della lettura dei fatti che viene proposta da Capranica. Gli assassini non temono la punizione della giustizia, non hanno nessun dubbio sul trattamento di favore che gli sarà riservato, per il semplice motivo che, in passato, i giudici sono già stati particolarmente comprensivi nei loro confronti.
Nei mesi precedenti se la sono cavata con poco, anche questa volta non andrà tanto male, di questo sono convinti Angelo Izzo e Gianni Guido, catturati immediatamente; il terzo aggressore, Andrea Ghira, è latitante.
I due ragazzi arrestati non parlano, non è necessario, spetta ai loro avvocati occuparsi delle accuse e gestire i rapporti con i giudici; loro, i colpevoli, gli assassini, non hanno nulla da dichiarare, nulla da spiegare, e soprattutto nulla di cui pentirsi. Si sentono intoccabili, protetti e appoggiati dai contatti giusti, dalle conoscenze che contano e fanno affidamento sulla compiacenza dei giudici, perché sono figli di una classe privilegiata che vive, indisturbata, secondo regole diverse da quelle fissate dalla legge:

I figli della borghesia parassitaria, sviluppatasi all’ombra del sacco urbanistico di Roma, sono i discendenti dei dignitari del regime mussoliniano, cresciuti nelle case agiate di Corso Trieste o dei Parioli. Il denaro, il lusso, le macchine e le ville autorizzano alla fiducia.
  

   (7) A. CAPRANICA, Squadristi dal “fausto avvenire” di assassini, in “L’Unità”, 5 ottobre 1975.


Secondo Capranica, i “pariolini” costituiscono una casta, una classe sociale chiusa, che si distingue da tutte le altre per nascita, per ricchezza, per privilegi goduti. Di conseguenza, il trattamento riservato dai giudici ai membri della casta sarà un trattamento di riguardo.
Non conta che proprio nell’ozio e nella noia di questa vita dorata maturino le aggressioni squadristiche, la torpida abitudine alla violenza sui “diversi”, il disprezzo verso gli esclusi dalla propria casta reputata “superiore”. (…) tutto si fa “oggetto”, da prendere, usare, gettare via.
Anche la sventurata ragazza povera e inquieta, a cui una sera, poco più di una settimana fa, Parboni Arquati offre un passaggio sulla sua lussuosa  "Citroen Pallas”. Se si rifiuta, se si oppone, c’è la violenza.

Questo il ritratto giornalistico di Giampiero Parboni Arquati:

amico e complice dei tre responsabili, è uno squadrista nero, 20 anni, anche lui rampollo della “Roma bene”, soltanto un anno prima in una villa di Monte Porzio seviziò e violentò una ragazzina di sedici anni insieme al suo amico e camerata Angelo Izzo.
L’ordine di cattura parla di ratto a fine di libidine (8).

Ecco ricomparire un elemento fondamentale, utilizzato da molti giornalisti, per spiegare il delitto del Circeo: il disprezzo nei confronti dei diversi ovvero di coloro che non appartengono alla “casta superiore”; gli esclusi, i diversi sono gli “studenti democratici”, i “rossi”, le ragazze di borgata. Il disprezzo nutrito nei loro confronti porta, come inevitabile conseguenza, all’aggressione e alla violenza. Se una donna, ad esempio, si oppone alle richieste di un pariolino, viene umiliata, picchiata, annichilita; perché una donna è un essere inferiore, che deve sempre obbedire ed eseguire immediatamente ciò che le viene ordinato di fare. Per un pariolino nero è inaccettabile una manifestazione di resistenza, una contestazione o un rifiuto da parte di una donna.

Perché viene dato per scontato che il disprezzo porti, sempre e comunque, all’aggressione e alla violenza? Perché viene considerato “normale” dividere le persone in esseri superiori e esseri inferiori? Perché, insomma, non si cerca di trovare delle spiegazioni meno superficiali, che vadano oltre la descrizione degli eventi?
Forse non spetta ad un giornalista trovare delle risposte adeguate a casi di questo tipo ma quello che sorprende è il fatto che la realtà venga presentata sempre nello stesso modo ovvero che la chiave di lettura proposta sia continuamente lo scontro tra fascisti ricchi e ragazze povere.

Stefano Rodotà, in "Chi dà spazio ai teppisti"  (9), amplia un po’ la visione delle cose e prende una posizione molto netta nei confronti dei responsabili diretti e, soprattutto, indiretti del delitto del Circeo:

Non era certo necessario attendere il selvaggio assassinio di una ragazza romana per scoprire la matrice fascista di tanta delinquenza comune.
Sono anni che le cronache registrano puntualmente questo fatto.
Perché insisto particolarmente su questo punto, rischiando l’accusa di voler esasperare l’interpretazione politica della vicenda che ha condotto alla morte di Rosaria Lopez? Perché ho l’impressione che molti dei giudizi dati in questa occasione - mettendo l’accento sul denaro facile, sul permessivismo dei genitori, sulla scuola incapace di trasmettere i valori - si preoccupino soltanto di spiegazioni generali, annacquando o facendo passare in secondo piano le responsabilità specifiche di persone o di organi dello Stato.

Rodotà ritiene insufficienti, insoddisfacenti le interpretazioni incentrate in modo eccessivo sui protagonisti del massacro e sull’ambiente nel quale sono cresciuti e suggerisce una visione d’insieme più articolata e più complessa:

È vero. Quei bravi giovani borghesi sono stati abituati all’impunità dall’aria che si respira in famiglie in cui l’evasione fiscale è la regola e le fortune si edificano sulle speculazioni edilizie o valutarie. Ma essi non hanno soltanto assorbito quasi inconsapevolmente questo abito di vita, che li portava a ritenere valide solo le regole dettate dal loro capriccio o interesse: giorno dopo giorno, grazie alla benevolenza della polizia e della magistratura, hanno sperimentato quell’impunità anche in prima persona e hanno così finito col ritenere che essa avrebbe continuato a coprire qualsiasi manifestazione della loro vita violenta.

Anche per Rodotà, l’impunità è un elemento centrale per comprendere il comportamento dei pariolini neri. Vengono chiamate direttamente in causa la polizia e la magistratura, colpevoli di aver già favorito, in passato, gli assassini di Rosaria.
L’attacco di Rodotà si basa su fatti precisi:
Sulle imprese teppistiche di fascisti giovani e meno giovani, e sul fitto tessuto di compiacenze pubbliche che le hanno lasciate impunite, esiste una documentazione tale che è inutile insistervi analiticamente ancora una volta. Basta ricordare che, all’indomani del delitto di Roma, i membri del Cogidas (coordinamento genitori democratici e antifascisti) hanno con amarezza sottolineato come siano rimaste da anni inascoltate le loro circostanziate denunce delle violenze di cui erano stati protagonisti proprio alcuni degli assassini di Rosaria Lopez. Ma servirà quest’ultimo episodio a cambiare, se non una mentalità, almeno alcuni comportamenti esteriori?

La vicenda del Circeo è emblematica nel mettere in luce gli stretti rapporti esistenti tra magistratura e organizzazioni di estrema destra, tra magistratura e borghesi ricchi e ammanicati.
Rodotà non è il solo ad interrogarsi sulla situazione politica e sociale italiana. Lidia Menapace, sulla prima pagina de “il Manifesto”, analizza Il pubblico e il privato dei fascisti assassini (10) ed afferma che l’immoralità (…) non è il frutto della permissività.
L’immoralità ha un nome preciso: è la doppia morale della prepotenza fascista coperta dalla solidarietà di classe, è l’uso della donna come di un disprezzato strumento di eccitazione e di piacere. Anche in questo articolo tornano gli stessi concetti, non c’è nulla di nuovo.
Infine, è senz’altro degno di interesse il dibattito a distanza che si è svolto tra Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini; è quest’ultimo a rappresentare la sola voce fuori dal coro della stampa italiana.

Il lungo articolo di Italo Calvino, pubblicato dal “Corriere della Sera” in prima pagina, è intitolato "Delitto in Europa" (11) e presenta una acuta analisi della situazione politica e sociale europea.
Riguardo alla situazione italiana, la riflessione calviniana è amara ma non cupa; egli ritrae una società in crisi ed, al tempo stesso, in cambiamento: questo periodo di crisi generale è per l’Italia anche un’epoca di passi avanti importanti, nella legislazione, nella vita civile, nella coscienza sociale.

Seguiamo la sua riflessione a partire dal tragico fatto di cronaca  del Circeo:

i responsabili della carneficina del Circeo sono in molti e si comportano come se quello che hanno fatto fosse perfettamente naturale, come se avessero dietro di loro un ambiente e una mentalità che li comprende e li ammira. Per poco che riusciamo a capire, dobbiamo guardare le cose in faccia e considerare l’esistenza di una società di mostri che convive perfettamente con le strutture della nostra società attuale. (…)
I giornali hanno messo in rilievo che i protagonisti della vicenda appartengono all’ambiente dei picchiatori fascisti: c’era da aspettarselo. È una parte della nostra società in cui il disprezzo per la donna e per le persone di condizione sociale più modesta, la linea di condotta della sopraffazione del più debole e del disprezzo di ogni senso civico, [passa] da una generazione all’altra.

Anche nell’analisi calviniana è presente l’elemento del disprezzo nei confronti dei più deboli, donne e poveri, un disprezzo che fa parte di una precisa visione del mondo, che viene tramandata di padre in figlio, in cui il forte schiaccia il debole.
Il pericolo vero viene dall’estendersi nella nostra società di strati cancerosi; c’è una parte della borghesia italiana che vive e prospera e prolifera senza il minimo senso di ciò che appartenere a una società significa, come relazione reciproca tra gli interessi personali o di gruppo e quelli della collettività. Dire che non c’è che un passo dall’atonia morale e dalla irresponsabilità sociale alla pratica di seviziare e massacrare le ragazze con cui si esce alla sera può sembrare una delle solite generalizzazioni esagerate dei moralisti, però abbiamo sotto gli occhi il curriculum e il linguaggio di questi giovanotti,  campioni rappresentativi - si dice - della clientela di un bar molto frequentato dalla gioventù del loro ceto.

 

   (8) S. CRISCUOLI, "Arrestato un altro squadrista", in “L’Unità”, 5 ottobre 1975.
    (9) S. RODOTÀ, "Chi dà spazio ai teppisti", in «Panorama», 16 ottobre 1975.
   (10) L. MENAPACE, "Il pubblico e il privato dei fascisti assassini" in “Il Manifesto”, 7 ottobre 1975.
  (11) I. CALVINO, Delitto in Europa, in “Corriere della Sera”, 8 ottobre 1975.


Con termini diversi da quelli usati da altri giornalisti, anche Calvino afferma l’esistenza di una casta, di una classe privilegiata, chiusa su se stessa e attiva nel difendere i propri privilegi.
Le azioni compiute dai membri di una classe che si ritiene privilegiata e superiore sono irresponsabili ed amorali: usare, umiliare, picchiare i deboli e le donne è la conseguenza di un modo di pensare e di vivere, che non ha niente a che fare con la convivenza civile, con l’appartenenza ad una comunità.
Criminalità politica e criminalità sessuale sembrano in questo caso definizioni riduttive ed ottimistiche. Probabilmente anche il fanatismo politico più bruto è un gradino al di sopra delle capacità intellettive di costoro. Così come mi pare certo che il sesso non interessa veramente questi [ragazzi]. Viviamo in un mondo in cui l’escalation nel massacro e nella umiliazione della persona è uno dei segni più vistosi del divenire storico: a questi giovani romani sta a cuore solo dimostrare una cosa ovvia: che i nazisti possono essere largamente superati in crudeltà in ogni momento.

L’intervento di Calvino sulle pagine del “Corriere della Sera” suscita, nei giorni successivi, un vivace dibattito; diversi giornalisti riprendono le sue posizioni e replicano alle sue tesi.
Certamente la risposta più significativa è quella di Pier Paolo Pasolini, che indirizza a Calvino, dalle pagine de «Il Mondo», una delle sue “lettere luterane”(12). Citando testualmente le parole dello scrittore, Pasolini controbatte alle tesi calviniane:

Ho da ridire sul fatto che tu crei dei capri espiatori, che sono: “parte della borghesia”, “Roma”, i “neofascisti”. Tu hai privilegiato i neofascisti pariolini del tuo interesse e della tua indignazione, perché sono borghesi. La loro criminalità ti pare interessante perché riguarda i nuovi figli della borghesia. Li porti dal buio truculento della cronaca alla luce dell’interpretazione intellettuale, perché la loro classe sociale lo pretende. Ti sei comportato - mi sembra - come tutta la stampa italiana, che negli assassini del Circeo vede un caso che la riguarda, un caso, ripeto, privilegiato. Se a fare le stesse cose fossero stati dei “poveri” delle borgate romane, oppure dei “poveri” immigrati a Milano o a Torino, non se ne sarebbe parlato tanto e a quel modo. Per razzismo.
Perché i “poveri” delle borgate o i “poveri” immigrati sono considerati delinquenti a priori.

Pasolini attacca duramente Calvino, lo accusa di razzismo, sostiene che l’attenzione, non solo di Calvino ma di tutta stampa italiana, nei confronti del delitto del Circeo, dipende esclusivamente dall’appartenenza dei tre assassini alla classe borghese.
Lo stupore, l’indignazione, il tentativo di capire le ragioni di un delitto così atroce derivano dalla classe sociale di appartenenza dei tre giovani assassini. L’eccezionalità della notizia è questa.
Per Calvino, per la stampa italiana e per l’opinione pubblica, è inaccettabile che tre giovani, ricchi, privilegiati, fortunati, tre ragazzi che hanno avuto tutto dalla vita, come si usa dire, si trasformino in brutali assassini.
Questi tre pariolini non corrispondono all’immagine dello stupratore violento; le aspettative nei loro confronti sono altre, completamente diverse; la loro appartenenza sociale sembra inconciliabile con il reato che hanno commesso. In base ad un pregiudizio diffuso, il ritratto del criminale è quello di un uomo povero, ignorante, brutto e cattivo, che compie crimini di ogni genere a causa della sua posizione ai margini della società, della sua mancanza di mezzi di sussistenza. Nell’immaginario collettivo i borgatari, i proletari sono delinquenti ed assassini, i ragazzi per bene, educati ed agiati no. Secondo Pasolini, è questo l’errore che commettono i giornalisti italiani ed anche Calvino, osservare la società italiana e dividerla in buoni e cattivi in base ad un banale pregiudizio classista.


   (12) P.P. PASOLINI, "Lettera Luterana", in «Il Mondo», 30 ottobre 1975.


Ebbene, i “poveri” delle borgate romane e i “poveri” immigrati, cioè i giovani del popolo, possono fare e fanno effettivamente (come dicono con spaventosa chiarezza le cronache) le stesse cose che hanno fatto i giovani dei Parioli: e con lo stesso identico spirito, quello che è oggetto della tua “descrittività”. I giovani delle borgate di Roma fanno tutte le sere centinaia di orge (le chiamano “batterie”) simili a quelle del Circeo: e, inoltre, anch’essi drogati.
L’uccisione di Rosaria Lopez è stata molto probabilmente preterintenzionale (cosa che non considero affatto un’attenuante): tutte le sere, infatti, quelle centinaia di batterie implicano un rozzo cerimoniale sadico. (…) L’impunità di tutti questi anni per i delinquenti borghesi e in specie neofascisti non ha niente da invidiare all’impunità dei criminali di borgata.

Proseguendo con il confronto tra ricchi e poveri, tra borghesi fascisti e borgatari, Pasolini sostiene che l’impunità di cui tanto si parla a proposito dei tre pariolini neri, protetti dal privilegio sociale e da una magistratura compiacente, è la stessa impunità che viene goduta anche dai criminali di borgata; per fare un esempio, cita il caso dei fratelli Carlino, di Torpignattara, che godevano della stessa libertà condizionale dei pariolini.
La tesi sostenuta da Pasolini è certamente spiazzante.
Come abbiamo visto in precedenza, giornalisti di diverse testate hanno continuamente posto in contrapposizione i Parioli e la Montagnola, hanno descritto l’ambiente di provenienza, benestante e fascista, degli aggressori mettendolo in netto contrasto con la miseria e lo squallore del quartiere-dormitorio delle due ragazze.
Dopo tutti questi monotoni articoli, ci troviamo di fronte al paragone pasoliniano. Tra tutti i giornalisti e gli scrittori che hanno commentato i fatti del Circeo, Pasolini è l’unico che pone a confronto i Parioli e le borgate romane per affermare che non esistono sostanziali differenze tra i due contesti sociali. Posti vicini l’uno alle altre, egli vede affinità invece di differenze, similitudini invece di fratture abissali, elementi comuni invece di mondi estranei l’uno agli altri.
Criticando le tesi espresse da Calvino e dalla stampa italiana, Pasolini cambia prospettiva, propone un punto di vista nuovo, abbandona la contrapposizione ricchi-poveri, pariolini-borgatare e ci offre una descrizione, originale e sconcertante, delle periferie delle grandi città e dei loro abitanti. Squarcia il velo di indifferenza che circonda il mondo proletario e, confrontando il modo di agire dei ricchi con il modo di agire dei poveri, afferma che non c’è alcuna differenza, perché ci troviamo di fronte alla stessa violenza, alla stessa crudeltà, alla stessa impunità.

La tesi pasoliniana è una vera e propria voce fuori dal coro, destinata a rimanere tale; non ci sono stati commenti o discussioni a partire dalle sue considerazioni, nessuno ha raccolto la sua provocazione. Eppure, a più di trent’anni di distanza dall’episodio del Circeo, l’articolo di Pasolini, pubblicato pochi giorni prima del suo omicidio, avvenuto il 2 novembre 1975, è l’unico che ha ancora qualcosa da dirci oggi.

Dopo aver letto sempre le stesse parole, dopo aver analizzato interpretazioni ripetitive e poco convincenti in innumerevoli articoli, Pasolini ci presenta una realtà nuova, disturbante, in cui ricchezza e privilegio, fascismo e disprezzo non trovano posto.
La società tratteggiata dallo scrittore è una società pervasa dalla violenza, dal sadismo, dal sesso brutale, indipendentemente dall’appartenenza di classe. Non ci sono ambiti circoscritti, situazioni straordinarie, nelle quali la violenza si scatena, al contrario, la violenza è una presenza quotidiana, abituale sia tra i borgatari che tra i borghesi.
Anche se non nomina le donne, Pasolini intuisce la sistematicità e la diffusione del fenomeno della violenza contro le donne, fenomeno completamente ignorato dalla società italiana e denunciato con forza soltanto dal movimento femminista.


3. Una chiave di lettura diversa: la violenza sulle donne

Ad eccezione di Pasolini, dagli articoli selezionati emerge un’interpretazione politica del delitto del Circeo piuttosto ripetitiva. È un lungo articolo di Dacia Maraini, intitolato "La violenza contro le donne: una costante nel tempo. Rosaria e Donatella" (13), a darci una lettura dei fatti completamente diversa dalle precedenti, dato che tutta l’attenzione della scrittrice è rivolta verso le donne.
Il punto di vista di Maraini, le spiegazioni fornite ed i giudizi espressi, i concetti e i termini usati non sono neppure confrontabili con le opinioni che abbiamo considerato finora, perché ci troviamo di fronte ad una prospettiva radicalmente diversa.

Oggi l’Italia è in pianto per la giovane Rosaria seviziata e uccisa. Tutti si scagliano con uguale fervore contro i delinquenti fascisti chiamandoli “bruti”, “mostri”, “assassini senza cuore”. La televisione dedica una trasmissione speciale a questo fatto di sangue. I giornali e i rotocalchi fanno a gara a chi spreca più parole per lunghi articoli indignati e sentimentali. (…) A leggere i vari interventi però si avverte dappertutto una preoccupazione nascosta ma costante e monotona: che la ragazza fosse vergine e che si sia opposta con tutte le sue forze, non tanto contro la violenza assassina dei ragazzi, quanto contro il sesso in sé e per sé.

Per la prima volta, un lungo articolo a tutta pagina si occupa delle due ragazze, in particolare della vittima, Rosaria Lopez, che è posta al centro dell’attenzione e dell’analisi. Ai tre aggressori non viene dedicato spazio; tutto quello che è successo in quella villa fuori città ha portato alla morte di Rosaria ed è questo il fatto fondamentale da indagare e da capire.
Secondo Maraini, la curiosità degli italiani nei confronti della ragazza uccisa si concentra ossessivamente su un unico dettaglio: la sua verginità. È necessario essere sicuri che Rosaria fosse vergine per poterla compiangere. Solo in questo caso, gli italiani sono disposti a commuoversi per lei e a condannare i tre assassini, che volevano costringerla ad avere rapporti sessuali con loro. Rosaria ha veramente lottato, ha fatto di tutto per preservarsi, si è opposta in tutti i modi ai tentativi di violenza sessuale?
Tutti insistono su questa faccenda della “purezza”, della “pulizia” che naturalmente sono fatti puramente fisiologici, senza rendersi conto di quanto sia offensivo tutto questo per le due ragazze. Nessuno dice della morta che era buona, intelligente, onesta, forte, indipendente, allegra. Si insiste tetramente sulla sua verginità. Insomma l’Italia intera non vuole mettere mano al fazzoletto se non dopo essersi rassicurata che c’è stato un attentato alla virtù e all’innocenza, due cose che sono dimostrabili, secondo l’opinione pubblica, solo con la verginità.
La verginità, valore fondamentale nella cultura cattolica e nella società italiana, diventa l’elemento discriminante per stabilire chi sia veramente responsabile per ciò che è accaduto: soltanto se Rosaria è vergine, e di conseguenza virtuosa e innocente, la colpa ricade interamente sui tre aggressori.

A questo punto Maraini solleva un dubbio per provocare il lettore:

E se si fosse trattato di due ragazze che non tornavano a casa prima delle otto? Se si fosse trattato di due diciottenni che facevano l’amore con chi volevano e quando volevano perché faceva loro piacere? Quale sarebbe stata la reazione? Si sarebbe scatenata la stessa indignazione nazionale Oppure si tratta di una indignazione “condizionata” dalla garanzia che tutto è a posto: la ragazza è buona perché pura e difende la sua purezza.
I ragazzi sono cattivi perché insidiano questa purezza. Tutto normale insomma. Solo imprevisto: la morte.
La forte reazione dell’opinione pubblica dipende solo e soltanto dal fatto che Rosaria si è comportata come doveva comportarsi: ha difeso la propria verginità, ha combattuto contro i bruti che volevano fare sesso con lei. È andata a finire male, i mostri non sono stati teneri, l’hanno massacrata di botte, seviziata per ore, violentata e uccisa. La sua strenua resistenza, la sua ostinata opposizione le sono costate la vita ma il suo onore di ragazza rispettabile è salvo.

Maraini si dice certa di una reazione radicalmente diversa da parte dell’opinione pubblica nel caso in cui Rosaria non fosse stata vergine; dubbi, sospetti, insinuazioni, domande assillanti avrebbero inevitabilmente fatto la loro comparsa: come essere sicuri che non fosse consenziente? Chi può affermare con certezza che non sia stata lei a provocare i ragazzi? Probabilmente aveva accettato l’invito alla festa con l’intenzione di spassarsela con uno di loro o forse con tutti e tre e poi, all’improvviso, aveva cambiato idea.
Il fatto stesso di non essere casta e pura avrebbe gettato su di lei un pesante discredito, l’avrebbe esposta a giudizi malevoli e a critiche severe e l’avrebbe trasformata da vittima in parte in causa. Una ragazza così giovane con precedenti esperienze sessuali è indubbiamente una poco di buono, questa è la condivisa certezza da cui nascono i dubbi e le insinuazioni che diventano rapidamente giudizi severi e critiche feroci nei confronti della ragazza sfacciata.
Rosaria non può raccontare, non può difendersi, non può confermare o negare fatti e circostanze; per lei parla l’autopsia eseguita dai medici legali, che certifica la sua verginità e le ripetute sevizie inferte su di lei dagli assassini. Rosaria è, quindi, da compatire e da onorare; come si giudicano, invece, tutte le altre ragazze, quelle che, non essendo vergini, sono automaticamente delle poco di buono? Se una ragazza non illibata esce la sera, va a ballare,  conosce un ragazzo carino e gentile e si allontana con lui; se i due si baciano ma, dopo i primi baci e le prime resistenze da parte di lei, la ragazza viene aggredita dallo sconosciuto, viene picchiata e costretta ad avere un rapporto sessuale, come si valuta la situazione? Di chi è la colpa?

La scrittrice riferisce quello che succede regolarmente nelle questure italiane: quando una donna si presenta di fronte ad un poliziotto e dichiara di essere stata aggredita, nel giro di pochi minuti la donna violentata diventa l’imputata, domanda dopo domanda si trasforma nell’accusata: il suo comportamento presente e passato, le sue frequentazioni, il suo stile di vita vengono messi in discussione, indagati e giudicati. In tutto questo, la responsabilità  dell’aggressore diventa un dettaglio di scarso interesse, a causa della diffusa convinzione che se una donna viene aggredita è perché se l’è andata a cercare; se così non fosse, non sarebbe stata violentata.
Rosaria è stata uccisa, Donatella è stata ridotta in fin di vita: il loro è un caso straordinario, fuori dalla norma, che ha scosso l’opinione pubblica italiana. Maraini ritiene necessario andare oltre il delitto del Circeo e chiedersi che cosa succede abitualmente a tutte le altre, alle ragazze e alle donne italiane, né vergini né poco di buono, che vivono nelle città italiane: le donne, giovani e meno giovani, come si relazionano con gli uomini? Che tipo di rapporti hanno con i maschi?
A questo punto viene spontaneo chiedersi quanto siano sincere le lacrime di tutti questi italiani che d’altra parte non battono ciglio di fronte alle migliaia di casi di violenza che si compiono ogni giorno sulla donna. Se permettete, io a questa indignazione nazionale, a questo fiume di lacrime, non ci credo, anzi un poco me ne vergogno come di una manifestazione di ipocrisia dei miei connazionali. (…) Quello che nessuno ha detto è che la violenza sulle donne è un fatto quotidiano, comune, di massa. Nessun giornale ha parlato di questa violenza continuata, atroce, muta, ricattatoria, sottile, abituale che viene compiuta sul corpo e sull’anima delle donne. Una violenza che si consuma nelle famiglie, nei luoghi pubblici, nelle camere da letto, nelle strade, nei giardini pubblici.

Nonostante le dimensioni del fenomeno, il silenzio è profondo: non se ne interessano i mezzi di informazione, non se ne preoccupa la società civile, non ne parlano le donne direttamente coinvolte. Ecco allora che, per rompere il silenzio, il movimento femminista decide di scendere in piazza, più volte nei giorni successivi al massacro del Circeo; questo è il resoconto di una manifestazione che si è svolta a Roma:

le ragazze intervenute hanno parlato delle proprie esperienze quotidiane di violenza. Sono venute fuori cose inquietanti, nascoste, brucianti: ragazze di quattordici anni violentate dal padre, compagne aggredite e picchiate dai compagni di uno stesso gruppo politico, mogli picchiate a sangue dai mariti, ragazze inseguite e aggredite per la strada, bambine insidiate da amici di famiglia e parenti prossimi, sorelle sottomesse con la forza da fratelli maggiori, fidanzate brutalizzate da fidanzati gelosi, eccetera.

Le testimonianze forniscono un quadro d’insieme sconcertante; queste sono le conclusioni della scrittrice:

la violenza sulla donna è un esercizio quotidiano, così antico e abituale che non ce ne stupiamo più. Le donne poi non denunciano quasi mai le violenze subite, per paura, per complicità, per amore, per un malinteso senso del pudore, nonché per la solita scarsa fiducia in se stesse e nel mondo.

Nell’articolo di Dacia Maraini sono presenti molti spunti interessanti:
- il delitto del Circeo viene interpretato in base alla divisione dei ruoli sessuali e alla strenua difesa dell’onore da parte della vittima;
- gli italiani vengono criticati perché giudicano le donne e le dividono in buone e cattive in base al loro comportamento sessuale;
- i poliziotti vengono accusati di mettere in difficoltà le donne stuprate che intendono denunciare i loro aggressori;
- infine, vi è la denuncia, forte e chiara, del fenomeno della violenza contro le donne, che è un fenomeno costante e molto diffuso in tutta la società ma completamente ignorato.
È altrettanto interessante, in questo articolo, quello che non c’è: nulla, assolutamente nulla di ciò che altri giornalisti e altri scrittori hanno detto e ripetuto, trova spazio nelle riflessioni di Maraini.

Ci troviamo di fronte ad un nuovo modo di interpretare la realtà, ad un nuovo modo di vedere il mondo: quello che conta è il punto di vista delle donne. È Rosaria la protagonista della vicenda, è lei la figura emblematica che ha colpito l’opinione pubblica, è lei la ragazza, violentata e uccisa, che può rappresentare tutte le altre donne che vengono aggredite, picchiate, abusate e violentate quotidianamente dagli uomini.
Il massacro del Circeo segna profondamente l’immaginario collettivo italiano e le prime a rendersene perfettamente conto sono le femministe, intenzionate ad utilizzarlo come caso paradigmatico per far emergere, in tutta la sua drammaticità, il fenomeno, scomodo e disturbante, della violenza contro le donne.

   (13) D. MARAINI, "La violenza contro le donne: una costante nel tempo. Rosaria e Donatella", in “Paese sera”, 11 ottobre 1975.

(continua)