martedì 18 novembre 2014

Turchia: educazione sessuale censurata nel 2014

Turchia... direi che nulla capita per caso e quindi che sia un "momento" critico con l'isis in circolazione, per cui la censura purtroppo non mi meraviglia!
Comunque sia, credo proprio che se non si parla con naturalezza quando si spiega il sesso (quando si fa "educazione sessuale") il motivo sia da ricercare nella "vergogna inculcata" anche a chi lo spiega.
In Italia non si spiega con gli anatroccoli, certo che no, ma quante sono le persone che ne parlano con naturalezza? e in quante scuole si fa educazione sessuale? Io non lo so, ma so che il sesso è una delle funzioni biologiche di ogni essere vivente (tranne che per le specie ermafrodite), non ci piove! eppure... ancora per la stragrande maggioranza non c'è naturalezza nel parlarne.
Il diritto delle donne passa anche attraverso una corretta educazione sessuale. Se si negano o nascondono le cose, i giovanissimi cresceranno con idee sbagliate.

questo l'articolo di Marta Ottaviani su LaStampa
Se continua così, gli studenti turchi penseranno che i bambini e i cuccioli degli animali nascano sotto i cavoli. La Mezzaluna è travolta dall’ennesima polemica che vede al suo centro l’esecutivo islamico-moderato, al governo nel Paese da oltre 10 anni e sempre più accusato di aver dato vita deriva autoritaria e conservatrice, anche per quanto riguarda la vita personale dei singoli.  

Tutto è cominciato a inizio settimana, quando Abdullah Tunali, psicologo, già a capo di un branch locale del sindacato insegnanti, ha lanciato l’allarme dalla laica Smirne: i libri di biologia della sesta classe (le nostre medie) sono stati pesantemente ritoccati e privati di alcune immagini, con poca fantasia i disegni che riproducono gli organi riproduttivi maschili e femminili. Se nei tesi dello scorso anno infatti si vedono di che cosa siano composti gli apparati riproduttivi, in quelli di quest’anno ci sono foto di mamme con neonati e animali con i rispettivi cuccioli, soprattutto anatroccoli e orsacchiotti. Un modo per evitare che gli adolescenti scoprano troppo in fretta come sono fatti un uomo e una donna.  

“Nelle edizioni passate – ha detto Tunali al quotidiano Hurriyet – il funzionamento di questi organi veniva spiegato in modo chiaro e scientifico come qualsiasi altra parte del corpo. Quest’anno si è abbattuta una grave forma di censura”. Il sindacalista ha affermato che è preoccupante che negli anni dell’età evolutiva i giovani non ricevano un’istruzione adeguata e scientifica su come sia fatto e funzioni l’altro sesso. “Una carenza del genere – ha continuato Tunali – può determinare un’alterazione seria dello sviluppo dei ragazzi che, spinti dalla curiosità, possono decidere di cercare materiale su siti pornografici o per soli adulti”.  

Non è la prima volta che il ministero dell’Istruzione turco finisce sotto la lente di ingrandimento dei sindacati. Era successo qualche mese fa e la denuncia era partita sempre da Smirne, una delle città turche con lo stile di vita più occidentale. Lo scorso anno il Provveditorato agli Studi della località egea aveva chiesto di ritirare il capolavoro di John Steinbeck, Uomini e Topi dalla lista del 100 libri consigliati. La motivazione della censura erano alcuni passi del testo, giudicati “contrari alla morale” e “diseducativi”.  

A settembre, poi, gli studenti turchi sono stati colpiti da un duro provvedimento che porta la firma del governo centrale di Ankara e che, se da una parte liberalizza l’utilizzo del turban, il velo islamico della tradizione turca, fin dall’età di 10 anni, dall’altra ha attuato un giro di vite, impedendo agli studenti di portare cappelli, berretti, piercing. Tolleranza zero anche verso i tatuaggi le tinte di capelli e make up troppo appariscenti e barba e baffi per i ragazzi. 

venerdì 14 novembre 2014

#PerchéSonoUnaBambina

Quasi 1 ragazza su 4 tra i 15-19 anni nel mondo è vittima di violenze e circa 1 su 10 sotto i 20 anni ha avuto un rapporto forzato.


Perché sono una bambina

Quasi un quarto delle ragazze tra i 15 e i 19 anni nel mondo (quasi 70 milioni) sono state vittime di violenze fisiche, e circa 120 milioni di teenager sotto i 20 anni (una su dieci) hanno avuto un rapporto o atti sessuali forzati.
Inoltre, una ragazza su tre della stessa fascia di età (84 milioni) è stata vittima di violenza psicologica, fisica o sessuale da parte del marito o del partner.
Sono i dati allarmanti diffusi dall'Unicef in occasione della Giornata della Bambina, che si celebra domani 11 ottobre in tutto il mondo. A livello globale, inoltre, circa metà delle ragazze tra i 15 e i 19 anni crede che un uomo sia giustificato a picchiare la moglie o la partner in alcune circostanze come ad esempio: rifiutare un rapporto sessuale, uscire di casa senza permesso, litigare, trascurare i bambini o bruciare la cena.

In alcuni Paesi, ben sette su dieci delle ragazze tra i 15 e i 19 anni che sono state vittime di abusi fisici o sessuali, non hanno mai cercato aiuto: molte di loro pensano addirittura che non si tratti di violenza, o che non sia da considerare un problema.
Un altro dato allarmante è quello sui matrimonio precoci: in tutto il mondo, infatti, più di 700 milioni di giovani si sono sposate prima di compiere 18 anni, e oltre una su tre (circa 250 milioni) sono andate all'altare prima dei 15 anni.

"Questi dati parlano di una mentalità che tollera, perpetra e giustifica la violenza, e dovrebbero far suonare un campanello d'allarme in ognuno di noi, ovunque", ha detto Geeta Rao Gupta, Vice Direttore generale dell'Unicef.

L'Unicef punta su specifiche azioni per prevenire la violenza contro le ragazze: istruire a scuola le bambine, dare loro insegnamenti importanti per la vita. supportare i genitori anche con trasferimento di soldi per arginare i rischi per le bambine. cambiare gli atteggiamenti e le norme delle comunità, rafforzare sistemi e servizi giudiziari, sociali e penali.

"Il problema e' globale, ma le soluzioni devono essere trovate a livello nazionale, nelle comunita', tra le famiglie. Noi abbiamo la responsabilita' di proteggere, istruire e rafforzare le adolescenti. Siamo tutti responsabili di fermare la violenza contro le ragazze e le bambine", ha concluso Rao Gupta.

L’11 ottobre è anche il giorno in cui si celebra Because I am a Girl, la più grande campagna per i diritti delle bambine. Lanciata ufficialmente nel 2012 da Plan International, colorando di rosa i principali monumenti del mondo, è stata ideata dopo che due direttrici nazionali di Plan andarono in un villaggio del Nepal per monitorare il lavoro fatto in loco.

Entrando in un’umilissima casa videro una donna con due bambini, un maschio e una femmina, molto diversi tra loro: il bambino era pulito, ben tenuto, in carne, mentre la bambina era emaciata, sporca, pelle e ossa.
Una direttrice chiese alla donna come mai questa differenza e lei rispose: "because she is a girl", e cosi’ è nata Because I am a Girl. Plan Italia e Fidapa colgono l’occasione della Giornata mondiale della Bambina per proseguire unite nella loro azione contro ogni forma di discriminazione nei confronti delle bambine.
Qui alcune immagini della campagna  Because I am A Girl
 
 

Quando Mah Gul è stata decapitata

Una giovane donna afgana ha rifiutato di prostituirsi. Per questo è stata decapitata dalla famiglia di suo marito.


Quando Mah Gul è stata decapitata

La maggior parte di noi non saprà mai chi era Mah Gul, oppure si dimenticherà molto presto di lei.
Mah Gul era una giovane donna di 20 anni e viveva a Herat, in Afghanistan. È stata decapitata dalla famiglia di suo marito, nell’ottobre del 2012, per aver rifiutato di prostituirsi. Il mondo non ha tremato.
Quando Mah Gul è stata decapitata, nessuno ha acceso una candela. Nessuno ha pregato per lei. Nessuno le ha scattato una foto. Nessuna città ha esposto manifesti con sopra il suo nome e la sua foto.
Nessuno ha raccontato la storia della sua vita, i suoi sogni, la sua felicità, la sua tristezza, il suo sorriso o il modo in cui osservava il mondo.
Quando Mah Gul è stata decapitata, nessuno ha elogiato la sua integrità, il suo coraggio, la sua moralità.
Quando Mah Gul è stata decapitata, i miei amici di Facebook scrivevano dei loro cibi preferiti o delle loro difficoltà quotidiane.
Quando Mah Gul è stata decapitata, gli spensierati ragazzi afgani definivano una giovane donna come una ‘puttana’.
Quando Mah Gul è stata decapitata, i talebani usavano le donne come copertura per portare i loro feriti agli ospedali.
Quando Mah Gul è stata decapitata, gli stanchi poliziotti afgani fumavano in cima alla collina Maranjan.
Quando Mah Gul è stata decapitata, un poeta descriveva il sapore che avevano le labbra della sua amata.
Quando Mah Gul è stata decapitata, i reportage parlavano del dibattito presidenziale in America.
Quando Mah Gul è stata decapitata, un soldato in Afghanistan scriveva una lettera a suo figlio.
Quando Mah Gul è stata decapitata, gli insegnanti afgani ricopiavano per l’ennesima volta una storia noiosa e distorta sulle lavagne.
Quando Mah Gul è stata decapitata, una prostituta di Kabul era appoggiata a un muro freddo, piangendo dalla fame.
Quando Mah Gul è stata decapitata, le emittenti televisive afgane trasmettevano le soap opera indiane.
Quando Mah Gul è stata decapitata, il nostro vicino stava picchiando di nuovo sua moglie.
Quando Mah Gul è stata decapitata, le donne di Herat stendevano le camicie ad asciugare, sperando di sentirsi un giorno libere.
Quando Mah Gul è stata decapitata, le donne americane facevano yoga per alleviare lo stress.
Quando Mah Gul è stata decapitata, un “intellettuale” afgano commentava il fatto che oggi le donne indossano veli più piccoli, e un mullah locale predicava di come il lavoro alle donne promuove la prostituzione.
Quando Mah Gul è stata decapitata, Angelina Jolie non lo sapeva.
Quando Mah Gul è stata decapitata, le nostre allieve non hanno indossato veli neri in segno di lutto.
Quando Mah Gul è stata decapitata, il presidente era molto impegnato.
Quando Mah Gul è stata decapitata, il mondo non ha tremato. In ogni parte del pianeta, le persone continuano la catena di montaggio delle loro vite.
Quando Mah Gul è stata decapitata, sua madre ha sorriso, perché sua figlia era finalmente libera.

Dal blog di Noorjahan Akbar per The Post Internazionale
 
(Traduzione di Federica Flisio)

La Miss violentata: da vittima a difensore

La storia della ragazza israeliana vittima di stupro e poi divenuta simbolo della lotta alla violenze sulle donne.


La Miss violentata

È stata costretta con la forza, quasi strangolata e minacciata con un coltello. Poi è stata violentata brutalmente. 
La modella israeliana Linor Abargil aveva 18 anni e si trovava a Milano quando ha subìto l'attacco di un uomo, anche lui israeliano.
Era in Italia per lavoro e qualche mese prima era stata eletta Miss Israele. Un mese e mezzo più tardi avrebbe dovuto partecipare alla competizione di bellezza Miss Mondo, che poi ha anche vinto.

Oggi Linor Abargil ha 34 anni, ma da quando ha ricevuto il titolo, sedici anni fa, ha capito di avere un’opportunità unica: quella di diventare un megafono per tutte le donne che, come lei, avevano subìto violenza sessuale e però non avevano avuto il coraggio di parlarne e di denunciare i loro carnefici.
Grazie alla visibilità che le ha dato il concorso, Linor Abargil è presto diventata una figura di riferimento per chi ha subìto abusi sessuali. Ha cominciato a viaggiare per incontrare e aiutare altre "sopravvissute" come lei, incoraggiandole a rompere il silenzio, smettere di vergognarsi e colpevolizzarsi. "Più se ne parla, più possiamo darci coraggio l’un l’altra", racconta.

La sua storia è diventata un documentario, uscito nel 2013, e intitolato Brave Miss World. In Italia sarà presentato per la prima volta sabato 22 novembre, al teatro Litta di Milano, durante la rassegna Siamo Pari! La parola alle Donne”, organizzata dalla Ong italiana WeWorld Intervita.
Il documentario tratta la vicenda personale di Linor Abargil, che si era iscritta al concorso di Miss Israele per gioco, attirata dall’idea del premio (un viaggio in Thailandia e una macchina nuova), con la spensieratezza di una diciottenne qualunque.

La violenza, però, l’ha cambiata profondamente. Nel documentario compaiono altre ragazze che raccontano la loro esperienza personale. “Non dovete avere paura, la cosa peggiore che potesse capitare vi è già successa”.
Oggi Linor Abargil è diventa un avvocato e un'attivista per i diritti delle donne.

fonte ThePostInternazionale

martedì 11 novembre 2014

Le donne di Kobane sul fronte delle contraddizioni


Le donne di Kobane2

In una recente intervista dal fronte realizzata dalla reporter australiana Tara Brown, una donna combattente curda delle YPJ (Unità di protezione delle Donne) ha dichiarato che lo Stato Islamico è un nemico dell’umanità. Per lei e per le donne della sua brigata Kobane è il confine globale che separa la civiltà dalla barbarie

C’è qualcosa di spiazzante in queste parole perché sono le stesse che, soprattutto dopo l’11 settembre 2001, hanno preteso di giustificare una guerra combattuta senza frontiere, dall’Afghanistan all’Iraq alle periferie delle città americane ed europee, in nome della «duratura libertà» di un Occidente minacciato dal terrorismo globale. Ma è altrettanto spiazzante il radicale cambiamento di prospettiva che impongono il contesto e la posizione di chi parla: se ci muoviamo dalle stanze blindate del Pentagono a una terra di passaggio in Medioriente non abbiamo più davanti un manipolo di uomini che pretende di guidare una guerra giusta per la libertà – anche quella delle donne oppresse dall’integralismo talebano – ma donne protette soltanto da sottili muri di pietra e dalle proprie armi che combattono per liberare se stesse.

Quest’osservazione, però, non basta a quietare il senso di spiazzamento. È davvero sufficiente che sia una donna a pronunciare quelle parole per cambiare il loro significato, per rovesciare un discorso che ha veicolato gerarchie e oppressione e per trasformarlo in una canzone per la libertà?
Il fatto che siano le donne a imbracciare le armi è sufficiente a farci rinunciare al pacifismo che abbiamo sostenuto di fronte all’invasione statunitense dell’Afghanistan, a farci riconoscere le ragioni della guerra?

Le fila delle Unità di protezione del popolo contano 45mila unità, il 35% sono donne. Quasi 16mila guerriere contraddicono praticamente ogni legame sostanziale tra il sesso, la guerra o la pace. Si tratta, per la maggior parte, di curde siriane, ma ogni giorno nuove combattenti provenienti dalla Turchia e dalla Siria, non soltanto curde, si uniscono alle YPJ.
Un detonatore per questa ondata di reclutamenti è stata la presa del Sinjar da parte dello Stato islamico, lo scorso 3 agosto. Migliaia di donne curde yezidi sono state catturate.
Quelle che non sono state uccise per essersi ribellate o aver tentato di fuggire e quelle che non si sono uccise per scampare al proprio destino sono state stuprate, ridotte in schiavitù e vendute a combattenti ed emiri al solo scopo di soddisfare le loro esigenze sessuali e la necessità di produrre e allevare martiri jihadisti.
Centinaia di bambini sono stati catturati e rinchiusi in scuole coraniche per essere trasformati in combattenti.

Dietro all’odio sfrenato dell’IS nei confronti delle donne – obbligate da norme ferree che regolano il loro abbigliamento e limitano la loro mobilità, che le dichiarano «disponibili allo stupro» – c’è la loro riduzione a strumenti di riproduzione di un ordine violentemente patriarcale secondo una logica che, per quanto estremizzata e connotata confessionalmente, ha un carattere terribilmente globale.
A Kobane si sta perciò combattendo una «guerra di posizione» e questa definizione non ha nulla a che fare con le strategie militari. 

Il fatto è che in gioco c’è anche il posto che le donne occupano nel mondo e per questo le guerriere delle YPJ sono orgogliose di avere imbracciato le armi, come lo sono le loro madri organizzate nel gruppo Şehîd Jîn’.
L’etica della cura di cui queste donne sono portatrici assume forme del tutto impreviste per chi, da questa parte del mondo, fa della cura qualcosa che riguarda la vita e che, per sua natura, nega la guerra. A Kobane, però, la guerra è la scelta obbligata per chi intende curarsi della propria vita e della propria libertà, della vita e della libertà dei propri compagni e compagne, della propria regione, delle proprie idee.

Intervistata da Rozh Ahmad, che ha realizzato un bellissimo documentario dal fronte della Rojava, la madre di una combattente, che indossa il velo, racconta: «due delle mie figlie sono andate via nella stessa settimana. Una è entrata nelle YPJ, l’altra si è sposata. Per fortuna non mi preoccupo per quella che è nelle YPJ. Hanno buone idee e per noi è un onore avere una figlia nelle loro fila. La mia figlia sposata sta bene, ma sono ancora preoccupata per lei». 

Questa madre non dice quale sia la sua preoccupazione, ma possiamo immaginarlo dal racconto della sua figlia combattente: «la nostra società guardava le donne solo come buone casalinghe, le donne erano fatte su misura per gli uomini e rinchiuse in casa come schiave. Ora abbiamo appreso questa realtà amara. Ora siamo cambiate: viviamo, impariamo e combattiamo. Siamo soldatesse ora […] viviamo pienamente la nostra diversità».

Le donne combattenti di Kobane, in primo luogo, sono diverse da ciò che sono state. Le armi hanno segnato un cambiamento decisivo rispetto all’inesausta continuità della tradizione e forse anche rispetto alla «Carta del contratto sociale» della Rojava, che alle donne garantisce l’uguaglianza e la partecipazione attiva a ogni organo di autogoverno. Si tratta di un cambiamento che è dovuto, in una certa misura, alla spinta politica del PKK, nella cui «ideologia» si riconosce pienamente l’Alto consiglio delle donne del movimento di liberazione del Kurdistan.

Come spiega Handan Çağlayan, la persistenza di consuetudini come il namus, l’obbligo di sorvegliare i corpi, i comportamenti e la sessualità delle donne da parte degli uomini, costituiva un grosso limite alla mobilitazione di massa in favore della causa curda.
Il nesso stabilito da Öcalan tra la liberazione delle donne e la rivoluzione sociale (Woman and Family Question, 1992) non può comunque essere letto esclusivamente alla luce delle «strategie di mobilitazione», ma deve essere considerato allo stesso tempo una risposta a un massiccio protagonismo delle donne, anche nella guerra, a partire dalla fine degli anni ’80.
Inoltre, il mancato riconoscimento della minoranza curda da parte della Siria ha prodotto nelle donne un sentimento di oppressione e, con esso, il senso della possibilità e della necessità della ribellione. Lo racconta chiaramente a Rozh Ahmad una delle combattenti intervistate: «noi ragazze curde eravamo costrette a parlare arabo tra di noi a scuola. Noi curdi eravamo oppressi, lo Stato controllava completamente le nostre vite. Ma ci siamo sempre ribellati contro tutto questo». 

Al di là dell’identificazione di queste donne con la causa curda c’è, però, qualcosa di più. Una di loro racconta che, secondo alcuni, le combattenti «sono tagliate fuori dalla vita sociale» perché hanno preso le armi. A loro risponde con orgoglio che, assieme alle sue compagne, ha «una vita molto più ricca di quello che loro possono pensare».
Con orgoglio un’altra afferma che alcuni uomini, che non hanno avuto il coraggio di combattere, abbassano la testa al loro passaggio. Benché ciò passi in secondo piano rispetto all’impressionante resistenza che stanno opponendo all’IS, sembra che queste donne stiano portando avanti anche una battaglia sul fronte interno per affermare il loro diritto a conquistarsi la libertà.

È stata la partecipazione alla guerra che le ha portate a sentirsi uguali. Contro ogni retorica nazionalistica costruita sulla «difesa delle nostre donne», le guerriere delle YPJ hanno preso a difendere se stesse e hanno accettato il rischio di morire, senza per questo avere una felice propensione al martirio.
Contro l’incredulità dei loro padri e dei loro fratelli che dubitavano della loro forza e ben oltre il formale riconoscimento della loro uguaglianza espresso nella costituzione della Rojava, queste donne hanno dimostrato di avere non solo la forza, ma anche il coraggio.
A loro non piace la guerra, a loro non piace uccidere, a loro non piacciono le armi e lo ripetono nelle loro interviste. Una combattente racconta che pulire il suo fucile non era poi così difficile, ma per sparare ha dovuto superare la paura.

Ognuna di queste donne ha combattuto prima di tutto contro una parte di sé, la propria «passività», come la chiama qualcuna, l’ignoranza di che cosa possa significare «essere una donna», per andare sul fronte di Kobane. Nessuna di loro era già libera, ciascuna di loro ha dovuto conquistarsi un pezzo di libertà.
Convinte che la guerra e la pratica della violenza non siano proprie delle donne, alcune potrebbero arrivare a negare che queste donne siano davvero tali. È già accaduto di fronte alle immagini di Lynndie, la fiera torturatrice di Abu Grahib.
Tra lei e le combattenti della Rojava c’è un abisso, ma in entrambi i casi è chiaro che vi sono molti modi di stare al mondo come donne, al di là di qualsiasi destino tracciato dall’ordine simbolico del padre o da quello della madre.

Convinte che l’uguaglianza non sia altro che l’espressione politicamente corretta del perpetuarsi di un potere sessuale sulle donne, altre potrebbero vedere in queste guerriere la riproduzione di un «modello maschile» di autonomia. Eppure, queste combattenti sono donne e per le donne combattono, contro una schiavitù che non indossa solo le maschere nere dell’IS e del suo fondamentalismo, ma che, come ricorda una di loro, arriva in Europa nelle vesti accettabili e colorate del capitalismo. Forse, allora, non è la storia di queste donne a essere inadeguata rispetto alle alte vette della libertà femminile. Forse sono i discorsi che donne e femministe hanno a disposizione a non essere all’altezza della storia delle combattenti di Kobane.

Non si tratta, evidentemente, di fare della lotta armata il paradigma di ogni percorso di liberazione, né di dimenticare quanta oppressione e quanto sfruttamento passano per l’uguaglianza formale. Non si può neppure ignorare, però, che mentre rivendicano di essere «una brigata di sole donne che vivono in modo completamente indipendente», combattendo al fianco dei loro compagni sul fronte queste donne rivendicano e praticano l’uguaglianza e insegnano qualcosa agli uomini.

C’è, in questo, qualcosa di profondamente sovversivo, che forse non sarà decisivo dal punto di vista militare ma senz’altro lo è dal punto di vista politico. 
Duemila donne, miseramente equipaggiate e con scarso appoggio internazionale, danno un contributo fondamentale alla difesa di una città asserragliata da novemila jihadisti ben armati. La loro forza – come ha ricordato la combattente delle YPJ Xwindar Tirêj – non è nei fucili ma nella determinazione.
Certo, anche i loro compagni sono determinati, ma nell’uguaglianza femminile c’è qualcosa di più. È il volto e il corpo di quella determinazione a terrorizzare i combattenti dello Stato islamico convinti che, se saranno uccisi da una donna, non andranno in paradiso.

Così, mentre i miliziani dell’IS aspirano al paradiso, le donne di Kobane pretendono di portarlo sulla terra e, nel farlo, pongono domande davvero scomode al di qua di Kobane.
Forse questo spiega il muto e fragoroso silenzio di molte donne e femministe di fronte a questa guerra e al ruolo delle Unità di protezione delle donne.

Forse è più facile schierarsi nella guerra quando la parte delle donne è quella di vittime, quando il loro corpo è un terreno di battaglia, quando si fanno mediatrici e ambasciatrici di pace, quando sono uno fra i molti generi che subiscono la discriminazione e l’oppressione fondamentalistica, quando possono essere guardate come la metafora di una vulnerabilità che unisce il genere umano e rivela le bellicose pretese di dominio del soggetto Maschio, Bianco e Occidentale, quando sono esotici soggetti post-coloniali.

Forse è più difficile prendere parte alla guerra quando significa ammettere che le stesse che danno la vita possono toglierla a colpi di mortaio, che le stesse che incarnano la pace possono decidere di armarsi e andare al fronte, che le stesse che si prendono cura possono colpire, che le stesse che dovrebbero contestare il potere lottano per prendere potere e lo fanno come donne.

Mentre ridono e sparano, mentre riposano e danzano con tute mimetiche e foulard colorati, le donne combattenti di Kobane sembrano indicare il punto in cui ogni discorso formulato fin qui da donne e femministe rischia di sbriciolarsi sul fronte delle contraddizioni. Per questo, piuttosto che trincerarsi nel silenzio, vale forse la pena ascoltare e provare a capire la posta in gioco globale della guerra delle donne di Kobane.

sabato 8 novembre 2014

...la razza umana!!


di Magdi Cristiano Allam

foto di Magdi Cristiano Allam.Una bambina cristiana o yazida da 9 anni in giù costa 140 euro al mercato delle schiave del sesso nello "Stato islamico".
È il prezzo ufficiale stabilito in un documento con la bandiera e l'intestazione dell'Isis, lo Stato islamico dell'Iraq e del Levante.
Il tariffario delle donne schiave del sesso cristiane o yazide varia a secondo dell'età.
 Se ha un’età compresa tra i 40 e i 50 anni costa 50 mila dinari (35 euro);
se ha tra i 30 e i 40 anni costa 75 mila dinari (52 euro);
se ha tra i 20 e i 30 anni costa 100 mila dinari (69 euro);
se è una ragazza tra i 10 e i 20 anni costa 150 mila dinari (circa 100 euro);
se è una bambina dai 9 anni in giù costa 200 mila dinari (circa 140 euro).




foto di Magdi Cristiano Allam.
foto di Magdi Cristiano Allam. 















Il documento dello "Stato islamico" con il tariffario delle donne cristiane e yazide vendute come schiave del sesso è stato pubblicato dal portale IraqiNews il 3 novembre.
Una ragazza yazida, venduta «come merce o bestiame» e poi riuscita a scappare ha raccontato alla Cnn: «Ci hanno esposte a Mosul e Raqqa nei mercati con dei cartelli che indicavano il nostro prezzo».
Che cosa succeda alle ragazze comprate è stato rivelato più volte dalle prigioniere riuscite a scappare dopo essere state vendute a uomini di 50, 60 o anche 70 anni: vengono picchiate, stuprate a ripetizione e costrette a convertirsi all’islam.



Gli stessi terroristi islamici dell'Isis nella loro rivista Dabiq hanno esultato per il «ritorno alla schiavitù», giustificandolo così alla luce del Corano: «Le loro donne [yazide] possono essere schiavizzate» perché eretiche. «Bisogna ricordare che rendere schiave le famiglie degli infedeli e prendere le loro donne come concubine è un aspetto stabilito in modo chiaro dalla sharia. E se qualcuno la negasse o la prendesse in giro, negherebbe e prenderebbe in giro i versi del Corano e le narrazioni del Profeta, e di conseguenza diventerebbe un apostata».
Nessuno sa quante donne siano ancora nelle mani dei terroristi. Il governo regionale curdo ha dichiarato però lunedì di aver liberato 234 yazidi, pagando agli intermediari per l’operazione un milione e mezzo di dollari. Questi sarebbero andati solo in minima parte per i riscatti, «la maggior parte per permettere la loro fuga dal territorio dello Stato islamico».
L'unico commento è che questi criminali terroristi islamici vanno annientati e il sedicente "Stato islamico" deve scomparire. Dobbiamo combatterli e sconfiggerli prima che siano loro ad eliminarci e a porre fine all'unica civiltà che si fonda sulla sacralità della vita, la pari dignità tra le persone, la libertà di scelta per tutti.

http://www.tempi.it

mercoledì 5 novembre 2014

L’app contro la violenza sulle donne arriva da Napoli

Shaw, la nuova applicazione per smartphone disponibile su App Store e Google Play sviluppata da Kulta Srl

shaw

Migliaia di donne ogni anno sono vittime di violenza in Italia, una priorità anche per le Istituzioni pubbliche. Ora è nata Shaw un’app che prova a venire in soccorso, ideata appositamente per la sicurezza delle donne.

Shaw è stata interamente finanziata da Soroptimist, un’associazione femminile composta da donne con elevata qualificazione nell’ambito lavorativo che opera, attraverso progetti, per la promozione dei diritti umani, l’avanzamento della condizione femminile e l’accettazione delle diversità.

Soroptimist Help Application Woman è l’acronimo di questa applicazione ed è la prima app realizzata per fornire aiuto in caso di emergenza e per dare informazioni specifiche per contrastare questo fenomeno.

Shaw permette di effettuare una chiamata diretta al 112 in caso di pericolo immediato o una di aiuto al 1522 il numero di pubblica utilità, promosso dal Dipartimento per le Pari Opportunità, che offre un servizio di accoglienza telefonica multilingue attivo 24h/24 per 365 giorni l’anno rivolto alle vittime di ogni forma di violenza.
Shaw ha la funzione “click to call” e basta un semplice Tap per far partire una chiamata al 112.

L’app si presenta semplice e immediata ed è possibile anche la geolocalizzazione. Inoltre troveremo tutti i contatti dei centri antiviolenza in Italia e sarà possibile consultare gli aspetti più importanti della legge 119/2013 in termini di violenza, stalking, prevenzione e informazioni sugli eventuali “percorsi rosa bianca” negli ospedali.

La Kulta Srl ha avviato una campagna di crowdfunding, finanziamento collettivo, per finanziare la traduzione in altre lingue e per gli aggiornamenti dell’app.

Disponibile gratis su App Store e Play Store, di seguito i badge per scaricarla.

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