lunedì 28 dicembre 2015

Franca Viola (2015):


"Io, che 50 anni fa ho fatto la storia con il mio no alle nozze riparatrici"

 

Franca Viola: "Io, che 50 anni fa ho fatto la storia con il mio no alle nozze riparatrici"

Nel '67 rifiutò di sposare l'uomo che l'aveva violentata. Il suo coraggio cambiò il codice penale. "Mai avere paura di lottare"

27 dicembre 2015 - ALCAMO - È di nuovo Natale a casa Viola. In sala da pranzo finiscono il dolce e i racconti il marito, Giuseppe, i due figli, Sergio e Mauro, le nuore. L'unica nipote, tredici anni, è appena uscita per raggiungere gli amici. Una ragazzina bellissima, Sonia: bruna e bianca come sua nonna Franca.
"Ha visto com'è cresciuta? Mi ricordo che dieci anni fa, quando lei signora venne a trovarmi, mi trovò che pulivo le scale, di fuori, e quando la feci entrare in soggiorno c'era il triciclo della bambina e i suoi giocattoli a terra. Che vergogna questo disordine, pensai. Ancora me ne dispiaccio. Lei è l'unica giornalista che ho fatto entrare in casa mia, lo sa? Non lo so perché: certe volte è una parola, uno sguardo. Una cosa piccola, è quella che cambia".

Non c'era nessun disordine signora Franca, solo il triciclo di una bambina.

"Sonia adesso ha la stessa età di quando mi sono promessa a suo nonno Giuseppe. La vita è un lungo attimo. Mi somiglia moltissimo: quando a scuola hanno chiesto le foto dei nonni le ho dato la mia alla prima comunione e la maestra ha detto 'Sonia, avevo chiesto la foto di tua nonna non la tua'. Ma questa è mia nonna, è Franca Viola... Mi rende così felice che sia orgogliosa di sua nonna. Certo che la sa la storia, sì, gliel'ho raccontata io ma non ce ne sarebbe stato bisogno. Sta su Internet, mi cerca lei tutte le notizie. Io non so usare il computer, neppure riesco a vedere i messaggi nel telefono. Però c'è lei che fa tutto. Le ho solo detto, in più: l'importante Sonia è che tu faccia quello che ti dice il cuore, sempre. Poi certo, bisogna che le persone che ti amano ti aiutino e non ti ostacolino, come è successo a me con mio padre e mia madre. Ma lo sa che sono passati cinquant'anni dal fatto?".

Il fatto, lo ha sempre chiamato.

"Chi se lo poteva immaginare che sarebbe stata una vita così".

Così come?

"Così bella. Perché poi la storia grande nella vita delle persone è una storia piccola. Un gesto, una scelta naturale. Io per tantissimi anni non mi sono resa conto di quello che mi era successo. Quando mi volle vedere il Papa, il giorno del mio matrimonio, chiesi a mio marito: ma come fa il Papa a sapere la nostra storia, Giuseppe?".

"Per me la mia vita è stata la mia famiglia. Stamattina sono andata a trovare mia madre, che vive qui accanto, da sola. Ha 92 anni, è lucidissima. Per prima cosa mi ha detto: Franca, ti ricordi che giorno è oggi? È il 26 mamma, sì. Per lei il 26 dicembre è il giorno del mio rapimento e il giorno della morte di mio padre. Lo sa che mio padre è morto 18 anni dopo il mio rapimento, lo stesso giorno alla stessa ora? È stato in coma tre giorni, io pensavo: vuoi vedere che aspetta la stessa ora. E infatti: è morto alle nove del mattino, l'ora in cui entrarono a casa a prendermi. Ha aspettato, voleva dirmi: vai avanti".

Cinquant’anni fa, alle nove del mattino, Franca aveva 17 anni e 11 mesi. Era la ragazza più bella di Alcamo, figlia di contadini. Filippo Melodia, nipote di un boss, la voleva per sé. Lei si era promessa a Giuseppe Ruisi, un coetaneo amico di famiglia. Melodia e altri dodici della sua banda bussarono alla porta e rapirono lei e il fratello Mariano, 8 anni. Li portarono in un casolare in campagna. Dopo due giorni lasciarono andare il bambino, dopo sei portarono Franca a casa della sorella di Melodia, in paese. La legge diceva, allora, all’articolo 544 del codice penale, che il matrimonio avrebbe estinto il reato di sequestro di persona e violenza carnale. Reato estinto per la legge, onore riparato per la società. Doveva sposare Melodia, insomma: era scritto. Ma Franca non volle. Fu la prima donna in Italia – in Sicilia - a dire di no alla “paciata”, la pacificazione fra famiglie, e al matrimonio riparatore. Ci fu un processo, lungo, a Trapani. Lei lo affrontò. Un grande giudice, Giovanni Albeggiani.

I sequestratori furono tutti condannati. Melodia è morto, ucciso da ignoti con un colpo di lupara, molti anni dopo. Gli altri sono ancora lì, in paese.

«Quando li incontro per strada, capita, abbassano lo sguardo. Non fu difficile decidere. Mio padre Bernardo venne a prendermi con la barba lunga di una settimana: 'non potevo radermi se non c’eri tu', mi disse. 'Cosa vuoi fare, Franca'? 'Non voglio sposarlo'. 'Va bene: tu metti una mano io ne metto cento'. Questa frase mi disse. Basta che tu sia felice, non mi interessa altro. Mi riportò a casa e la fatica grande l’ha fatta lui, non io. È stato lui a sopportare che nessuno lo salutasse più, che gli amici suoi sparissero. La vergogna, il disonore. Lui a testa alta. Voleva solo il bene per me. È per questo che quando ho letto quel libro sulla mia storia, “Niente ci fu”, mi sono tanto arrabbiata. Non è quella la mia storia, per niente. Mio padre non era un padre padrone: era un uomo buono e generoso. Lo scriva».

Lo scrivo.

«Perché poi vede, il Signore mi ha dato una grazia grande: non ho mai avuto paura di nessuno. Non ho paura e non provo risentimento».

Intende risentimento per chi la rapì?

«Né per loro nè per nessun altro dopo. Sono stati molti altri i dolori della vita, ma di più sono state le gioie. Ho un marito meraviglioso. Nei giorni del processo e anche dopo mi arrivarono tante proposte di matrimonio, per lettera. Giuseppe però mi aveva aspettata. Io non volevo più maritarmi, dopo. Gli dicevo: sarà durissima per te. Ma lui mi ha detto non esistono altre donne per me, Franca. Esisti tu. Sono arrivati i figli, mio padre ha fatto in tempo a vederli e vedermi felice. Poi c’è stata la malattia di Sergio: temevo che morisse. Quando nel 2014 il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha voluto darmi il titolo di Grande ufficiale ho pensato ecco, una persona ora la conosco. E ho chiesto aiuto per curare Sergio. Ma non è servito a niente. Mi hanno dato il numero di un medico, dal Quirinale, poi questo medico non rispondeva e quando sono andata a Roma con mio figlio, ad agosto, mi hanno detto che era in ferie. Ho lasciato stare e ho fatto da sola. Un difetto si ce l’ho: l’orgoglio. Il Signore spero mi perdoni».

Il 9 gennaio Franca Viola compirà 69 anni. Nella sua vita ha visto abolire la norma del codice penale sul matrimonio riparatore. Ha visto nel 1996, solo 20 anni fa, la legge che fa dello stupro un reato contro la persona e non contro la morale. Si è vista riprodotta in foto, con grande incredulità, sui libri di scuola.

«Il primo è stato Sergio. Era alle medie, mi ha detto: mamma sul mio libro c’è una tua foto da ragazza. Come mai? Gli ho raccontato. Un poco, certo, non tutto. Certe cose non si possono raccontare. Ma altre sì: che ciascuno è libero fino all’ultimo secondo, che tutto quello che dipende da te è nelle tue mani. Questo ho potuto spiegare ai miei figli e adesso a mia nipote. Sonia è una ragazzina del suo tempo. Vorrebbe fare l’attrice, mi fa sorridere: mi dice nonna, ma tu non conosci nessuno che mi possa insegnare a recitare? Le dico amore mio, impara da sola. Ciascuno si fa con le sue mani. I fatti grandi della vita, glielo ripeto sempre, mentre accadono sono fatti piccoli. Bisogna decidere quello che è giusto, non quello che conviene».

E per se stessa, Franca? Cosa si augura, ancora?

«Di vedere guarito del tutto mio figlio. Di avere altri Natali con mio marito, con Sergio e Mauro, le loro mogli. Che ci sia un mondo meno ostile, meno feroce tutto attorno a noi. Perché è peggiorato, il mondo, sa, in questi anni. Però ora vedo questo Papa e sì, ecco, un desiderio ce l’avrei. Quando andai da Paolo VI ero giovane, tante cose non le capivo. Adesso che sono vecchia mi piacerebbe andare da Papa Francesco e consegnare a lui i miei ringraziamenti al Signore per la vita meravigliosa che mi ha dato. Ma lo faccio qui, se me lo consente lo faccio attraverso di lei. Ho il peccato dell’orgoglio, è vero, ma non quello della presunzione. Il Papa non può certo conoscere una storia così vecchia, una piccola storia siciliana. Come fa. Ha tantissime cose molto importanti da fare, in tutto il mondo. Un compito enorme. Infatti lo penso e lo prego. Tanto, prego per lui».

FONTE: Repubblica
Articolo correlato (tratto da l'enciclopedia delle donne): Franca Viola

Sono le piccole cose che cambiano il mondo,
e il quadrato lo fanno rotondo.
Franca lottava spartana, armata di grande coraggio.
Rompeva di secoli l'uso.
I saggi dissero a Franca, non fare la donna moderna.
Se l'uomo non ti piace che importa.
Ma Franca rispose con orgoglio: l'amore lo do a chi voglio.
L'esempio cambiò i destini. Il rapimento, l'eterno ricatto,
un giorno diventa riscatto.
Da oggi la donna è padrona, l'amore a chi vuole lo dona.
Grazie Franca, dopo più di 50 anni continui ad essere fonte di ispirazione e di coraggio in un mondo sempre più brutale.

La Regina Senza Re (di Otello Profazio)

martedì 22 dicembre 2015

Le falle del sistema anti-tratta

Ogni anno arrivano in Italia migliaia di ragazze nigeriane. Almeno la metà di loro, secondo l'Organizzazione internazionale per le migrazioni, sono vittime della tratta di esseri umani, cioè sono state rapite o ingannate per essere destinate allo sfruttamento sessuale. Il sistema di accoglienza italiano, però, fatica ad identificare queste situazioni, riconsegnando spesso le ragazze alle reti criminali.
A denunciare le negligenze del sistema anti-tratta italiano sono sia le organizzazioni internazionali che le associazioni e le cooperative del nostro paese, che quotidianamente si danno da fare per contrastare il traffico di esseri umani. Secondo Maria Grazia Giammarinaro, referente speciale delle Nazioni unite sulla tratta, in Italia non mancano delle leggi adeguate, ma piuttosto l'attenzione politica necessaria a renderle efficaci.

Le vittime della tratta dovrebbero essere riconosciute al loro arrivo sulle coste italiane. Sono ragazze, spesso sotto i 25 anni, che hanno già alle spalle mesi o anni di violenze e ne portano i segni sul corpo. Se gli operatori dell'accoglienza non riconoscono questi segnali, le giovani seguono l'iter di qualunque richiedente asilo. Nel caso in cui vengano rimpatriate, tornano dagli stessi sfruttatori che le avevano inviate in Italia. Se rilasciate con un permesso d'asilo, invece, vengono intercettate dai loro "protettori" e costrette alla prostituzione. A questo punto, è ancora più difficile riuscire a sottrarle alle organizzazioni criminali: una volta in strada, se sottoposte ad un controllo delle forze dell'ordine, finiscono per essere considerate di nuovo migranti da rimpatriare.

Il Testo unico sull'immigrazione prevede, per le vittime della tratta, un percorso specifico di assistenza e reintegrazione sociale. Attualmente, però, questi progetti sono riservati a quelle ragazze che denunciano i propri sfruttatori. Un gesto che poche riescono a portare a termine, perché costantemente minacciate di ritorsioni verso di loro o verso le loro famiglie in Nigeria.
L'intervento di associazioni e cooperative, in questa situazione, è essenziale. C'è chi, come le socie della cooperativa BeFree, l'associazione Differenza donna e le attiviste di LasciateCIEntrare, aiuta le ragazze nei Centri di identificazione ed espulsione, riconoscendo e segnalando le situazioni a rischio. Altri le intercettano in strada, come la cooperativa Parsec di Roma. Infine, avvocati e studenti di giurisprudenza, tra cui volontari dello sportello legale dell'università di Roma Tre, assistono i ricorsi contro i rimpatri.
Il tutto in attesa di un Piano anti-tratta nazionale: l'adozione era prevista per giugno 2015, ma il testo non è ancora stato approvato dalla Conferenza Stato-regioni. La responsabile del documento era Giovanna Martelli, delegata alle Pari opportunità del governo Renzi, che però si è dimessa a fine novembre. Nel frattempo, il terzo settore colma le lacune del sistema di accoglienza italiano.

sabato 19 dicembre 2015

Sei donne al Giardino di Milano


approvate le figure da onorare per la Giornata europea dei Giusti

 

L’Associazione per il Giardino dei Giusti (composta da Gariwo, Comune e UCEI) ha scelto le figure che saranno onorate al Giardino del Monte Stella in occasione della prossima Giornata europea dei Giusti.
L’Associazione ha accolto le candidature proposte da Gariwo sul tema "La resistenza morale e civile delle donne per la propria dignità, patrimonio universale”.

“Anche quest’anno l’Associazione per il Giardino dei Giusti ha approvato la proposta di Gariwo  ha dichiarato Gabriele Nissim.
Ne siamo felici poiché il tema della resistenza morale e civile delle donne a difesa della propria dignità ci sta molto a cuore. La loro lotta, condotta in ogni parte del mondo, ci coinvolge tutti, perché si estende alla difesa dei diritti fondamentali di ogni essere umano. Per questo ci è sembrato importante fare coincidere le celebrazioni della prossima Giornata Europea dei Giusti dedicata a queste straordinarie figure femminili, con la data simbolica dell’8 marzo”.

In tutto il mondo, infatti, si va sempre più consolidando la consapevolezza del ruolo peculiare delle donne in ogni campo dello sviluppo dell’Umanità. Il contributo della specificità femminile, il suo valore aggiunto, nutrito di capacità inclusiva e di ascolto, di apertura al mondo e di cooperazione, di intreccio di rapporti e di solidarietà, di caparbietà e determinazione, di senso di giustizia e di pietà, non è più in discussione. 

Il passaggio al nuovo millennio ha visto affacciarsi sullo scenario internazionale le nuove sfide della globalizzazione, della crisi economica, dei Paesi emergenti, con lo scoppio di nuovi conflitti e l’acuirsi delle contraddizioni insolute, che penalizzano ancora una volta l’universo femminile prima di ogni altra condizione e mettono a rischio le conquiste tanto faticosamente ottenute.
La reazione non si è fatta attendere: seppure a fatica, si va affermando una nuova volontà di uscire dall’isolamento e dall’anonimato, dalla subordinazione, dall’abbrutimento e dall’umiliazione, delle donne più consapevoli e coraggiose, avanguardie di un movimento trasversale, che non ha confini geografici, connotazioni nazionali, etniche, politiche o religiose; un moto di ribellione che ha molto a che fare con la difesa dei diritti umani fondamentali e per questo travalica quei confini, rifiutando ogni logica di appartenenza che in nome di una malintesa identità sacrifichi la dignità umana.

Dall’Africa all’Asia all’America Latina, troviamo giornaliste, studentesse, religiose, attiviste, militanti politiche, che arrivano a rischiare la vita per smascherare torturatori e assassini, per rivendicare uguaglianza e rispetto, per chiedere condizioni di vita e di lavoro dignitose, libertà e democrazia. Una battaglia che si allarga dalla condizione di genere alla difesa di ogni essere umano, che assume un valore simbolico universale e si configura come la regina di tutte le battaglie.

Per questo, in occasione della Giornata europea dei Giusti, al Giardino del Monte Stella saranno dedicati sei nuovi alberi ad
 Halima Bashir, giovane medico del Darfur, che ha avuto il coraggio di denunciare e testimoniare gli stupri delle milizie Janjaweed; 
 Vian Dakhil, deputata irachena che ha rivolto un accorato appello per gli yazidi intrappolati nei Monti del Sinjar, accusando l’ISIS di genocidio;
 Sonita Alizadeh, rapper afghana di Herat, che si batte contro il dramma delle spose bambine;
 Flavia Agnes, avvocatessa indiana, coraggiosa attivista per i diritti delle donne di ogni ceto e religione, contro la violenza di genere e per una legislazione che le tuteli;
 Azucena Villaflor per le madri di Plaza de Mayo, che negli anni ’70 hanno osato sfidare la dittatura argentina, invocando verità e giustizia per i propri cari “desaparecidos”;
 Felicia Impastato, che ha sfidato la morte civile dell’isolamento e del disprezzo sociale, col rivendicare prima la propria estraneità all’ambiente delle cosche, e poi verità e giustizia per il figlio Peppino, ucciso dalla mafia nel 1978.  

fonte: http://it.gariwo.net/giardini/giardino-di-milano/sei-donne-al-giardino-di-milano-14328.html

lunedì 14 dicembre 2015

Jasvinder Sanghera: "Difendo le vittime dei reati d'onore"

Jasvinder Sanghera: “Difendo le vittime dei reati d’onore”

Inglese di origini indiane, ha rifiutato il marito che le era stato imposto in famiglia. Oggi è a capo di una Ong, ed è stata minacciata di morte. Ma va avanti. In nome di sua sorella.

Hanno piazzato una bomba sotto la sua automobile. Ha ricevuto migliaia di minacce di morte. Negli incontri pubblici è stata insultata. Hanno imbrattato più volte di sterco le finestre esterne dell’edificio di Leeds che ospita la sede di Karma Nirvana, l’organizzazione no profit che ha formato per combattere i matrimoni forzati e sostenere le vittime dei reati di onore. Ma Jasvinder Sanghera, 50 anni, non si è mai spaventata. Figurarsi se si è arresa all’odio di centinaia di migliaia di famiglie indiane e musulmane che vivono in Gran Bretagna e nel resto del mondo, di cui è diventata incubo (per i genitori) e al tempo stesso speranza (per le figlie).

Dopo venti anni di tamburellante, incessante campagna di persuasione, questa donna nata e cresciuta a Derby in una famiglia originaria del Punjab ha “vinto”: il 14 luglio scorso è stato celebrato per la prima volta il giorno internazionale della memoria delle vittime di reati legati all’onore. Grazie al suo impegno, il Parlamento inglese ha promulgato la legge che dichiara reato obbligare una persona a sposare un’altra che non sia di suo gradimento. Jasvinder, che ha tre figli e ha divorziato due volte, ha ricevuto dalla Regina la stella dell’Eccellentissimo Ordine dell’Impero Britannico.

Lei è assidua ospite di talk show alla Bbc, tiene conferenze nelle scuole secondarie del Regno Unito e del mondo, i suoi libri vendono milioni di copie (Prigioniere dell’onore e il Sentiero dei Sogni  sono editi in Italia da Piemme), siamo nel 2015 eppure la piaga dei matrimoni forzati non accenna a essere sanata: se ne stimano 50 milioni nel mondo negli ultimi 5 anni, il 90 per cento riguardano ovviamente donne. Perché?
 
Ignoranza e onore. Molte famiglie tutt’oggi regolano la loro vita secondo codici medievali, gli stessi che ho subito io sulla mia pelle quando avevo 14 anni: non potevo truccarmi, portare i capelli sciolti, parlare con i ragazzi maschi inglesi. Oggi il divieto è esteso al telefonino. Però le assicuro che molti passi in avanti sono stati fatti, specialmente in Gran Bretagna dove le ragazze hanno meno timore di contattare charity come Karma Nirvana: le telefonate sono cresciute recentemente del 30%. Bisogna continuare a fare pressione, informare, spiegare. Parlare ai genitori, alle ragazzine, senza stancarsi mai.

Cosa le dà questa carica inesauribile, il ricordo indelebile di quello che le accadde?
 
Mio padre lavorava in una fonderia a Derby, era un uomo all’apparenza molto socievole e aperto ai costumi britannici, andava persino a bere pinte di birra al pub con i colleghi. Dietro la porta di casa, però, vigevano le regole delle famiglie sikh, mia madre lo venerava e anche noi sei figlie dovevamo fare lo stesso. Piano piano ho visto le mie sorelle venire prelevate dalle scuole inglesi e sparire una a una per essere sposate a sconosciuti. La cosa che più mi turbava era il totale silenzio che veniva imposto sul loro destino. Sparivano e basta.

Lei si rifiutò, ma dovette sparire egualmente.
 
Compiuti i 14 anni, un giorno torno da scuola: mia madre, come aveva fatto con le mie sorelle, mi chiamò nel salotto, mi fece sedere sul divano e mi mostrò la fotografia di un uomo. Sconosciuto e anche più basso di me. Subito mi dissi: potete togliervi dalla testa che io sposi questo qua. L’opera di convincimento si fece nel tempo molto sottile, il matrimonio combinato divenne una sorta di avvoltoio pronto a piombarmi dall’alto sulla testa. Nonostante il mio rifiuto, i preparativi andavano avanti, così scappai di casa, ma la polizia mi riportò indietro. Fui chiusa dentro a chiave. Dissero che se non accettavo lo sposo prescelto, sarei morta ai loro occhi.

Scappò a Newcastle con il fidanzato di allora, che poi divenne il primo marito. Non ha mai più rivisto la sua famiglia?
 
Tornai a casa quando mio padre morì, c’era il mio diploma appeso sopra la porta. Ho un vecchio grammofono uguale a quello che lui faceva suonare, mi ricorda i tempi belli della prima infanzia. I genitori che forzano le figlie a sposarsi non sono tiranni, bensì incapaci di ribellarsi alle usanze delle terre di provenienza, in cui l’onore della famiglia e del clan vale più della vita stessa.

Sua sorella Robina si suicidò per fuggire ai continui abusi del marito che le era stato imposto.
 
Dopo la sua morte decisi di fondare Karma Nirvana per aiutare le ragazze a fare in modo che non subissero più quel triste destino. Per me fu terribile da un giorno all’altro lasciare gli affetti, la mia casa e dover cominciare a lavorare per pagarmi da vivere. Avevo 16 anni, sono riuscita a diventare avvocato. Tutti governi del mondo, come ha fatto quello di David Cameron, devono darsi da fare, istruire, agire.

articolopubblicato su IoDonna 

In Arabia Saudita le donne votano per la prima volta


Il 12 dicembre 2015 è una data che passerà alla storia: in Arabia Saudita si sono tenute le elezioni municipali e per la prima volta in assoluto hanno potuto votare (e candidarsi) anche le donne. Un passo importante per un Paese in cui i diritti femminili sono molto limitati


Cerchiamo di capire, con l’aiuto di un’esperta, cosa significa questa “apertura” del re saudita.

È UN’OCCASIONE DI EMANCIPAZIONE  In Italia il suffragio femminile è stato istituito nel 1946, in ritardo rispetto a Paesi come Regno Unito e Stati Uniti. Anche se sembra strano, ci sono posti nel mondo dove le donne hanno la possibilità di votare solamente adesso.
«L’Arabia Saudita è una monarchia assoluta, le uniche elezioni permesse sono quelle municipali e si tengono solo da 10 anni» spiega Valeria Talbot, ricercatrice dell’Ispi, l’Istituto per gli studi di politica internazionale di Milano.
«Il voto femminile, promesso nel 2011 sulla scia delle primavere arabe, diventa quindi un passo cruciale verso l’emancipazione. In questo regno le donne non possono guidare l’auto né viaggiare da sole: fare un segno su una scheda elettorale o potersi candidare è una conquista».

MA PARTECIPARE NON È SEMPLICE  Sulla carta il voto per le municipali sarà un suffragio universale.
«Le difficoltà per le donne, però, saranno tante» continua la ricercatrice dell’Ispi.
«Per votare bisogna registrarsi presentando un documento di identità, che non tutte hanno. E anche se il permesso di mariti e padri non serve, le saudite dovranno farsi accompagnare alle urne da un uomo della famiglia».
Le iscritte sono 136.000: circa il 10% degli elettori. Le candidate saranno invece 900 su 7.000 aspiranti sindaci e consiglieri.
«Sembrano numeri bassi, ma per l’Arabia Saudita è un risultato significativo» dice Valeria Talbot.
«Oltre alle rigide regole della sharia, la legge islamica, bisogna considerare le resistenze culturali difficili da sradicare, specie per le donne anziane o che vivono in zone rurali».

E PER LA PARITÀ RESTA MOLTO DA FARE  Per le saudite, soprattutto le più giovani o quelle che hanno studiato all’estero, il 12 dicembre sarà un momento importantissimo.
«Se poi qualcuna verrà eletta, come si pensa possa accadere, questo voto avrà un valore simbolico ancora più forte» commenta l’esperta.
«Ma siamo solo all’inizio: da qui parte un percorso che richiederà molto tempo per portare maggiori diritti. Anche se è ricca, l’Arabia Saudita è tra i Paesi più conservatori al mondo e c’è una forte censura: per una maggiore apertura dovrà essere coinvolta tutta la società, uomini compresi».

articolo di Sara Scheggia  postato l'08 Dicembre 2015 su DonnaModerna

venerdì 11 dicembre 2015

Il caso di Elisa Zaccarelli



"Ha stuprato mia figlia ma io lo devo risarcire"

 


"Ha stuprato mia figlia ma io lo devo risarcire"
Ogni 27 del mese Davide Zaccarelli riceve lo stipendio. Millesettecento euro, più o meno. Ma 350 di questi euro gli vengono pignorati e finiscono nel conto della madre di Ezio Foschini. Quest'uomo è in carcere, sta scontando una pena definitiva a tre anni per violenza sessuale nei confronti della figlia di Zaccarelli.
Avete letto bene: Zaccarelli paga ogni mese i familiari di colui che ha violentato sua figlia. È una storia dolorosa, con una trama kafkiana, quella che ha travolto dal 2007 una normale famiglia di Faenza e che ha spinto Zaccarelli, due mesi fa, ad accettare inviti nelle trasmissioni tv per fare un appello pubblico: servivano soldi per pagare 21mila euro alla famiglia del violentatore. È una storia torbida, condita di pettegolezzi di provincia su alcuni dei protagonisti. È soprattutto una storia che nasconde un dramma più grande degli altri: quello di Elisa Zaccarelli, molestata dal suo professore a 15 anni, e che l' anno scorso si è tolta la vita.

Davide, sua figlia Elisa frequentava l' Istituto d' arte per la ceramica di Faenza. Che ragazza era?
«Gioiosa e studiosa. Andava bene a scuola, poi sono iniziate le molestie di questo professore. Prima allusioni, poi apprezzamenti, sms. Fino all' episodio clou, nel febbraio 2007».


Il clou?
«Si sono ritrovati da soli in ascensore a scuola e lui l'ha baciata in bocca e le ha toccato le parti intime».


Elisa ve ne ha mai parlato?
«Accennò qualcosa a mia moglie Stefania ma gliene parlò come se fosse capitato a un' amica. Il giorno dopo gli insegnanti l' hanno trovata in lacrime a scuola e sono riusciti a farle raccontare tutto. Lo abbiamo scoperto così».


E avete denunciato?
«Sì, ma questo professore è stato arrestato solo un mese dopo. Nel frattempo è rimasto a insegnare, come se nulla fosse. Non solo, andava in giro diffamando mia figlia dicendo che era una poco di buono. Ha anche scritto una lettera con queste accuse e l' ha fatta firmare a molti studenti. Tra i firmatari c' erano anche compagni di Elisa. Avrei potuto denunciarli per diffamazione ma erano ragazzi, ho capito che erano stati condizionati e per non rovinare loro la fedina penale mi sono fermato».


In tutto questo i vertici dell'istituto d' arte che hanno fatto?
«Niente. Eppure le abitudini di Foschini erano note. Era rinomato per mostrare attenzioni particolari nei confronti delle ragazze. Le racconto un fatto».

Prego.
«Nel registro di classe, che poi è stato sequestrato, di fianco ai nomi delle studentesse lui annotava i... soprannomi».


I soprannomi?
«Ve li lascio immaginare. Me ne ricordo uno in particolare: "la figona imperiale", ma ce n' erano altri. Fatico anche a ripeterli».


Perché lei ce l' ha con la scuola?
«A quanto mi risulta il preside dovrebbe controfirmare il registro. Questo preside cosa ha fatto? Tra l' altro nel mese trascorso dalla denuncia all' arresto Foschini ha continuato a insegnare. Io avevo denunciato l' istituto, ma la denuncia è lì, bloccata. Hanno lasciato che mia figlia venisse diffamata. E il ministero?».


Niente?
«Al processo il ministero si è costituito parte civile, poi è scomparso improvvisamente. Non so cosa sia successo».


Nessuna solidarietà, insomma?
«Non dico questo. Anzi, voglio ringraziare tre insegnanti che hanno aiutato tantissimo Elisa. Senza di loro forse non avrebbe continuato gli studi. Sono stati gli unici del corpo insegnanti a venire al suo funerale».


Veniamo al processo penale.
«Foschini, dopo sei mesi di carcere, lo ha affrontato da uomo libero. Si è presentato a una udienza, si è avvalso della facoltà di non rispondere, poi è scomparso».


Arriva comunque la condanna?
«Sì, in primo grado a quattro anni di carcere e a un risarcimento di 66mila euro: 40mila da dare a Elisa e 26mila euro a noi genitori».


Qui, Davide, inizia una storia assurda. Foschini non vi paga.
«Risulta nullatenente, ma scopriamo che qualche tempo prima della sentenza aveva fatto sparire i soldi dal suo conto, trasferendoli su quello del padre».


E voi?
«Lo denunciamo. Articolo 388, "mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice", reato per cui è già stato condannato fino in appello a un anno e mezzo».


Quindi vi paga?
«Macché. La Guardia di Finanza ha anche documentato per filo e per segno gli spostamenti dei soldi. Addirittura Foschini annotava in alcuni libricini "il tal giorno prelevo tot", è tutto nero su bianco. Procediamo per via civile chiedendo un sequestro cautelativo dei conti dei genitori di Foschini».


E lo ottenete?
«Siamo condannati».


Condannati?!
«Sì, per sentenza di un giudice che si chiama Flavia Mazzini, scriva il nome per favore».


Che decide?
«Siamo condannati per aver causato un danno biologico nei confronti dei genitori di Foschini. In pratica il papà del violentatore sarebbe stato male per la nostra denuncia».


Risultato?
«Dobbiamo risarcirlo e pagare le spese legali. In tutto gli devo, tra interessi maturati e condanna, 40mila euro. Soldi che non abbiamo, per cui mi pignorano lo stipendio».


Mi faccia capire, in base a questa sentenza lei deve pagare i genitori dello stupratore di sua figlia?
«Sì. E occhio alle date. Questa sentenza è del marzo 2014. Tre mesi dopo...».


Tre mesi dopo?
«Il 29 giugno 2014 Elisa si suicida».


Sette anni dopo quella violenza.
«Ma due mesi dopo quella sentenza. Nel frattempo era riuscita a terminare gli studi senza cambiare scuola e nonostante venisse additata, chiacchierata. Si è diplomata con 91 centesimi, non sappiamo spiegarci con quale forza d' animo. Alternava momenti spensierati a momenti bui. Un giorno poi girando per Faenza incontra il suo violentatore per strada. È stata male, fisicamente, per i giorni successivi. È crollata. Si dice che il tempo guarisce i mali e di tempo ne era passato. Ma questa condanna nei nostri confronti è stata una botta enorme».


Non ha retto.
«Un giorno, abbiamo saputo poi, di nascosto ha chiesto al nostro avvocato civilista se ci potevano portare via la casa. La sensazione è che provasse una tremenda colpa».


Vi ha lasciato qualche ultimo messaggio?
«È un tasto molto doloroso, diciamo che ha lasciato qualche post it in cucina, parole molto intime».


Davide, lei oggi ancora paga i genitori di colui che ha causato tutto questo e sta scontando una pena definitiva in carcere.
«È incredibile, lo so. Guadagno 1700-1800 euro al mese e ne do 3-400 a loro. Ai loro avvocati, prima, poi a sua madre. Tra l' altro, beffa delle beffe, siamo venuti a conoscenza di un particolare».


Quale?
«Il padre di Foschini è morto un anno prima della sentenza ma il loro avvocato non l' ha comunicato al giudice. Se si fosse saputo, il processo civile sarebbe stato da annullare. Quando invece si arriva a sentenza, c' è poco da fare se non sperare nell' appello».


La vostra storia divenne popolare qualche mese fa, quando la madre di Foschini le chiese 21mila euro da pagare in dieci giorni.
«Sì, sosteneva che ne aveva bisogno subito. Abbiamo fatto un appello pubblico perché noi quei soldi non li abbiamo. Per fortuna li abbiamo raccolti grazie alla straordinaria solidarietà della gente comune. Li abbiamo accantonati, pronti se dovessero servire.
Al momento, dopo il clamore mediatico, la richiesta di quei 21mila euro è stata ritirata».


Davide, cosa significa la parola giustizia per lei?
Zaccarelli sospira: «Ah, la giustizia... Credo ci sia. Sono le persone che, non so se in buona o cattiva fede, interpretano le leggi in modo non chiaro. Certo, a proposito di "giustizia", cosa ci mettevo ad andare dal Foschini quando era libero e disfarlo?».


La tentazione c' è stata?
«Eccome. Elisa e mia moglie mi dicevano: "Ti leghiamo in casa sennò vai a combinare qualcosa che non va". Ma avrei peggiorato la situazione, forse. Oddio, peggio di ora cosa c' è? Abbiamo perso una figlia».


Lei crede nello Stato?
«Lo Stato è la Squadra mobile di Ravenna, con le indagini fatte dopo la violenza su mia figlia. Lo Stato è la Guardia di Finanza che ha accertato lo spostamento di soldi. Lo Stato è il giudice che ha mandato in carcere Foschini. Certo, il processo civile mi lascia molto perplesso».


Foschini quando uscirà?
«Deve scontare ancora un anno per la violenza, poi ha una condanna in appello a un anno e sei mesi per violazione dell' art. 388».


E poi?
«E poi boh. Comunque è stato licenziato, non potrà più insegnare».


E se lo incontra?
«Non avrei una bella reazione. Non me lo chieda».


Lei è il volto pubblico di questa storia. Sua moglie Stefania cosa pensa?
«Si può volere bene da padre a una figlia, ma la mamma è la mamma. Il legame di sangue è il suo».


Voi avete un altro figlio, Riccardo, di 11 anni.
«Per ora non fa domande, noi lo proteggiamo. Verrà un giorno in cui chiederà. Ci dobbiamo preparare per questo».


di Alessandro Milan su LiberoQuotidiano

giovedì 10 dicembre 2015

Il Pronto Soccorso si trasforma in trappola per le donne maltrattate

Un emendamento alla legge di stabilità toglie diritti e libertà alle donne picchiate che vanno al Pronto Soccorso. Va ritirato immediatamente. 

L’emendamento detto “Codice Rosa” n. 1.131 al ddl Atto della camera 3444 cd. Legge di Stabilità a firma Giuliani, Verini, Ferranti, Ermini, Gribaudo, Tartaglione, Bazoli, Amoddio, Mattiello, Zan, Campana, Guerini, Morani, Rostan, Pini, Locatelli, Galgano, Milanato, Polverini, D.Bianchi,  minaccia la libertà e i diritti delle donne che subiscono violenza.

L’emendamento configura infatti un percorso obbligatorio, e a senso unico: una donna che si rivolge al Pronto Soccorso sarebbe automaticamente costretta ad un tracciato rigido, senza poter decidere autonomamente come agire per uscire dalla violenza, e si troverebbe di fronte  un magistrato o a un rappresentante della polizia giudiziaria prima ancora di poter parlare con una operatrice di un Centro Antiviolenza che la ascolti e la sostenga nelle sue libere decisioni.
L’emendamento quindi mette in pericolo l’incolumità fisica e psichica delle donne che subiscono violenza maschile, e rischia di compromettere l’emersione del fenomeno. 

Questo emendamento è frutto di un analfabetismo costituzionale, legislativo, sociale e culturale.
Infatti, se l’emendamento “Codice Rosa” fosse approvato, una donna picchiata avrebbe paura di rivolgersi al Pronto Soccorso per farsi curare, già sapendo che la sua richiesta di aiuto e di prestazioni sanitarie si tradurrebbe automaticamente in una azione di polizia e poi giudiziaria.
E poi chi garantirebbe l’incolumità fisica della donna dopo la visita al Pronto Soccorso?
Una delle ragioni per cui le donne stentano a chiedere aiuto e a denunciare è proprio che hanno paura di essere uccise dal maltrattante se lo fanno.

L’emendamento “Codice Rosa” è in aperta contraddizione con la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica del Consiglio d’Europa.
La Convenzione di Istanbul è stata sottoscritta dall’Italia ed è giuridicamente vincolante dall’agosto 2014. Per le donne che subiscono maltrattamenti prevede il diritto di disporre di un sistema di supporto coordinato tra diversi attori territoriali, come i Centri antiviolenza, i Pronto Soccorso, le forze dell’ordine formate all’uopo, servizi sociali, eccetera.

I Centri Antiviolenza, che hanno venticinque anni di esperienza nell’affrontare quotidianamente la violenza contro le donne, sono completamente cancellati dall’emendamento “Codice Rosa”.
La violenza maschile contro le donne viene considerata un problema sanitario e di ordine pubblico e sicurezza, invece di essere affrontata come fenomeno strutturale e complesso di ordine politico, sociale e culturale.

L’emendamento “Codice Rosa” è in aperta contraddizione con la vigente legge 119/13, con il pur discutibile Piano Nazionale Antiviolenza appena firmato dal Governo, con tutte le leggi Regionali in materia, e annulla il ruolo fondamentale del Dipartimento delle Pari Opportunità previsto dalla legge.

Le Procure della Repubblica dovrebbero svolgere un lavoro che nulla ha a che vedere con le funzioni dell’autorità giudiziaria. E’ illecito e privo di fondamento che il Ministero della Giustizia si intesti queste attività.

Sono anni che il Ministero dell’Interno e quello della Sanità cercano di far passare il “Codice Rosa” come soluzione del problema della violenza maschile contro le donne, nonostante il parere contrario e l’opposizione di tutti coloro che hanno esperienza in questo campo, innanzitutto i Centri Antiviolenza, il mondo dell’associazionismo delle donne, le organizzazioni sui diritti umani.

Noi ci rivolgiamo alle parlamentari ai parlamentari che hanno a cuore la battaglia per mettere fine alla violenza contro le donne perché contrastino l’emendamento Giuliani, e alle firmatarie e ai firmatari perché lo ritirino.


Firme 

D.i.Re Donne in Rete contro la violenza
UDI Unione Donne in Italia
Casa Internazionale delle Donne di Roma
Associazione Nazionale Telefono Rosa
Fondazione Pangea
Ferite a morte
Associazione Lenove
Be Free, Cooperativa sociale
Lea Melandri, saggistascrittrice e giornalista italiana
Gabriella Paolucci, Sociologia Università di Firenze
Associazione SCOSSE
Marisa Guarneri, Casa delle donne maltrattate di Milano
Giorgia Serughetti, Ricercatrice Sociale, Università Bicocca
Associazioni Scosse
Michela Marzano, filosofa, politica e saggista italiana
Camilla Sgambato, delegata P.O. Comune di Napoli

Per adesioni scrivete a: direcontrolaviolenza@women.it

mercoledì 9 dicembre 2015

Storia dell'associazionismo femminile italiano



Dalle origini dei primi movimenti emancipazionisti al Consiglio Nazionale delle Donne Italiane, l'universo femminile ha dovuto lottare a lungo per ottenere il diritto al voto e il pieno godimento dei diritti civili. Non senza frizioni tra le diverse anime dell'associazionismo e con numerose battute d'arresto, come la politica di espulsione dal lavoro extradomestico voluta dal fascismo.

di Stefania Maffeo

In Italia la spinta propulsiva all'associazionismo femminile avvenne all'indomani dell'Unità. Ma si trattò per lo più di movimenti informali, nati nei luoghi femminili della storia: il forno per il pane, il lavatoio, il salotto di casa, più o meno colto che fosse. Le donne hanno dovuto associarsi per fare lotta comune perché prima della costituzione delle associazioni in ente collettivo era la personalità della donna singola illustre ad avere seguito. A cavallo tra XIX e XX secolo l'associazionismo femminile assunse una maggiore struttura, ma lo stato sociale era tutto da costruire: nel privato urgeva il cambiamento della condizione della donna all'interno della famiglia; c'erano poi i diritti civili che attendevano di essere riconosciuti, come quello all'istruzione e alle libere professioni; infine, il diritto politico per eccellenza era il "suffragio femminile". Le associazioni femminili passarono così da una gestione filantropica al disegno assai più ambizioso del raggiungimento dei diritti civili e politici. Un salto di qualità gigantesco.
La presenza del partito socialista sulla scena italiana, la mobilitazione dei cattolici nella politica sociale e l'accentuarsi del processo di trasformazione dell'economia e del mercato del lavoro in generale, videro le donne attive non solo nell'industria, ma anche nelle prime forme di terziario. Si svilupparono così le condizioni per la nascita di un movimento di rivendicazione da parte della popolazione femminile. Nell'ultimo decennio dell'Ottocento crebbe nelle donne la consapevolezza della propria condizione subordinata. E con essa l'esigenza di organizzarsi e di riconoscersi in strutture politiche specifiche.

La prima categoria di donne a organizzarsi fu quella delle maestre: esponenti dell'emergente ceto medio, dotate di buona cultura e di una relativa autonomia di movimento, queste donne ambivano alla parità salariale e, più in generale, a un maggiore riconoscimento sociale. Molte di loro furono tra le fondatrici e tra le prime iscritte di associazioni quali l'Unione femminile (nata a Milano nel 1899 e poi diffusa in altre città italiane; la sezione romana era presieduta da Anna Celli), l'Associazione magistrale femminile di Milano e la Federazione romana delle opere di attività femminile, istituita nel 1900 dalla contessa Lavinia Taverna. Anche impiegate, contabili, telegrafiste e telefoniste affollavano le leghe di tutela degli interessi femminili. 
 
Clicca sulla immagine per ingrandire Tra il 1892 (anno di nascita del Partito Socialista Italiano) ed il 1902 si assistette alla formazione di sodalizi vicini alle organizzazioni del movimento operaio. A Bologna, già nel 1890 era attivo un Comitato per il miglioramento delle condizioni della donna; a Milano, nel 1893, fu fondata la Lega per la tutela degli interessi femminili, composta da un comitato di donne emancipazioniste e socialiste. L'associazione aveva "per principio la causa femminile" e la sua attività si articolava su un programma minimo di intervento pratico locale, che prevedeva l'istituzione di una cassa di beneficenza, una campagna per il miglioramento delle condizioni morali ed economiche delle maestre d'asilo, delle telegrafiste, delle telefoniste, l'istruzione professionale per le figlie delle operaie, l'ammissione delle donne ai consigli di amministrazione delle opere pie e corsi di istruzione e di aggiornamento, oltre, naturalmente, a proporsi lo "scopo delle rivendicazioni dei diritti morali e giuridici della donna". Una lega con scopi affini nacque a Torino nel 1894 per opera di Emilia Mariani e Irma Scodnik, che l'anno successivo promossero la formazione di associazioni simili a Venezia, Roma, Napoli e Palermo.

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Maria Montessori
Nel 1896 queste leghe diedero vita alla rivista "Vita Femminile. Trimestrale della Confederazione delle Leghe Femminili". Tra i sodalizi di ispirazione socialista e le associazioni "moderate" c'era in comune l'attuazione di centri di cultura di base o di aggiornamento, con la formazione di biblioteche, corsi e conferenze. In questi centri di dibattito culturale, infatti, si discutevano i libri appena usciti e si leggevano gli scritti di femministe straniere. Il 9 marzo 1901 la Federazione romana di opere di attività femminile inaugurò, in piazza Nicosia a Roma, una biblioteca e una sala di lettura per promuovere l'emancipazione socio-culturale delle maestre, che fungeva anche da sede della stessa Federazione. L'associazione "Per la donna" (nata nel 1897 a Roma, poi sciolta l'anno seguente e ricostituita nel 1898 per iniziativa di Maria Montessori, Eva De Vincentiis e Giacinta Martini Marescotti), cui aderiva Anna Maria Mozzoni, curava diverse pubblicazioni, tra cui un corposo opuscolo, "L'oppressione legale della donna", nel quale ogni articolo del diritto vigente era dettagliatamente preso in esame e commentato perché fosse strumento di conoscenza e di presa di coscienza per tutte le donne, soprattutto per quanto riguarda il diritto privato che regolava i rapporti familiari. All'inizio del Novecento il sodalizio si impegnò nella creazione di un dormitorio femminile per offrire un rifugio economico e moralmente sicuro alle lavoratrici nubili della capitale. 
 
Un altro tipo di impegno che caratterizzò queste associazioni fu l'attività di assistenza ai poveri, agli orfani e ai bambini abbandonati. Una delle campagne più attive in questo settore fu quella affrontata dall'Unione femminile, fondata a Milano nel 1899 da Ersilia Majno Bronzini, con la costituzione di una società anonima cooperativa, nella quale fu formato un Ufficio indicazioni ed assistenza, che iniziò a funzionare nel 1901, indagando nei vari quartieri della città sulle condizioni di vita di coloro che avevano fatto richieste di sussidio e proponendosi anche, attraverso queste indagini, di compilare una statistica nazionale dei poveri. L'Unione si impegnava anche nella campagna contro la prostituzione o la tratta delle bianche ed era collegata non solo con associazioni femminili italiane, ma anche con quelle straniere. Aveva anche un suo giornale che uscì a Milano con periodicità mensile dal 1901 al 1905, diretto dalla stessa presidente Majno.
Sciolte le leghe femminili da Giuseppe Zanardelli in seguito ai fatti del 1898, il 2 dicembre 1900 il governo presentò un progetto legislativo firmato da Paolo Carcano sulla tutela delle lavoratrici. La legge fu approvata nel giugno del 1902. Entrata in vigore l'anno seguente, non accolse però le principali richieste avanzate dai movimenti femminili, limitandosi sostanzialmente a porre il tetto massimo di 12 ore alla giornata lavorativa delle donne. Diritto all'istruzione e al lavoro, parità salariale, accesso alle professioni: questi "interessi femminili" potevano trovare soddisfazione solo se le donne avessero avuto la possibilità di influenzare le scelte politiche della classe dirigente italiana.

Nel 1903 si costituiva ufficialmente a Roma il Consiglio Nazionale delle Donne Italiane (CNDI), composto da tre federazioni: romana (la prima a costituirsi in ordine di tempo), lombarda, diretta dalla contessa Sabina Parravicino di Revel, e piemontese, presieduta da Giulia Bernocco Fava Parvis. La sua nascita era collegata agli sforzi del Consiglio Internazionale delle donne (CID) di estendersi anche in Europa. L'International Council Women (ICW), formato dalle rappresentanti dei singoli Comitati Nazionali, specialmente per impulso di May Wright Sewall, aveva organizzato nel 1888 un'assemblea costituente a Washington durante il Congresso Femminile Internazionale convocato per celebrare il 40° anniversario dell'incontro di Seneca Falls, cittadina americana dove nel luglio 1848 quattro signore, Lucretia Mott, Elizabeth Cady Stanton, Martha Wright e Mary Ann McClintock, avevano elaborato i punti della Dichiarazione dei sentimenti, il testo canonico della lotta delle donne per i diritto di cittadinanza e i per diritti civili, un vero e proprio monumento del femminismo americano.
Nel quinquennio successivo, il progetto associativo stentò a decollare: solo nel 1893, accettando l'invito del Comitato Femminile dell'Esposizione Mondiale a Chicago, si tenne la prima assemblea generale dell'ICW, insieme a un Congresso Femminile Internazionale. Rappresentanti di trenta paesi ebbero così modo di conoscere l'organizzazione dell'ICW e molte di esse tornarono nei loro paesi con il proposito di fondare un Comitato Nazionale. Le italiane non avevano delegate, ma Fanny Zampini Salazaro, direttrice de "La Rassegna degli interessi femminili", inviò un memoriale sullo stato del femminismo italiano. I Comitati Nazionali parteciparono ufficialmente al secondo Congresso generale, a Londra, nel 1899. Mrs. Chrashay fu delegata dal Comitato promotore romano, mentre Maria Montessori, nel portare il saluto delle donne romane, rappresentava ufficialmente anche il governo, su incarico del Ministro della Pubblica Istruzione Guido Baccelli. Il compito della Montessori era quello di sostenere la causa delle maestre e di illustrare gli scopi di una società in via di costituzione, l'Unione Materna, che si prefiggeva di tutelare le maestre rurali, e di cui faceva parte il Baccelli stesso. La nomina della Montessori suscitò le reazioni della Lega Femminile di Torino, la quale, mediante Emilia Mariani, denunciò la scarsa rappresentatività della Montessori come "femminista", nella quale le Leghe di Milano e Torino non si riconoscevano.

In Italia, l'esiguità di un movimento femminile rispondente ai caratteri e agli intenti del CNDI rese assai complessa la creazione di un Consiglio Nazionale. Nel 1899 la gentildonna canadese Sofia Sandford si recò a Roma come delegata del CID per occuparsi della questione. Espose gli scopi del sodalizio a una assemblea ristretta e fu costituito un Comitato promotore di cui facevano parte Lavinia Taverna, Giacinta Martini Marescotti, moglie del letterato Ferdinando Martini e futura presidente del Comitato Nazionale Pro-Suffragio, Maria Pasolini Ponti e Teresa di Venosa, tutte di estrazione nobiliare. 

Il 4 maggio del 1899 si tenne la prima assemblea generale della Federazione romana delle opere di attività femminile, a cui parteciparono 36 società, preludio al definitivo Consiglio Nazionale delle Donne Italiane. La presidente, contessa Taverna, ribadiva la necessità di portare a conoscenza di tutti la vastità e la varietà delle opere femminili, per ottenere riforme e vantaggi, creando fra le donne "una corrente di simpatia e di mutuo intendimento". Un'insistenza particolare era riservata all'esigenza della concordia fra donne, pena l'inefficacia di ogni azione sociale. Nello stesso tempo veniva evidenziato che non si voleva entrare nel merito delle simpatie personali delle socie verso l'emancipazione femminista, ma precisare che lo spirito della Federazione non era "spirito di rivolta, ma di progresso legittimo e morale".
Nel 1901 la Federazione contava quaranta società aderenti, di cui la maggior parte a carattere assistenziale e filantropico. L'anno successivo, alla sezione educativa della Federazione se ne aggiunsero due: lavoro e propaganda. La prima costituì la premessa alla nascita di una società per azioni, la Cooperativa delle Industrie Femminili Italiane (da cui nacquero, nel 1903, le Industrie Femminili Italiane), formata e diretta esclusivamente da donne, con lo scopo di ridare vita a lavori artigianali e di sottrarre le lavoranti a domicilio a forme brutali di sfruttamento rendendole azioniste della cooperativa. Presidente del Consiglio di Amministrazione era la contessa Cora di Brazzà, vice presidente Lavinia Taverna, e socie Liliah Nathan (figlia di Ernesto Nathan, futuro sindaco di Roma, e nipote di Sara Nathan), la marchesa Etta De Viti De Marco e donna Bice Tittoni. Le intenzioni erano quelle di creare "un vigoroso strumento di economia commerciale che aprisse vie internazionali ai prodotti femminili italiani, educandole pazientemente coi consigli dell'arte alle forme più elette, una grande casa industriale capace di eliminare gl'intermediari che sfruttavano il timido lavoro delle donne".

Nel 1903 si accelerarono i tempi per la costituzione definitiva del CNDI in vista del Congresso Internazionale di Berlino del 1904, accogliendo l'invito di Dora Melegari, la quale aveva proposto di utilizzare le conoscenze personali su cui le singole socie potevano contare nelle varie città. Il Congresso di Berlino segnò la nascita dell'International Woman Suffrage Alliance, progetto a cui le suffragiste lavoravano da tempo, insoddisfatte del moderatismo del CID. Prese quindi una sua fisionomia definitiva il Comitato Nazionale italiano, composto non più dalla sola federazione romana, ma anche da quella lombarda e piemontese e da numerose società affiliate. Il CNDI dovette fare i conti, fin dagli inizi, con la sua anima federativa, che lo rendeva forte rispetto alle associazioni diffuse sul territorio, ma debole per l'inadeguata ramificazione nazionale e i conflitti tra le componenti associative. Il Comitato Direttivo era costituito da una presidente, da due o tre vice presidenti, da due segretarie addette ai verbali e alla corrispondenza, da una cassiera, da sei consigliere elette dall'assemblea generale e dai presidenti delle Federazioni regionali e delle sezioni di lavoro. Spettava al Comitato individuare i settori operativi e proporli all'assemblea, mentre la presidenza aveva il compito dei contatti con le Federazioni, vigilando che il loro operato fosse conforme a quello del CNDI. Le cariche, che in teoria dovevano avere un limite temporale, si mantennero per molti anni nelle mani delle stesse persone, cosa frequente in molte associazioni femminili. Fu il caso della contessa Gabriella Spalletti Rasponi (discendente da Gioacchino Murat e Carolina Bonaparte), presidente del CNDI dal 1903 fino alla morte, avvenuta nel 1931. Con il suo ruolo poteva intervenire in ogni questione: dirigeva le assemblee generali e le riunioni del comitato direttivo, interveniva alle riunioni delle sezioni di lavoro centrali, poteva assistere o farsi rappresentare a quelle delle Federazioni regionali, aveva facoltà di formare commissioni di studio su problemi particolari e, infine, assisteva alle sedute dell'Executive (Comitato Esecutivo del CID, che si riuniva ogni due anni e del Quinquennale). La Spalletti Rasponi dovette a più riprese difendersi dalle accuse di una gestione troppo accentrata e personalistica.

Il I Congresso Nazionale delle Donne Italiane del 1908 fu preceduto dal convegno delle donne cattoliche tenutosi a Milano nell'aprile del 1907, a cui aderirono l'Unione Femminile, il CNDI e alcune esponenti socialiste. Il risultato finale dei lavori fu una piattaforma che prevedeva la riduzione dell'orario di lavoro e la parità di retribuzione, la libertà di accesso a tutte le carriere femminili qualificate, la riforma del Codice, con l'abolizione dell'autorizzazione maritale, l'introduzione della ricerca di paternità e il voto amministrativo.
Alcune donne reclamavano da tempo la creazione di un movimento femminile all'interno delle organizzazioni cattoliche, ma si erano scontrate con la diffidenza dei gruppi più conservatori. Nel 1901 erano sorti a Milano il Fascio Femminile Democratico Cristiano e la Lega Cattolica per la rigenerazione del lavoro, con la richiesta di una sezione femminile dell'Opera dei Congressi, ma, dopo che questa fu disciolta nel 1904, il progetto era stato abbandonato. Adelaide Coari aveva allora fondato la rivista "Pensiero e Azione", organo del Fascio Femminile Democratico Cristiano di Milano, e, nel 1905, aveva dato vita alla Federazione Femminile milanese.
 
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Paolo Carcano
Nel 1908 si svolsero due congressi: quello del CNDI e quello indetto dall'Unione Femminile Nazionale, a riprova di un sotterraneo disaccordo fra le due federazioni. L'Unione Femminile, infatti, non aderì al Congresso di Roma se non alla seduta indetta dal Comitato Nazionale Pro-Suffragio. La circolare del CNDI che annunciava l'assise del 1908 indiceva un Congresso "onde poter largamente discutere e studiare alcuni problemi che sempre più s'impongono a chi sente il dovere di partecipare al lavoro sociale. Il desiderio dunque di una conoscenza sempre più profonda e sicura delle questioni così complesse che riguardano le opere alle quali tante donne oggi dedicano la loro intelligenza e la loro attività ci ha guidate nella scelta dei temi da discutere al Congresso nazionale. Sono i seguenti: Educazione e Istruzione. Assistenza e Presidenza. Condizione Morale e Giuridica della Donna. Igiene. Arte e Letteratura femminile. Emigrazione". La circolare era firmata dalla presidenza del Consiglio Nazionale delle Donne Italiane: Contessa Gabriella Spalletti Rasponi, Contessa Lavinia Taverna e Dora Melegari, Berta Turin, Beatrice Betts, Giorgia Ponzio Vaglia, Maria Grassi Koenen. Il Comitato permanente era formato dalla stessa presidenza del CNDI e dalla contessa Sabina Parravicino di Revel, Giulia Bernocco Fava Parvis, la baronessa Elena Franch.

La seduta inaugurale avvenne a Roma in Campidoglio nella sala degli Orazi e Curiazi il 23 aprile alle ore 10,30 di fronte a un pubblico numerosissimo (oltre 1400 donne), alla presenza di Sua Maestà la Regina e della principessa Laetitia. A prendere la parola per primo fu il sindaco Ernesto Nathan, seguito dal Ministro della Pubblica Istruzione on. Luigi Rava, e, infine, dalla presidente Gabriella Spalletti Rasponi. Molte le proposte nuove e le analisi acute fatte dalle relatrici, anche durante le discussioni seguite agli interventi. Anita Dobelli Zampetti, ad esempio, per favorire una riforma dell'educazione femminile in Italia propose l'inserimento di una materia propedeutica a tutte le altre: la storia sociale della donna. Lisa Noerbel, presidente regionale della Società Amiche della Giovanetta a Milano, propose che in tutte le scuole femminili secondarie inferiori e superiori si introducessero esercitazioni di oratoria e discussione, per abituare le giovani a parlare in pubblico, esperimento già fatto da molte insegnanti che avevano alternato il componimento scritto con l'orale.
Gli ordini del giorno votati alla fine dei lavori della sezione Educazione e Istruzione riguardarono la scuola mista, necessaria alla preparazione della futura concorrenza professionale. L'istruzione elementare obbligatoria andava proseguita fino alla sesta classe con un limite di età non inferiore ai dodici anni. Nella scuola secondaria dovevano inoltre essere aperte sezioni propedeutiche agli studi universitari, mentre venivano riservati corsi di preparazione teorico-pratica all'istruzione primaria. C'era bisogno infine dell'apertura di scuole professionali sul modello di quelle sorte a Milano e a Roma, oltre a scuole agrarie e a cattedre ambulanti. La signora Monteguarnieri osservò che il compito della scuola era anche quello di far nascere un affiatamento tra donne di varia condizione, per uno scambio di esperienze destinato a cementare non un'uguaglianza utopistica, ma una solidarietà capace di giovare collettivamente.
Le relazioni di apertura della sezione Assistenza e Previdenza analizzarono il sistema della beneficenza, invocando il passaggio a criteri di gestione più moderni, propri di uno stato assistenziale e non paternalista. Perno fondamentale era la mutualità. Si concordò che lo Stato sarebbe diventato contribuente diretto della Cassa Unica d'Assicurazione Mutua per la Maternità, di cui si era parlato per la prima volta al primo Congresso Infortuni sul lavoro nel 1894. 
 
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Anna Kuliscioff
Grande importanza aveva per il CNDI, in un progetto "pedagogico" di formazione della nuova coscienza femminile, la sezione giuridica, la quale, complementare a quella educativa, doveva garantire l'acquisizione, previa una salda coscienza dei propri doveri, di nuovi diritti, come quelli legati all'esercizio di professioni liberali. La sezione fu diretta per molti anni da Teresa Labriola, figlia del filosofo divulgatore del marxismo in Italia ed esclusa dall'esercizio dell'avvocatura pur avendo già alle spalle anni d'insegnamento universitario come docente di Filosofia del diritto. Il comparto giuridico promosse inchieste sulle donne laureate, per favorire l'accesso effettivo a tutte le professioni e per rivendicare il diritto di voto, se pure dopo adeguato tirocinio alla conoscenza dei meccanismi della vita politica e sociale.
La Labriola fu portavoce per anni nel Consiglio di istanze sociali vicine a posizioni socialiste, sulla scia del pensiero paterno. Progressivamente, allo scoppio del conflitto, la Labriola abbracciò posizioni accesamente interventiste e, in disaccordo col CNDI, diede le dimissioni dalla sezione giuridica, venendo sostituita dalla Benetti Brunelli, che propose l'abrograzione dell'art. 377 del Codice Penale sull'omicidio per adulterio invitando a reagire energicamente contro l'acquiescenza verso questo genere di delitti e verso drammi passionali nei quali quasi sempre la donna è vittima. La sezione giuridica affrontò anche il problema della violenza carnale e della corruzione delle minorenni. Il codice fissava "l'età della ragione" delle donne a 12 anni, nel caso specifico della violenza carnale. La sezione propose un'azione di riforma per portare a 18 anni il termine dell'età. Un altro punto fondamentale della discussione fu il rifiuto del matrimonio riparatore e la richiesta di pene più severe per i rei di violenza, accanto all'introduzione di corsi di "istruzione sessuale" per i giovani, maschi e femmine, in modo che, conoscendo il proprio corpo, imparassero a rispettarlo ed a non temerlo.

Nella sezione Igiene l'insegnante di pedagogia Lina Maestrini parlò della efficacia della Carta Biografica consigliata dal Sergi e compilata dal maestro in sintonia col medico scolastico e con i principi della pedagogia scientifica. La Carta si divideva in tre grandi voci: dati antropologici e fisiologici, dati psichici e dati fisio-psichici. Moltissime relazioni erano dedicate alla tubercolosi e alla sua profilassi, nelle scuole, nelle case e nei luoghi pubblici.
Uno dei temi più attuali ed interessanti per la sezione Letteratura ed Arte era il rapporto fra donne e lavori connessi alla scrittura. Secondo Alma Dolens, pseudonimo di Teresa Pasini de' Bonfatti, a battaglie come la ricerca della paternità, la difesa delle minorenni, la guerra alla tratta delle bianche, la lotta contro la tubercolosi, l'assistenza alle emigranti, le Casse di Maternità nazionale, gli asili notturni, le colonie agricole, i ricreatori, i sistemi moderni di assistenza familiare, le donne impegnate nella stampa avrebbero potuto dare una diffusione insostituibile. Molto discussa fu la proposta di Luigi di San Giusto, pseudonimo di Luisa Macina, sulla creazione di una associazione Femminile di giornaliste per la tutela dei loro interessi, visto che fino ad allora i giornalisti uomini non riconoscevano le donne come colleghe, ma come scrittrici. Fu concordato un più largo accesso delle donne nel giornalismo per una cooperazione nella cronaca, dove la donna poteva correggere la "tendenza immorale del giornalismo contemporaneo" e per una equa retribuzione del giornalismo femminile, insieme all'accesso a cariche speciali nell'associazione della stampa.
Singolare l'intervento di Giuseppina le Maire sui vestiari per le attrici. Segnalava il caso recente del suicidio di una giovane attrice piena di talento, ma sprovvista dei mezzi per procurarsi il guardaroba personale per recitare, a totale carico delle attrici e particolarmente costoso. Altrettanto interessante la relazione della signora Rosa Genoni, antesignana del socialismo. Il suo ordine del giorno in favore di una moda nazionale, e approvato a grande maggioranza, recitava: "Bene augurando dal prospero risveglio in Italia di tutte le industrie complementari dell'abbigliamento muliebre e dal continuo sorgere di scuole professionali femminili: considerato che il senso dell'arte e della bellezza è tradizionale patrimonio dell'ingegno italiano, tenuto presente che mai come oggi si delineò nel nostro paese una spiccata tendenza ad originali ed indipendenti affermazioni estetiche nei vari rami dell'arte decorativa si fa voti che come già per l'industria del ricamo e delle trine sorgano in ogni regione d'Italia delle associazioni tra dame, istituti, artisti, e artefici per la pratica attuazione di una moda nazionale nell'abbigliamento femminile".
Infine, miniere d'informazione erano le relazioni della sezione Emigrazione sulla vita delle donne italiane nel mondo. I dati sull'emigrazione in Brasile, su cui relazionò la Chiaraviglio Giolitti, tracciarono un quadro impressionante. Negli anni 1871-80 gli emigranti italiani superavano già di molto nello stato di San Paolo quelli delle altre nazioni, ma, quando nel 1888 venne soppressa la schiavitù in Brasile, gli Italiani erano circa 80.000. La coincidenza tra l'aumento degli emigranti e l'abolizione della schiavitù lasciava capire l'impiego lavorativo degli Italiani: la sostituzione degli schiavi nelle piantagioni di caffè. 

Il Congresso del 1908 chiuse a suo modo un'epoca nell'associazionismo femminile. La fondazione dell'Unione Donne Cattoliche nel 1910 (UDCI) sancì una sorta di spaccatura nel CNDI. Il CNDI fu infatti eterogeneo e tendenzialmente centrifugo, quindi lontano dall'avere caratteristiche unificanti. I suoi legami con gli ideali repubblicani furono evidenti e testimoniati sia da personalità significative, sia dall'applicazione pratica di principi socialmente progressisti d'impronta mazziniana. Nel discorso della presidente, Gabriella Rasponi, si avvertiva chiaramente un'insistenza di fondo per l'elevazione morale e sociale della donna che passasse attraverso il richiamo mazziniano alla coscienza dei propri doveri per poter ottenere dei diritti.
Il CNDI prese sempre le distanze da collegamenti partitici troppo evidenti, come del resto era sancito nello statuto (secondo l'articolo 17 del regolamento del congresso "spetta a chi dirige le adunanze regolare l'andamento della discussione onde questa mantenga sempre un carattere obbiettivo e non degeneri mai in questione politica o di partito"), anche se alcune battaglie col mondo femminile di area repubblicano-socialista furono comuni, per esempio quella sulla laicità della scuola e sul suffragio. La proposta della maestra socialista Linda Malnati di abolire l'obbligatorietà dell'insegnamento religioso nella scuola e di un insegnamento comparato della storia delle religioni produsse quella spaccatura definitiva con una larga parte del mondo cattolico femminile. Alla terza assemblea generale a sezione riunite, tenutasi il 28 aprile, fu presentato l'ordine del giorno all'insegnamento religioso confessionale nelle scuole. Al momento del voto, per alzata di mano, molti uomini presenti in aula votarono, nonostante l'espresso divieto a partecipare ai deliberati del congresso.

Altrove la spaccatura fu radicale, come ad esempio sulla questione delle Casse di Maternità. Il movimento emancipazionista di area socialista premeva per un loro patrocinio statale; il CNDI e altri settori dell'associazionismo optavano per una gestione privata delle Casse con contributi privati delle operaie, senza sovvenzioni statali. La sezione di assistenza presieduta da Alda Orlando istituì nel 1907 una Cassa di assistenza e previdenza per la maternità, organizzata e gestita da una commissione di signore romane guidata dalla contessa Maria Luisa Danieli Camozzi; il governo e la regina Elena contribuirono con un sussidio, integrato da azioni emesse dal CNDI. Ogni operaia era tenuta a pagare 25 centesimi al mese e, dopo dieci mesi di versamenti, aveva diritto a una lira e quindici dopo il parto. Balli di beneficenza e conferenze contribuirono a formare il capitale della Cassa, mentre non si prevedevano contributi né da parte dello Stato, né degli imprenditori. Divergenze ci furono anche sulla concezione del lavoro femminile. Parecchie, all'interno del CNDI erano favorevoli ad un lavoro a domicilio bene organizzato, mentre in vasti settori dell'emancipazionismo stava maturando l'idea che il diritto della donna al lavoro non era solo un dovere e che esso non andava difeso solo per gli impieghi qualificati, ma anche in luoghi di aggregazione come le fabbriche, per il valore fondamentale della presa di coscienza attraverso la collettivizzazione di esperienze di vita e di lavoro. Analoghe distanze prese il CNDI dalle iniziative riguardanti le riforme dell'istituto familiare per quel che concerneva l'equiparazione degli illegittimi con i legittimi; il Consiglio preferiva insistere sull'elevazione morale e culturale e sull'educazione ai doveri della donna, della donna-madre, della donna-lavoratrice.

Sulla questione del voto fu tenuta un'assemblea plenaria, organizzata dal Comitato Nazionale Pro-Suffragio femminile. Il dibattito gravitò non tanto sul diritto di voto come difesa degli interessi economici, civili e sociali della donna e sui vantaggi che sarebbero potuti derivare, ma su come si poteva influire sul governo e sul Parlamento per ottenere il suffragio femminile. 

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La donna fascista: madre e moglie
Il voto non sarebbe stato ottenuto fintanto che non si fosse costituita in Parlamento una maggioranza favorevole a concederlo; pertanto era necessario formare in ogni collegio elettorale un comitato suffragista per esercitare una pressione costante sul rappresentante locale, tenendo presente che era necessario che il gruppo suffragista s'interessasse alle elezioni in modo da far capire ai deputati quale riserva di voti si lasciassero sfuggire escludendo le donne. Prima dei rappresentanti del Parlamento, le donne avrebbero dovuto indurre i partiti a inserire il suffragio femminile nel loro programma. Non era ancora tempo per prospettive più ampie e complesse: le donne, infatti, si erano appena presentate sulla scena politica e sentivano ancora il bisogno di appoggiarsi a strutture preesistenti. Col passare del tempo si preferì passare ad altri interventi sul tema del voto in cui, però, ci si limitava ad enumerare le cause dell'ostilità a questa concessione con minore o maggiore genericità.
La rivendicazione del suffragio da parte delle emancipazioniste era stata avanzata già dopo l'Unità e, periodicamente, in Parlamento era stato presentato senza successo qualche progetto che prevedeva l'esercizio del voto, anche se limitato ad alcune categorie di donne o alle consultazioni amministrative. Il tema venne riproposto con vigore dal movimento nei primi anni del XX secolo. Le donne socialiste si battevano da tempo per il riconoscimento di questo diritto: fin dal 1897 l'appello lanciato "Alle donne italiane" dal Gruppo milanese sottolineava come lo Stato considerasse le donne "straniere" nel loro Paese, escludendole da un diritto riservato dallo statuto a tutti i cittadini, e rivendicava il voto come strumento per migliorare la condizione della lavoratrice, per promuovere efficacemente una campagna antimilitarista e, in generale, per intervenire a modificare la quantità della vita delle donne e di tutti gli sfruttati.
La proposta dell'on. Mirabelli, dell'Estrema Sinistra, presentata nel giugno del 1904 per estendere il voto alle donne, rappresentò l'occasione per una campagna sulla quale si ritrovarono moderate e radicali, organizzare in diverse associazioni. Dovunque si costituirono società per il voto femminile, si sviluppò una vasta campagna di stampa attraverso i giornali emancipazionisti. Intorno al 1906 nacquero "La Vita" diretto da Olga Lodi, "Eva Moderna" repubblicano, "L'Alleanza" fondato dalla società Carmela Baricelli. Anche molte donne cattoliche si organizzarono in leghe in cui si raccoglievano operaie dell'industria e lavoratrici agricole. Le socialiste avevano partecipato e promosso comitati pro suffragio: nel 1905 la Lega per la tutela degli interessi femminili di Milano, ormai sciolta, devolvette il suo fondo cassa residuo "per le spese necessarie a costituire un comitato nazionale che prepari le donne all'esercizio cosciente di questo nuovo diritto".

Il periodo più intenso di collaborazione tra emancipazioniste cattoliche, laiche e socialiste va dalla fine del 1906 al congresso di Roma del 1908. La Kuliscioff fu costretta a richiamare più volte il partito socialista a una presa di posizione netta: nella primavera del 1910 si sviluppò sulle pagine di "Critica Sociale" la "polemica in famiglia", come la definì lei stessa, amareggiata dall'atteggiamento di Turati, che temporeggiando sostanzialmente poneva un freno alla conquista del voto femminile. La solidarietà tattica tra militanti socialiste di base ed emancipazioniste si ruppe: gli ultimi impegni comuni erano stati la formulazione di un manifesto per il diritto all'elettorato, presentato da tutte le associazioni per il voto nel maggio del 1910 ed il pro suffragio femminile di Torino del maggio del 1911. La lotta subì un contraccolpo nel 1910 quando la caduta del ministero Sonnino impedì la discussione della proposta di legge dell'on. Gallini che prevedeva l'estensione a tutte le donne oltre i 25 anni del diritto di voto nelle elezioni amministrative, l'abolizione degli articoli del Codice Civile sull'autorizzazione maritale, il diritto a esercitare qualunque professione e a concorrere a tutti i pubblici impieghi.
La campagna che preparò la riforma fu sostanzialmente dominata dalle socialiste, attraverso il giornale "Su Compagne!", nato nel 1906 e diretto da Angelica Balabanoff, che, nel 1912, si fuse col nuovo settimanale "La Difesa della Lavoratrice" diretto da Anna Kuliscioff, in cui il tema del voto, accanto a quello del lavoro e della parità salariale, fu per un certo periodo prevalente. Quando nella primavera del 1913 l'on. Martini presentò alla Camera un progetto per il voto limitato solo alle donne alfabete, progetto sostenuto, come aveva previsto la Kuliscioff, dalle borghesi, desiderose intanto di far passare il principio del suffragio sbloccando quanto meno il pregiudizio di sesso, i socialisti rifiutarono di votarlo e il progetto cadde per mancanza del numero legale. L'introduzione del suffragio cosiddetto universale, nel 1913, confermò ancora una volta, l'esclusione delle donne dal voto e ridimensionò la forza del movimento agli occhi dell'opinione pubblica.

Il congresso del CNDI diede una dimostrazione della raggiunta maturità del movimento femminile ma, al tempo stesso, ne segnò il declino, per la sconfitta sul suffragio, ma ancora prima per le divisioni tra le sue varie anime riguardo l'appartenenza religiosa e l'atteggiamento di fronte alla guerra, quella libica prima e quella mondiale poi. Nel 1914-15 l'interventismo femminile fu un fenomeno minoritario, riguardante soprattutto Roma e Milano, ma, all'indomani dell'entrata in guerra del Paese, la gran parte dell'universo associativo femminile diede un contributo fondamentale al sostegno morale e materiale delle truppe e del "fronte interno". 
La guerra però non produsse unicamente un'accentuazione del tradizionale ruolo "assistenziale" femminile: nel corso del conflitto saltarono gli equilibri tra i generi e le donne divennero protagoniste della scena nazionale. Con gli uomini al fronte, la riorganizzazione produttiva si affidò soprattutto alle donne, che entrarono in massa nelle fabbriche - in settori sino ad allora preclusi -, nei servizi e nelle amministrazioni pubbliche. Anche nelle campagne presero il posto degli uomini. A partire dall'inverno del 1916-17, furono specialmente le donne a dare vita a episodi di conflittualità sociale, per chiedere la pace, ma anche aumenti salariali e una più equa gestione dell'economia di guerra.
Al termine del conflitto, il contributo femminile all'Italia in guerra fu riconosciuto con l'approvazione, nel luglio 1919, della legge Sacchi sulla capacità giuridica delle donne, con la quale ottennero il diritto ad amministrare i propri beni (scompariva l'autorizzazione maritale per qualsiasi atto pubblico) e a esercitare le professioni. La prima laureata in legge italiana (1884), Lidia Poët, dopo 35 anni dal diploma di laurea poteva finalmente vestire la toga (il ministro Biondi, già nel 1874, volle l'apertura di tutte le facoltà universitarie alle donne, ma il diritto fu teorico perché alla laurea non seguiva l'esercizio della professione), e con lei le romane Teresa Labriola e Romelia Troise, quest'ultima una ex telegrafista e poi sindacalista, caso esemplare di mobilità sociale delle donne prima e dopo la guerra. In Medicina il campo era aperto alle donne in Ostetricia e ginecologia, ma Anna Kuliscioff, la compagna di Turati, divenne la "dottora dei poveri" perché l'ospedale di Milano le negò l'esercizio della professione in corsia.

Come nel resto d'Europa, nel 1919 si riaprì anche la questione del suffragio femminile, che trovò Mussolini in principio favorevole, come dimostrò nel 1925 con la concessione del voto amministrativo ad alcune categorie di donne "meritevoli". Il provvedimento venne però vanificato l'anno seguente dalla riforma podestarile con cui si aboliva qualsiasi base elettiva alle amministrazioni comunali. La legge liberticida del 1924 soppresse il diritto associativo: un anno dopo l'Associazione per la Donna, non avendo più un minimo di regole democratiche, si autosciolse; altri sodalizi vennero soppressi, le associazioni che lottavano per diritti civili e politici abbandonarono il campo. Resistettero quelle in accordo con il regime sul tema della cooperazione intellettuale e continuarono senza problemi la Croce Rossa Italiana e la San Vincenzo de' Paoli. Con una certa accorta lungimiranza il fascismo creò associazioni "gemelle" cui le donne furono costrette ad iscriversi, determinando lo scioglimento di altre. Nel 1926 sorse l'Associazione nazionale fascista donne artiste e laureate, che faceva seguito all'Associazione nazionale fascista dottoresse in medicina e chirurgia; nel 1930 fu la volta della Federazione italiana donne giuriste.
In poco meno di dieci anni, l'associazionismo professionale fascista soppiantò le vecchie associazioni femminili, ma un simile processo non significò la promozione sociale del lavoro delle donne, perché il fascismo perseguiva la restaurazione dei tradizionali ruoli di genere. La creazione di organismi sindacali femminili di regime faceva piuttosto parte del generale processo di inquadramento della società italiana, teso a coniugare controllo sociale e "conquista" del consenso.
Lo stesso anno in cui fu creata l'Associazione fascista delle artiste e laureate, il regime varò una legge che stabiliva l'esclusione delle donne dall'insegnamento di italiano, latino, greco, storia e filosofia dai licei. La politica di espulsione femminile dal lavoro extradomestico, iniziata nel primo quinquennio fascista, giunse al culmine nel 1938: una legge stabilì che il personale femminile negli uffici pubblici e privati non poteva superare il 10% dell'organico, proibendo inoltre l'assunzione di manodopera femminile nelle aziende con meno di 10 addetti.

Escluse dalla politica ed emarginate dal mondo del lavoro, nel progetto nazionale fascista le donne acquisirono un'enorme rilevanza come mogli e come madri. La campagna demografica e la "battaglia del grano" avevano infatti nella donna - e nella donna contadina - la loro fondamentale base di successo: negli anni Trenta vennero prodotti specifici manuali, rivolti alle colone della pianura pontina, nei quali l'esaltazione dei tradizionali doveri verso la famiglia trovava compimento nell'educazione ai moderni principi di economia domestica. Al fine di mobilitare le donne adulte a sostegno delle proprie parole d'ordine del regime, furono create apposite organizzazioni quali i Fasci femminili e le Massaie rurali, entrambe tese alla valorizzazione delle virtù domestiche.

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Donne al voto
Ma l'organizzazione più importante, nata nel 1925, fu l'Opera nazionale maternità e  infanzia (OMNI), che garantiva l'assistenza ostetrica e pediatrica, aiutando le madri nubili o prive di una regolare struttura familiare e cercando di contrastare le pratiche abortive che il Codice Penale, varato dal ministro Rocco nel 1930, aveva inserito tra i delitti "contro l'integrità e la sanità della stirpe". Nel 1933 la retorica di regime trovò compimento nell'istituzione della Giornata della madre, collocata il 24 dicembre per trovare un fondamento nella tradizione cattolica del paese.
Capelli corti, corpi magri, vestiti al ginocchio, biciclette, automobili, sigarette: le città italiane del dopoguerra si erano riempite di "maschiette", che la stampa cattolica e quella fascista indicavano come rappresentanti della "sterilità" decadente delle società occidentali. Il regime oppose loro la "nuova italiana", fisicamente sana perché irrobustita dall'attività sportiva, votata alla vigorosa riproduzione della stirpe. Anche le bambine furono coinvolte nell'inquadramento fascista della gioventù, nelle strutture delle Piccole Italiane sino a 13 anni, delle Giovani Italiane fino ai 18 e delle Giovani Fasciste fino ai 21 anni. L'educazione fisica femminile divenne un fenomeno di massa, esibito in coreografiche manifestazioni sportive come quella riservata alle Giovani Italiane a Roma nel 1928, coincidente con la prima Olimpiade aperta alle donne, ad Amsterdam. Più consapevole, benché mai conflittuale, l'autonomia delle italiane dell'Unione donne di Azione cattolica, portatrici di valori a volte convergenti, ma non assimilabili a quelli fascisti. L'unica vera opposizione attiva al regime venne dalle donne di tradizione socialista e comunista o aderenti al movimento "Giustizia e Libertà", costrette però al silenzio o all'emigrazione.

Con la seconda guerra mondiale e il progressivo fallimento del regime sul fronte militare e dell'assistenza alle popolazioni civili, le donne italiane si trovarono costrette a una nuova assunzione di responsabilità verso se stesse e la comunità. Dopo l'8 settembre del 1943 una minoranza partecipò alla Resistenza armata e moltissime furono presenti nella Resistenza civile, dando ospitalità, cibo, vestiario ai militari in fuga ed ai resistenti, tentando d'impedire le deportazioni nei campi di concentramento, costruendo reti di solidarietà nel tessuto cittadino.
Bisognerà attendere il secondo dopoguerra per la rinascita delle associazioni femminili. Una nuova, consapevole partecipazione delle donne alla vita pubblica che costituì finalmente la porta d'accesso alla cittadinanza politica nell'Italia repubblicana. Nel 1944 nacquero il Cif, Centro Italiano Femminile, organizzazione di associazioni d'ispirazione cristiana vicina alla Democrazia Cristiana, e l'Udi, Unione Donne Italiane, organizzazione collaterale al Partito Comunista Italiano, che, al suo interno, comprendeva una federazione di associazioni importanti, come la rinata Fildis (Federazione Italiana Laureate e Diplomate Istituti Superiori, sorta nel 1922 a Milano e sciolta nel 1935), la Fidapa (Federazione italiana donne, arti, professioni e affari), l'Associazione Donne Medico, di tradizione pacifista, e tutta una serie di sodalizi legati alle professioni, cui si aggiunsero club di servizio come il Soroptimist e lo Zonta. Nacque ancora l'Associazione Cattolica di Protezione della Giovane, con una serie di ramificazioni. Nell'ottobre del 1944 vide la luce a Roma il Comitato nazionale pro voto alle donne che riuniva le organizzazioni femminili del Comitato nazionale di liberazione (CNL) e alcune associazioni d'origine liberale appena ricostituite.
Tutti i sodalizi avevano come collante di base il miglioramento della condizione femminile su basi culturali, sociali e politiche. Ma la condizione femminile era talmente arretrata che fu necessario lavorare ancora a lungo per ottenere la possibilità di entrare in magistratura e nella carriera diplomatica, una legge sugli asili nido e la tutela delle donne lavoratrici, la legge sull'aborto e quella per il divorzio. Per giungere, negli anni Novanta, alla legge contro la violenza sessuale e quella sulle donne soldato. Tutti traguardi raggiunti sotto pressione delle associazioni femminili, anche se con diverso impegno, pro o contro. In tal senso l'associazionismo femminile attraverso gli anni ha tracciato la storia e la vita democratica della donna. 

 BIBLIOGRAFIA
  • P. Gaiotti De Biase, Alle origini del movimento femminile - Brescia, Morcelliana, 1963.
  • Atti del I Congresso Nazionale delle Donne Italiane - Roma, Stab. Tip. Soc. Ed. Laziale, 1912.
  • F. Pieroni Bortolotti, Socialismo e questione femminile, 1892-1922 - Milano, Mazzotta, 1976.
  • F. Taricone, L'associazionismo femminile in Italia dall'Unità al Fascismo - Milano, Unicopli, 1996.
  • G. Bock, Storia, Storia delle donne, Storia in genere - Firenze, Estro Strumenti, 1986.
  • F. Taricone e B. Pisa, Operaie, borghesi contadine nel XIX secolo - Roma, Carucci, 1985.