lunedì 30 novembre 2015

Marocco: Fatima Mernissi "torna a casa"


Marocco: morta Fatima Mernissi 
 

Il Marocco ha perso una delle figure emblematiche del femminismo del regno. La sociologa e scrittrice Fatima Mernissi è morta questa mattina, 30 novembre, all’età di 75 anni.
Docente di sociologia presso l’Università Mohammed V di Rabat, dagli anni ’80 ha scritto diversi libri sul ruolo delle donne nella società, tra cui La terrazza proibita, L’harem e l’Occidente. (agenzie)

Nata nel 1940 a Fez, città del Marocco settentrionale durante il periodo di protettorato francese, Fatima trascorse la sua giovinezza nell’harem di famiglia appartenente alla borghesia cittadina. Completati gli studi in Marocco si trasferì prima in Francia e successivamente negli Stati Uniti dove ottenne un dottorato di ricerca in sociologia alla Brandens University nel 1974, iniziando, come scrisse più tardi, ad interessarsi di confini sacri, di silenti regole inscritte nello spazio e nelle pratiche quotidiane, di visioni del mondo legittimate dai testi sacri dell’Islam, che davano forma a quelle relazioni di genere che prima di diventare l’oggetto delle sue riflessioni facevano parte del suo vissuto.
Il hudud per eccellenza era il portone di casa sorvegliato da Ahmed il portinaio, soglia invalicabile per le donne della sua famiglia, se non con l’autorizzazione del padre o dello zio. Le alte mura dell’abitazione rendevano l’intimità della vita nell’harem invisibile all’esterno e racchiudevano l’onore della famiglia, di cui le donne erano le custodi. Onore che, prima di farsi materia nell’architettura delle case, è vissuto dai loro corpi resi privati dall’uso di un velo: le norme sociali vengono così incorporate e l’ordine sociale è mantenuto anche nello spazio pubblico.


Uscire dall’entrata principale non era però l’unico modo di attraversare i confini.
Salite le scale fino al terzo piano, le donne della famiglia e i bambini – tra cui Fatima -, raggiungevano la terrazza dove si ritrovavano per trascorrere lunghe ore tra narrazioni di storie e racconti, e rappresentazioni teatrali con la regia della cugina Shama. Il repertorio andava da episodi delle Mille e una notte alla messa in scena delle vite di figure religiose come Aisha, moglie del profeta Muhammad, o di femministe arabe come l’egiziana Huda Shaarawi. L’immaginazione e la fantasia diventano uno strumento di resistenza e di elusione di regole e istituzioni, nella cornice spazio-temporale e relazionale della quotidianità, attraverso la rievocazione di mondi altri e di donne.
E lo si fa nella terrazza, in uno spazio confinato ma sconfinante: tra le mura domestiche e il cielo.


Dalle donne immaginate e evocate si passerà alle donne studiate, oggetto delle sue ricerche, a partire da quella di dottorato, condensata nel libro Beyond the Veil: Male-Female Dynamics in the Modern Society. Qui Fatima analizza in una prospettiva di genere, le nozioni di sessualità e famiglia, le relazioni tra uomini e donne e le dinamiche di controllo sociale della sessualità femminile nella società musulmana con particolare riferimento a quella marocchina; muovendo da un approccio critico nei confronti dell’Islam, visto come un ostacolo ad una possibile uguaglianza di genere.

Di ritorno dagli Stati Uniti, Fatima iniziò la sua attività accademica all’università Mohammed V di Rabat e proseguì i suoi studi e le sue ricerche nel solco tracciato.

A questa prima prospettiva farà seguito un suo spostamento e ri-posizionamento all’interno di quello che viene definito femminismo islamico; movimento che iniziò ad affermarsi tra la fine degli anni 80 e gli inizi degli anni 90 del secolo scorso. I testi sacri dell’Islam, riletti e reinterpretati, diventano i principali strumenti attraverso cui le femministe islamiche rivendicano i propri diritti, contrapponendosi ai discorsi egemoni prodotti da esperti in materia religiosa, da élite di potere e da quella parte della società che vede le donne in una posizione di inferiorità. Fatima abbraccerà questa prospettiva e indirizzerà le sue ricerche verso lo studio della letteratura religiosa soffermandosi su figure come Aisha e in particolare sul ruolo politico da lei ricoperto. Sarà proprio la pubblicazione del libro Le harem politique. Le Prophète et les femmes nel 1987 a decretare il suo riconoscimento internazionale come una delle figure di maggior rilievo del femminismo islamico contemporaneo.

Il lavoro di Fatima non è però teso soltanto ad una riappropriazione e riformulazione delle rappresentazioni di sè e delle posizioni rivendicate nella società di appartenenza, ma muove anche da istanze critiche nei confronti dell’immaginario occidentale dell’harem costruito nel corso dei secoli da pittori e scrittori europei che hanno spogliato le donne del loro sapere, della loro parola e della loro capacità di agire rivestendole di orientalismo, come ha analizzato in Shahrazade goes West, or: The European Harem.


Allo studio della letteratura araba e religiosa e alla scrittura si sono affiancate, a partire dalla fine degli anni 1990, altre attività tra cui il progetto Synergie Civique: laboratori di scrittura con relative pubblicazioni collettive, rivolti ai membri di alcune ONG locali. Svolti in collaborazione con accademici, scrittori e artisti, questi incontri miravano ad affinare la scrittura come strumento politico di espressione e comunicazione di un proprio pensiero e messaggio e l’uso dei media e delle nuove tecnologie per dare loro visibilità ed essere diffusi. Questo significa, per Fatima, prendere parte attivamente alla democratizzazione del Paese, processo che non passa soltanto attraverso riforme istituzionali ma anche attraverso «the possibility of not only creating their own messages (to write and refine them), but especially of spreading them through the means of modern technology». (enciclopedia delle donne)

Herat Men lancia un movimento a sostegno delle donne

Un gruppo di uomini della provincia occidentale di Herat, domenica (28 novembre 2015), ha lanciato il primo movimento dell'Afghanistan a sostegno delle donne nel tentativo di fermare la violenza contro la popolazione femminile.

Il movimento noto come Men Supporting Women è stato fondato da diciotto attivisti di sesso maschile per limitare la violenza contro le donne e promuovere la consapevolezza intorno al problema.
Decine di studiosi religiosi e attivisti civili riuniti domenica nella città di Herat hanno annunciato il lancio del nuovo movimento.
Uno dei criteri in termini di adesione al movimento è che ogni membro maschile non può prendere una seconda moglie.
"Quando si parla di diritti delle donne e la violazione dei diritti delle donne, in generale, gli uomini commettono violenza, dobbiamo renderli consapevoli dei diritti delle donne," ha detto
Abdul Qadir Rahimi capo dell'ufficio AIHRC sito in Balkh.
Le donne hanno accolto la mossa e molti in occasione del lancio hanno detto che nella maggior parte dei casi di violenza contro le donne, gli uomini erano dietro gli incidenti.
"Uno dei problemi fondamentali nella società afgana è che gli uomini commettono violenza contro le donne, è bene avere alcuni buoni esempi di uomini nella società", ha detto
Sakina Hussaini, membro del consiglio provinciale di Herat.
Evidenziando l'importanza delle donne nella società islamica, un certo numero di studiosi religiosi, ha detto che l'Islam ha premiato le donne con maggiori diritti, invitando coloro che credono negli insegnamenti dell'Islam di astenersi dal commettere atti di violenza contro le donne.
"Se dobbiamo muovere la società verso l'uguaglianza, allora ci dovrebbero essere rispetto reciproco", ha detto
Mohboba Jamshidi, capo del dipartimento per gli affari delle donne di Herat.
Nel frattempo, i residenti Helmand hanno accolto con favore il lancio della nuova organizzazione e decine di uomini hanno dimostrato la loro volontà di unirsi al gruppo e contribuire a fermare la violenza contro le donne.

Jawed Zeyartjahi

domenica 29 novembre 2015

La lotta delle donne iraniane per la libertà

L'Iran è meglio conosciuto per il suo conservatorismo religioso che per la storia dei diritti delle donne. Ma anche se potrebbe non essere evidente agli estranei, le donne in Iran godono di maggiore libertà di molte altre in Medio Oriente.
Oltre ad avere il diritto di votare, molte sono membri del parlamento. A differenza delle donne saudite sono autorizzate a guidare, lavorare e partecipare alla vita economica.
Ancor più significativo, esse costituiscono oltre il 70% degli studenti in Iran. Ma queste libertà non sono state raggiunte senza la lotta e il sacrificio di tante donne straordinarie. 

Si dice spesso che l'istruzione è la chiave per la libertà, qualcosa di comprensibile per le prime femministe iraniane come Bibi Fatemeh Estarabadi.


Durante la Rivoluzione Costituzionale del 1905 ha aperto la prima scuola elementare del paese per le ragazze, con l'insegnamento di tutto, dalla matematica alla letteratura alla calligrafia e alla storia.
Ha affrontato una forte opposizione contro i religiosi conservatori che hanno accusato la sua scuola di ospitare corruzione e indecenza. Ma lei ha combattuto, dando a molte giovani donne una voce e un futuro. 
Soltanto 30 anni dopo che la scuola elementare di Estarabadi era stata aperta, queste donne sono diventate le prime ad iscriversi all'università in Iran.


Poche donne hanno usato le loro voci per tale effetto potente come Ghamar ol Molook Vaziri. E' nata solo un anno prima della rivoluzione costituzionale e ha cominciato a cantare da bambina, imparando le canzoni religiose di lutto con la nonna. Dall'età di 20 anni lei è stata una sfida - e cambiamento - per la scena musicale dominata dell'Iran maschile. Si è esibita sul palco senza hijab in un momento in cui le donne che non indossavano il velo erano state spesso portate in carcere.
Nel 1924 ha deciso di cantare sul palco di Teheran Grand Hotel, aprendo la porta a molte donne per farlo dopo di lei. Sedici anni dopo i primi segnali radio sono stati trasmessi in Iran e il pubblico finalmente ha potuto sentire la voce di Ghamar. Lei rimane un'icona di ribellione e di indipendenza per questo giorno. 

Ma non è stato solo attraverso il canto che le donne hanno dato la loro voce. La letteratura era stata a lungo un modo per loro di raccontare le loro storie, dare voce alle preoccupazioni e sfidare lo status quo. La poesia di una donna ha fatto molto di più che scuotere il mondo della letteratura Farsi di qualsiasi altra cosa prima - o dopo.


Le poesie di Forough Farrokhzad sono in grassetto, onesto e aperto. Ha sposato un famoso autore satirico, Parviz Shapour, all'età di 16. Hanno avuto un figlio, ma il loro matrimonio finì dopo solo due anni. Nella conservativa, società religiosa dell'Iran, Farrokhzad era un personaggio controverso; divorziata che scriveva poesie ed esprimeva la sua rabbia per le limitazioni sulle donne. Ha chiamato per la liberazione e la libertà e ha dato alle donne dell'Iran uno sguardo in un mondo in cui potevano esserci entrambi. Tragicamente, Farrokhzad è morta in un incidente d'auto all'età di 32 anni.

Quando la rivoluzione islamica è avvenuta nel 1979, molte delle libertà che erano state lentamente e dolorosamente vinte dalle donne in Iran, sono state spazzate via. Una nuova ortodossia più conservativa ha permesso ai chierici di recuperare gran parte del controllo che avevano perso.

Ironia della sorte, le donne iraniane hanno avuto un ruolo enorme nel fomentare la rivoluzione. Le donne di diversa estrazione - religiose, di sinistra, casalinghe e studentesse - sono scese in piazza spalla a spalla con gli uomini chiedendo che lo scià lasciasse il paese. 
Quando l'ambasciata degli Stati Uniti era stata superata e molti erano stati presi in ostaggio, uno dei capi dell'assedio era una donna, Masoumeh Ebtekar. Ha studiato negli Stati Uniti ed è ora il capo dell'Organizzazione iraniana per la Protezione Ambientale.
Le donne in Iran hanno sostenuto la rivoluzione nella speranza di una maggiore libertà e indipendenza. Ma ben presto divenne chiaro che non avevano vinto nessuna delle due.
La leadership aveva subito dichiarato che le donne in tutte le organizzazioni governative e gli spazi pubblici dovevano indossare l'hijab, una legge che in molti hanno contestato allora. Ma piccoli atti e proteste hanno gradualmente fatto riguadagnato il terreno perduto. I confini sono stati spinti con l'hijab.  

Molte donne ora indossano colori più brillanti e foulard più flessibile, trasformando quello che doveva essere un triste, modesta uniforme in una dichiarazione di moda.

Come molte donne prima di lei, Masih Alinejad, una giornalista iraniana e blogger, ha utilizzato gli strumenti a sua disposizione per protestare contro l'hijab obbligatorio. Ha lanciato una campagna online chiamata "My Stealthy libertà" per incoraggiare le donne a pubblicare foto di se stesse senza il loro velo. Individualmente era solo un po' di protesta, ma pian piano è diventato un movimento globale.


Ma non tutte le icone del femminismo iraniano hanno scelto il loro destino. La capitana della squadra nazionale di calcio, Niloufar Ardalan, è diventata un'icona femminista riluttante dopo aver detto al mondo che il marito le aveva vietato di recarsi all'estero a giocare in un torneo. Ha rifiutato di permetterle di richiedere il passaporto.

venerdì 27 novembre 2015

Infibulazione: vietata in Gambia


Il Gambia ha annunciato che le mutilazioni genitali femminili presto saranno fuorilegge.


Lo scorso giugno la Nigeria è diventata il primo Stato Africano ad aver vietato l'infibulazione. Ora tocca al Gambia mettere al bando questa pratica crudele, che rappresenta una grave tortura per le donne.
Lo ha dichiarato il Presidente del Gambia Yahya Jammeh, ricordando che le mutilazioni genitali femminili fino a questo momento hanno riguardato almeno tre quarti delle donne del Paese.
infibulazione
Il Presidente del Gambia ha annunciato che l’infibulazione verrà vietata immediatamente, anche se non è ancora chiaro quando il Governo preparerà il testo di legge che ufficializzerà questa decisione.
 
Le mutilazioni genitali femminili, che spesso vengono eseguite su bambine e ragazze molto giovani, prevedono la rimozione del clitoride e di altre parti dei genitali femminili con un intervento che spesso comporta complicazioni per la salute per tutta la vita, tra forti dolori, sanguinamento, infezioni e infertilità.


L'infibulazione è una mutilazione genitale femminile che consiste nell'asportazione del clitoride, delle piccole labbra, di parte delle grandi labbra vaginali con cauterizzazione, cui segue la cucitura della vulva, lasciando aperto solo un foro per permettere la fuoriuscita dell'urina e del sangue mestruale.


Più di 130 milioni di donne vengono costrette alla pratica dell’infibulazione in Africa e in Medio Oriente. Purtroppo la mutilazione genitale femminile sta riguardando sempre più le bambine quando sono ancora piccole e il 14,56% di loro in Gambia ha subito l'infibulazione entro i 14 anni.
 
Il Presidente del Gambia ha deciso di mettere le donne e le bambine al primo posto, in modo del tutto inaspettato, un nuovo punto di vista che forse potrebbe avere effetti negativi sulla sua campagna elettorale.

Il Paese in cui la mutilazione genitale femminile viene purtroppo praticata più di frequente è la Somalia: qui il 98% delle ragazze di età compresa tra i 4 e gli 11 anni ha dovuto subire l’infibulazione. Ancor di più, subito dopo la Giornata contro la violenza sulle donne, non possiamo che sperare che questa pratica crudele che tortura le donne abbia presto fine in ogni luogo del mondo in cui risulta ancora ammessa.

Marta Albè 
 
Fonte foto: Face2Face Africa

Fonte articolo: http://www.greenme.it/vivere/costume-e-societa/18464-infibulazione-divieto-gambia-mutilazione-genitale-femminile 

giovedì 26 novembre 2015

Il 25 novembre di Adiantum


Noiosa premessa:

Il 25 novembre è la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Perché esiste la “Giornata internazionale contro la violenza sulle donne” e non esiste la “Giornata internazionale contro la violenza sugli uomini”? Non subiscono violenza anche gli uomini?
Si, anche gli uomini subiscono violenza. Ma, come spiega splendidamente l’Accademia della Crusca, c’è una particolare forma di violenza che le donne subiscono in virtù della loro appartenenza ad un genere discriminato, ed è quella violenza “esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte“.

La Giornata è stata istituita dall’Onu con la risoluzione 54/134 del 17 dicembre 1999, e la stessa Dichiarazione adottata dall’Assemblea Generale Onu parla di violenza contro le donne come di “uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini“.

L’istituzione di questa giornata intende sminuire il disvalore sociale del comportamento violento quando è rivolto contro un cittadino di sesso maschile?
No, certo che no.

Ci dice l’Istat:

Gli uomini uccisi (368 nel 2012, pari all’1,3 per 100.000 maschi) sono prevalentemente vittime di omicidi per furto o rapina e da criminalità organizzata, mentre gli omicidi delle donne sono consumati maggiormente in ambito familiare. Per questo motivo i tassi per gli uomini ricalcano il trend in diminuzione che caratterizza omicidi da criminalità organizzata e per furto, mentre quelli per le donne rimangono sostanzialmente stabili, con il risultato finale che, sul totale delle vittime, aumenta la quota di vittime femminili e diminuisce la componente maschile. 

Le donne uccise nel 2012 sono state 160 (0,5 per 100.000 donne), prevalentemente in ambito familiare. I dati di Polizia indicano, per il 2012, che il 46,3% delle donne è stata uccisa da un partner o da un ex-partner (erano il 54,1% nel 2009 e il 38,7% nel 2004), il 20% da un parente e il 10,6% da un amico o un’altra persona che conoscevano. Le persone uccise da un estraneo sono solo il 14,4% del totale delle vittime donna, mentre per gli uomini tale percentuale è pari al 33,4%.
Gli uomini sono uccisi, inoltre, prevalentemente da autori non identificati (45,4% contro l’8,7% nel caso delle donne) e in minima parte da partner o ex-partner (2,2%) e da parenti (10,3%). [pagg.157-158]

Quello che si nota immediatamente è che vengono uccisi più uomini che donne (1,3 contro lo 0,5 su 100.000), ma che la violenza nelle relazioni sentimentali miete molte più vittime fra le donne che fra gli uomini: il 46,3% contro il 2,2%.

Ci dice sempre l’Istat che nel quinquennio 2009/2014:

6 milioni 788 mila donne hanno subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale, il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni:
- il 20,2% ha subìto violenza fisica,
- il 21% violenza sessuale,
- il 5,4% forme più gravi di violenza sessuale come stupri e tentati stupri.

Sono 652 mila le donne che hanno subìto stupri e 746 mila le vittime di tentati stupri… I partner attuali o ex commettono le violenze più gravi. Il 62,7% degli stupri è commesso da un partner attuale o precedente… Considerando il totale delle violenze subìte da donne con figli, aumenta la percentuale dei figli che hanno assistito ad episodi di violenza sulla propria madre (dal 60,3% del dato del 2006 al 65,2% rilevato nel 2014).


L’Indagine nazionale sul maltrattamento dei bambini e degli adolescenti in Italia ci dice che:

La violenza assistita costituisce la seconda forma di violenza più diffusa tra quelle registrate: circa 1 bambino su 5 fra quelli maltrattati è testimone di violenza domestica intrafamiliare. [pag.33]
A partire da questi dati sono legittimata a dedurre che, nella maggior parte dei casi, il responsabile di quella particolare forma di maltrattamento che viene definita “violenza assistita” (peraltro molto diffusa) è di sesso maschile?
Secondo Adiantum, Associazione di associazioni nazionali per la tutela dei minori, non posso.
Per questo motivo, Adiantum ha deciso di celebrare il 25 novembre prendendosela con Siria Trezzi, Sindaca di Cinisello Balsamo

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responsabile di aver promosso la campagna “Cattivo esempio”, realizzata da studenti del corso triennale in Comunicazione Pubblicitaria di Ied Management e Comunicazione di Milano con i loro docenti, e nata da una collaborazione con il Comune di Cinisello Balsamo, la Regione Lombardia, l’Azienda Sanitaria Locale Milano, gli Ospedali Buzzi e Bassini, la Cooperativa Il Torpedone e il periodico locale La Città.

cinisello balsamo


Abbiamo già visto, analizzando altri articoli, che secondo Adiantum parlare di apertamente di violenza di genere è intollerabile, perché “la violenza non ha sesso né genere“.
I dati che ci dicono che a morire in famiglia, per mano del partner, sono il 46,3% delle donne contro il 2,2% degli uomini sarebbero, secondo Adiantum, “propaganda donnista“, e la campagna di comunicazione promossa dal Comune di Cinisello Balsamo sarebbe “discriminazione strumentale di genere“.
Ma la discriminazione sarebbe “strumentale” a quale fine?
Ci dice Adiantum: strumentale ad “alienare” i bambini:
vengono utilizzate frasi attribuibili a figli in età minore e quindi la comunicazione si pone di fatto come alienazione strumentale e istituzionale sui minori perché coinvolgere i bambini nella disinformazione di genere è un pessimo esempio di Educazione Sociale.

Accantonando per un attimo l’argomento “disinformazione”, vorrei farvi notare che quelli “coinvolti” nella campagna sono bambini disegnati, non sono veri bambini; qui si prospetta una nuova sindrome: la SAF, la sindrome da alienazione dei fumetti, per cui attenti amici illustratori!

A proposito di “disinformazione”, invece, vi ricordo che a partire dal 2012 a mezzo stampa sono stati diffusi i risultati di una ricerca condotta dal professor Pasquale Giuseppe Marcrì dell’Università di Arezzo, Fabio Nestola, nel consiglio direttivo di Adiantum insieme ad un altro membro bel gruppo, la Psicologa Sara Pezzuolo, che fra le altre cose scrive nel portale http://www.papaseparati.it, e la Dottoressa Yasmin Albo Loha, anche lei membro di Ecpat Italia nonché membro del CSA Fenbi (Centro Studi Applicati Federazione Nazionale per la Bigenitorialità). Secondo questa ricerca ben 5 milioni di uomini sarebbero vittime di violenza da parte delle donne e 3,8 milioni avrebbero subito violenza sessuale.

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Dati allarmanti, tanto che il 26 febbraio 2014 l’On. Tiziana Ciprini, del Gruppo parlamentare Movimento 5 stelle, ha depositato un’interrogazione a risposta scritta sul tema della ‘violenza femminile contro gli uomini’ basata su questo studio.

Purtroppo, come ci ha spiegato all’epoca la Dr.ssa in Statistica per le Analisi Demografiche e Sociali Giuliana Olzai, si tratta di dati campati in aria.

Mi scrisse, la Dottoressa Olzai:

La statistica non è una opinione ma una scienza impostata su dei criteri scientifici che vanno seguiti e rispettati se si vuole ottenere un campione rappresentativo o quantomeno significativo.
E allora, si vuole forse sovradimensionare a livello mediatico un fenomeno che a conti fatti questo studio non riesce a definire quantitativamente e qualitativamente in modo corretto e credibile? 
Se così fosse ritengo vada a discapito di una veritiera e corretta informazione.

Se andiamo a leggerlo, lo studio, scopriamo che fra le domande del sondaggio che riguardano la violenza sessuale contro gli uomini, c’è questa:  
è capitato che una donna abbia iniziato con te i preliminari di un atto sessuale, per poi rifiutarlo senza fartene comprendere il motivo?
Secondo questi “ricercatori”, il fatto di rifiutatare un rapporto sessuale completo di penetrazione configurerebbe il reato di violenza sessuale. La donna che si nega al desiderio maschile è, nell’immaginario di queste persone, una donna violenta.
Sappiamo che una sentenza della Cassazione ha stabilito che “Integra il reato di violenza sessuale la condotta di chi prosegua un rapporto sessuale quando il consenso della vittima, originariamente prestato, venga poi meno a causa di un ripensamento o della non condivisione della modalità di consumazione del rapporto”: quello che secondo la Cassazione è un abuso verso la donna, da questo studio è descritto come un abuso nei confronti dell’uomo.

L’esposto di Adiantum contro la campagna “Cattivo Esempio” opera il medesimo ribaltamento della realtà, servendosi della fallacia tu quoque: una campagna che denuncia il fenomeno della violenza domestica e i suoi effetti sui bambini, un fenomeno le cui vittime sono principalmente le donne (il che non significa che gli uomini non siano vittime di altre forme di violenza, come abbiamo rimarcato commentando i dati dell’Istat) e che affonda le radici in una cultura patriarcale che discrimina le donne, sarebbe discriminatoria nei confronti dei poveri uomini.
Come dire che se promuoviamo una campagna per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema delle morti bianche stiamo discriminando i morti per mano della criminalità organizzata.

Dalla cronaca locale:

«Un messaggio vergognoso e discriminatorio – dice il capogruppo del Carroccio cinisellese Giacomo Ghilardi -. È fuorviante: la battaglia è giusta, ma il modo è intollerabile. La campagna condanna a priori i padri e le famiglie, in quei beceri cartelli si tende a denigrare tutti i padri e a lanciare un messaggio di violenza a tutti i figli».

Condanna “a priori”?
Io direi piuttosto che la campagna denuncia un fenomeno sulla base di dati concreti, e quei dati ci dicono che a commettere violenza contro il partner all’interno delle mura domestiche sono gli uomini, come giustamente sottolinea il comunicato stampa apparso in risposta alla polemica sul sito del Comune di Cinisello Balsamo.

Ora vi mostrerò delle immagini tratte da campagne contro il razzismo:


alexsandro-palombo-e-la-campagna-contro-il
no_to_racism

Salta subito agli occhi che il razzista ha la pelle chiara, mentre il discriminato ha la pelle scura. Perché? Perché avere la pelle chiara è una caratteristica genetica che porta con sé la tendenza a discriminare gli altri?
La risposta è no.
Di fronte a immagini come queste le persone dalla pelle chiara dovrebbero tutte sentirsi offese?
La risposta è no.
Ad essere stigmatizzate sono le categorie discriminate, e la denuncia di questa realtà non è discriminante nei confronti delle categorie privilegiate.
Se navigate il sito di Adiantum, vi imbatterete in un simpatico articolo dal titolo “Le donne/Iazebel proliferano nei nostri tribunali“:

donna_iezebel


Un articolo che – senza riportare nessun dato sensibile a supporto di quanto racconta – denuncia il prolificare di una particolare specie di donna che viene definita così:
  • L’opinione della Donna/Iazebel sui bambini è perversa. Lei dice che li ama, ma in realtà non sa come amarli, e finisce per usarli come arma per soddisfare i suoi bisogni egoistici (la c.d. Sindrome della madre malevola ne è una sfumatura). I bambini sono semplicemente pedine che lei muove nel suo gioco di potere e controllo;
  • La Donna/Iazebel è la classica pugnalatrice nella schiena: ti sorride, ti abbraccia e bacia, ma appena giri le spalle ti spara, ed in sede di separazione o divorzio è anche peggio;
  • parlano in maniera soffice, dando l’illusione di essere premurose, materne, protettive, qualche volta persino sottomesse. Abili attrici, come ogni demone che si rispetti, manipolano la realtà.
Secondo l’autrice di questo capolavoro esistono “Uomini/Iazebel”?
No, a quanto pare no. Questi demoni perversi, incapaci di amare, assetati di denaro e abili manipolatori sono esclusivamente di sesso femminile.
Come può affermarlo?
A beh, lei è un avvocato e quindi “lo sa”. Noi dovremmo crederle sulla parola. D’altra parte, l’abitudine di basarsi su dati statistici è una pratica “donnista”, e le donne di Adiantum non possono certo abbassarsi a quel livello.

Mi chiedo: chissà come mai pubblicare un articolo che ci racconta di donne demoniache affette da sindromi inesistenti che girano per i Tribunali con l’unico scopo di esercitare “potere e controllo” non è discriminatorio, mentre lo è un’iniziativa promossa dal Comune di Cinisello Balsamo che illustra il fenomeno della violenza assistita sui bambini in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne?

E vorrei chiedere ad Adiantum, associazione di associazioni nazionali per la tutela dei minori: perché guardi la pagliuzza che è nellocchio di tua sorella, e non t’accorgi della trave che è nel tuo?

P.S. A proposito di campagne…

fonte: https://ilricciocornoschiattoso.wordpress.com/2015/11/26/il-25-novembre-di-adiantum/

mercoledì 25 novembre 2015

Parlare di donne a vent'anni da Pechino

tra progressi e obiettivi da raggiungere

È atteso a New York per il 26 settembre il Global Leader’s meeting on gender equality and women’s empowerment, un incontro per discutere dei diritti delle donne “a vent’anni da Pechino”.

Se la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne del 1979 rappresenta il principale testo giuridicamente vincolante in materia di diritti femminili, è infatti grazie alla Conferenza internazionale di Pechino del settembre 1995 che si è giunti a una Piattaforma d’Azione che impegna i Paesi dal punto di vista politico e culturale.

Quello nella capitale cinese era il quarto di una serie di incontri - dopo Città del Messico, Copenaghen e Nairobi - promossi dalle Nazioni Unite a partire dal 1975.
Con il vertice di Nairobi cambiò l’approccio internazionale alla questione del progresso femminile - visto non più come nodo isolato, ma come parte integrante di ogni sfera dell’attività umana. È tuttavia da Pechino che è partito l’impegno a "guardare il mondo con occhi di donna”.

Oltre 17mila partecipanti alla Conferenza del 1995, tra cui Hillary Clinton, Benazir Bhutto, Wangari Maathai e Aun San Suu Kyi - che ha inviato un videomessaggio -, hanno trovato un punto di sintesi sul tema dei diritti delle donne in un documento firmato da 189 Paesi. La Piattaforma d’azione che ne è derivato individua 12 aree in cui concentrare gli interventi: povertà, istruzione e formazione, salute, violenza contro le donne, rapporto tra donne e conflitti armati, economia, potere e processi decisionali, meccanismi istituzionali per favorire il progresso delle donne, diritti fondamentali, media, ambiente e bambine.

Dopo la conferenza di Pechino i problemi di applicazione della sua Piattaforma sono stati discussi ogni anno dalla Commissione ONU sulla condizione delle donne (CSW), organismo funzionale del Consiglio Economico e Sociale (ECOSOC) delle Nazioni Unite istituito nel 1946. La Commissione, composta dai rappresentanti di 45 Stati eletti dall’ECOSOC in base a un criterio di equilibrio geografico, ogni anno esamina un tema prioritario e invia raccomandazioni per i governi, gli organismi intergovernativi, le istituzioni e la società civile.
L’agenda dei lavori della 59esima sessione ha previsto come tema prioritario la Piattaforma d’azione di Pechino, mostrando un notevole divario tra le politiche elaborate e la loro applicazione.

Cos’è stato fatto fino ad oggi, e cosa rimane ancora da fare?
Le Nazioni Unite hanno concretizzato il loro impegno sul fronte femminile dando vita nel 2010 a UN Women, agenzia parte del Gruppo per lo sviluppo. Con uno staff di quasi 2000 unità, UN Women è operativa in 90 Paesi e ha il compito di promuovere l’eguaglianza di genere e i diritti delle donne. Nonostante le critiche da parte di attivisti e associazioni, che accusano l’agenzia - e in generale gli enti per i diritti delle donne - di essere una “blanda riaffermazione degli impegni presi a Pechino”, UN Women è stata fondamentale per la creazione di standard minimi condivisi da cui partire per la sensibilizzazione dell’opinione pubblica e per l’azione sui governi affinché introducano legislazioni volte all’eguaglianza di genere.
Questo è vero soprattutto per quanto riguarda la violenza contro le donne. Proprio per rispondere a un problema che oggi è impossibile ignorare, nel 2011 è stata adottata la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, un documento del Consiglio d’Europa che mira a punire e prevenire violenza psicologica, atti persecutori (stalking), violenza fisica, violenza sessuale, matrimonio forzato, mutilazioni genitali femminili, aborto forzato o sterilizzazione forzata. Resta tuttavia ancora molto lavoro da fare, se si pensa che, secondo le stime di UN Women, oggi 1 donna su 3 nel mondo è ancora vittima di violenza fisica e psicologica. 

Quella della violenza sulle donne non è l’unica area in cui è necessaria un’azione urgente.
Resta prioritario il problema delle spose bambine, che ha ancora numeri spaventosi: si parla infatti di 14.2 milioni di minori costretti a sposarsi ogni anno, per una cifra totale di 140 milioni. Occorre poi riportare l’attenzione dei governi sulla questione delle mutilazioni genitali femminili, pratica perpetuata in nome di tradizioni sociali e religiose che mette a rischio la vita di milioni di donne e ragazze in 29 Paesi. 

Secondo stime dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità, sono oltre 100 milioni nel mondo le vittime di mutilazioni genitali femminili (MGF), largamente diffuse in molte regioni africane, del Medio Oriente, dell’Asia e dell’America Latina, ma presenti anche in Europa. Secondo il Parlamento europeo sono circa 500mila le donne e le ragazze che convivono con le mutilazioni genitali femminili sul nostro territorio, e 180mila coloro che rischiano annualmente di essere sottoposte alla pratica. La Convenzione di Istanbul è il primo trattato che riconosce l'esistenza delle MGF in Europa e la necessità di affrontare il fenomeno in modo sistematico, nonostante la forte resistenza che si incontra anche da parte delle stesse madri e delle società nel loro complesso, ancorate a pratiche tradizionali che considerano necessaria l’infibulazione per garantire la purezza delle ragazze.
Impossibile inoltre non citare la difficoltà di accesso all’educazione femminile, soprattutto in alcuni Paesi africani, in Medio Oriente, in Pakistan - da dove si è levato l’appello di Malala, la giovane che ha sfidato i talebani con la sua lotta per il diritto all’istruzione - e in Afghanistan, dove circa l’85% delle donne resta priva di educazione. 

A vent’anni da Pechino, tuttavia, arrivano anche notizie positive sul fronte dei diritti delle donne. La rappresentazione femminile è in aumento; oggi ci sono 11 parlamenti con più del 40% di donne, e nove donne a capo del governo. È diminuita inoltre la mortalità femminile durante il parto, scesa del 45% a livello globale - seppure il 99% di questi decessi avvenga ancora nei Paesi in via di sviluppo, in particolare nell’Africa sub-sahariana.
Siamo tuttavia lontani dalla parità di genere, annunciata dalle Nazioni Unite per il 2030, e per raggiungere l’obiettivo occorre costruire un percorso collettivo che si focalizzi anche sull’inclusione delle donne nel processo economico. E questo non vale solo per i Paesi in via di sviluppo, ma anche per gli Stati occidentali: basti pensare che, secondo il Gender Gap Report 2014 - lo studio del World Economic Forum sulle disparità di genere nel mondo che analizza la situazione di 142 Paesi - l’Italia arriva solo al 114esimo posto nella classifica sull’accesso femminile alle opportunità economiche, alle spalle di Angola, Costa d’Avorio, Belize, Guinea, Burundi, Zambia, Ucraina e Romania. 

Se, come si legge nel rapporto 2015 di UN Women, l’economia lavorasse per le donne, “le loro scelte di vita non sarebbero vincolate agli stereotipi, allo stigma e alla violenza di genere; il lavoro retribuito e non retribuito che le donne fanno verrebbe rispettato e valorizzato; e le donne sarebbero in grado di vivere la loro vita senza violenza e molestie sessuali. Avrebbero pari voce nei processi decisionali in campo economico: avrebbero voce su quanto tempo e quanto denaro vadano spesi nelle loro famiglie; avrebbero, inoltre voce su sui modi in cui le risorse vengono aumentate e allocate nelle loro economie nazionali e avrebbero voce sulle più ampie politiche economiche stabilite dalle istituzioni globali”.

Martina Landi, Redazione Gariwo
FONTE: http://it.gariwo.net/rubriche/appunti-internazionali/parlare-di-donne-a-vent-anni-da-pechino-13935.html

giovedì 19 novembre 2015

Una giovanissima direttrice d’orchestra sfida i Kalashnikov


di Ivano Abbadessa

Guance rosse, lunga chioma che scende sulle spalle, uno strumento musicale sempre tra le mani e tenacia da vendere. 
E’ Negin Khpolwak che, ad appena 17 anni, è diventata la prima direttrice d’orchestra dell’Afghanistan. Un talento purissimo, acclamato e apprezzato nei più importanti palcoscenici mondiali come il Carnegie Hall di New York e il Kennedy Center di Washington DC.

Una giovanissima direttrice d’orchestra sfida i Kalashnikov

È stata la BBC ad accendere i riflettori sulla storia di questa adolescente che si è già trasformata in un simbolo dell’emancipazione femminile. 

Figlia di una famiglia povera del nord est del paese, Negin Khpolwak  racconta che nella sua terra  “le bambine non vanno a scuola e molte famiglie non consentono loro di studiare musica”. Per questo si è trasferita a Kabul dove nel 2010, grazie al contributo finanziario della Banca Mondiale, è nato l’Istituto nazionale afghano di musica. L’unico del Paese frequentato da circa 200 studenti, di cui almeno ¼ ragazze e nel quale lavorano professori afghani, americani, russi e australiani. Che ha permesso a Negin Khpolwak di realizzare un sogno: “diventare una famosa pianista e direttrice d’orchestra, non solo in Afghanistan, ma nel mondo.” Grazie anche all’aiuto del padre che l’ha spalleggiata contro i divieti ultraconservatori della sua stessa famiglia. La madre e gli zii, infatti, convinti che la sua passione fosse “contraria alla tradizione” volevano che la smettesse con quella che consideravano un’arte peccaminosa.

Nell’intervista all’emittente televisiva inglese Ahmad Sarmast, fondatore e direttore della scuola in cui studia Negin, racconta le difficoltà che incontrano i giovani afghani aspiranti musicisti. “Si iscrivono spesso con la benedizione dei genitori, ma poi interviene uno zio, un nonno o un anziano del villaggio che inizia a fare pressioni affinché il ragazzo o la ragazza smettano di studiare musica o di prendere qualsiasi altra forma di educazione”.

Non mancano neanche le intimidazioni e gli attacchi. Lo scorso anno, mentre nella scuola si teneva un concerto all’aperto, un attentatore suicida è entrato in azione seminando morte e distruzione. Ma loro non si lasciano intimidire perché, ama ripetere Ahmad  “noi combattiamo la violenza e il terrore con la nostra arte e cultura, in particolare con la musica. Questo è uno dei modi in cui possiamo convincere la nostra gente sull’importanza di vivere in pace ed armonia, piuttosto che continuare ad ucciderci a vicenda.”

fonte: WestInfo.eu

martedì 17 novembre 2015

endometriosi e femminismo


L’informazione é importante e parlare con le adolescenti dei loro corpi é fondamentale. Fondamentale é ascoltarle e guidarle. Conoscere il nostro corpo é il primo passo per stare bene. Io adesso, grazie a questa esperienza, mi conosco e conosco il mio corpo molto meglio. Soprattutto il mio utero. E lo amo alla follia. Anche se é malato e ogni tanto ci litigo.
L'essere malata di endometriosi, i miei continui andirivieni tra medici e ginecologi, gi esami da fare, il dover parlare del mio utero a parenti e sconosciuti più di quanto non lo faccia una donna sana, beh, è stato fondamentale nel mio percorso di auto-consapevolezza femminista. Ho deciso,  dopo mille tentennamenti, di raccontarvi il perché. Ma, piccola premessa, in questo post non fornisco informazioni di tipo medico (non ne avrei le competenze e c’é già abbastanza approssimazione in rete ). Quindi, se non state bene, temete di avere l’endometriosi o ce l’avete e non sapete a chi rivolgervi, vi consiglio vivamente di contattare l’Associazione Progetto Endometriosi, A.P.E.troverete persone competenti e disponibili, sempre pronte ad aiutarvi.

Torniamo a me. Oggi ho 35 anni, ma la prima volta che mi sono accorta di non stare bene ne avevo 23. Alcuni sintomi della malattia erano già li e mi accompagnavano da tempo, ma parlavano a bassa voce, disturbavano solo a intermittenza e si confondevano con altre patologie. Questo é uno dei lati più stressanti dell’endo.
Alcuni erano  dolori “socialmente accettati”, facilmente liquidabili come afferenti alla categoria dei “dolori mestruali”, o al tanto gettonato “stress”  che spesso si accompagna a patologie molto diffuse come il  “colon irritabile”.  Ma quando senti un dolore di quelli che fanno paura lo capisci e non hai bisogno di raccontarti storie per tranquillizzarti. Ti terrorizzi punto e stop.
Quel primo dolore più intenso non lo dimenticherò mai, come non dimenticherò la paura provata.  Ma quando si sta male é difficile parlarne, cercare conforto, poiché qualunque  tema legato alla fragilità del corpo, al dolore, alla malattia, é considerato antisociale. 
Finché sei sana é tutto facile;  quando invece sei costretta a parlare di problemi di salute, anche solo per giustificare assenteismo a lavoro o nella vita sociale, nessuno ti chiede più “come stai” e le persone toccano ferro, si danno alla macchia, cambiano argomento come se dovessero difendersi da un attacco contaminante di peste bubbonica.
Certi argomenti sono percepiti come sgradevoli, ad alto rischio di reazioni lapidarie, tic nervosi e fughe improvvise. Se poi si tratta di menzionare organi dell’apparato genitale femminile… si salvi chi puo!

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Il primo dolore non si scorda mai. Ma quel primo dolore é stato importante perché, come tutti i sintomi, sono  per comunicarti qualcosa, darti un allarme, metterti in guardia.  E il corpo che si sveglia, cerca di reagire. E io in guardia mi ci sono messa tant’è che sono andata  a farmi visitare. “Signorina, ma se quando ha il ciclo sta male, é normale”.
Resto un po’ confusa, gli ho appena descritto un dolore acuto da far piangere e urlare anche me, normalmente dotata di una buona soglia del dolore ; “é causato dall’utero retroverso” (ndr: sonora cazzata)” “se sta così male, chiami l’ambulanza” (prescrivermi un’ecografia no, eh?).
Liquidata in velocità, a 23 anni avevo tutti i sintomi tipici dell’endometriosi, il mio era praticamente un caso da manuale. Ma avevo 30 anni quando, sorriso sulle labbra (giuro), sono finita in sala operatoria! Non spaventatevi, erano “altri tempi”, oggi se ne parla di più, ci sono medici specializzati, sono fiduciosa e certa che anche i tempi di diagnosi si ridurranno drasticamente, l’importante é rivolgersi a centri ospedalieri specializzati e vigilare sui sintomi e sui risultati degli esami a cui si viene sottoposte.

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Quell’appuntamento col ginecologo fu solo l’inizio di un’avventura particolarmente istruttiva per me. Io avevo bisogno di tenere a bada  i dolori per poter vivere  (e non sopravvivere), ma mi si diceva che probabilmente ero stressata, che spesso le donne hanno reazioni dovute a problemi ormonali che portano a un nervosismo che non sanno gestire. Poco ci mancava che si diagnosticasse la mia perdita di pazienza e di intolleranza al dolore come  isteria.

1) CHI DICE DONNA DICE MAMMA

C’é stata pero una frase ricorrente, pronunciata da più ginecologi e ginecologhe, che mi ha colpita profondamente, una frase che veniva ripetuta sistematicamente dopo che avevo esposto con minuzia e preoccupazione i sintomi che, conil passare  degli anni, nella fase più acuta della malattia mi stavano distruggendo e che stavano mandando a farsi friggere anche la mia vita sociale e professionale. “NON SI PREOCCUPI, TUTTO FUNZIONA, POTRÁ  AVERE FIGLI”.

Ero precaria, abitavo da sola all’estero, il mio compagno era lontano, ma anche avessi avuto un posto fisso e una casa di proprietà con 13 camere da letto e un giardino di 10 ettari  IO NON  stavo assolutamente pensando al fatto di voler diventare madre, io stavo male avevo bisogno di aiuto, ma questo sembrava lasciare costernati i miei interlocutori, uomini e donne.

Specifico che all’estero (quando sono stata visitata e seguita in Germania e poi in Francia ) questa frase non mi é mai stata pronunciata, se non dopo la fatidica basica domanda: ha forse intenzione di avere figli?
Una domanda come questa lascia intendere la libertà di scelta ed é una boccata d’aria fresca per chi come me non é del tutto a suo agio con questo aspetto dell’essere donna.
In Italia però era chiaro che il mio benessere fosse secondario. Una dottoressa dandomi una pacca sulla spalla bonariamente mi dissse: si faccia forza, sopporti, vedrà che avrà presto una bellissima bambina. Perché una bambina poi…mah?
Da notare che anche molte amicizie e più di un parente  hanno reagito in questo modo (dopo aver cercato su google “endometriosi” ed essere trasaliti per la spaventosa serie di immagini di donne in mutande accucciate, in lacrime, appese a una borsa dell’acqua calda grande come un condominio ); il fatto di avere una malattia cronica complessa che non ha alcuna cura non sembrava abbastanza grave. Il dramma percepito era sempre e soltanto quello della probabilmente mancata maternità.

Un esempio di conversazione ridotta all’osso: “Ciao, si sto cosi cosi, sai ho scoperto di avere l’endometriosi”. Risposta: ” Ah, ….terribile, ma non preoccuparti. Anche una mia amica ce l’aveva ma ha avuto due bambini comunque”.  Un’amica di vecchia data mi  scrisse addirittura un bigliettino per dirmi che lei (credente) pregava ogni giorno per me (atea) affinché io potessi realizzare il sogno di ogni (davvero? ogni?) donna.  Sfinita da tanto ottuso sostegno, ho rinunciato a spiegarmi, se non con le persone più care e più capaci di ascolto.
Capisco e mi addolora sinceramente nel profondo che ci siano donne che soffrono immensamente perché non possono avere figli, non voglio assolutamente banalizzare questo aspetto. Ma io NON sono tra queste.

Dare per scontato che una donna voglia fare figli, dare per scontato che una donna per realizzarsi debba fare figli, dare per scontato che una donna malata o sterile sia una donna che non potrà mai realizzarsi é gravemente ingiustificatamente e fortemente discriminatorio e sessista.

2) LE DONNE E IL DOLORE, UNA STORIA D’AMORE?

Noi, creature multitasking per natura che amiamo sottometterci e siamo mansuete per tradizione, sopportiamo il dolore con la dignità e il coraggio tipico delle martiri. Ma é davvero cosi?
 Che le donne abbiano un rapporto privilegiato e socialmente accettato con il dolore dove sta scritto?
Insisto, ribadisco, sottolineo ancora una volta che la salute, lo stare bene dovrebbe essere un diritto di tutti.  Il dolore non può essere banalizzato né giustificato. Ci hanno forse tacitamente insegnato che é normale avere dolori mestruali, ma come distinguere i dolori “normali” da quelli allarme di un qualcosa che non va?

3) LA SALUTE DELLE DONNE, QUESTA SCONOSCIUTA 

E cosi, questa esperienza personale mi ha fatto riflettere allargando il campo. Mi sono resa conto che la salute delle donne é un tema importante lasciato spesso ai margini. 
Ricordo servizi del TG che, nella rubrica salute, parlavano di chiurgia estetica. Ricordo lo sconforto provato; parlando di endometriosi avrebbero in pochi minuti potuto dare informazioni preziose a moltissime donne sofferenti e disperate. 
Oggi abito in Francia, e mi capita spesso di vedere servizi televisivi o documentari dedicati alla scelta dell’anticoncezionale più adatto o ad altre tematiche legate alla prevenzione, informazione e alla salute. Il corpo delle donne in Italia sembra invece essere bistrattato da tanta disinformazione e mille tabù che provocano alcune tra le contraddizioni più inquietanti del nostro paese. 

Il corpo delle donne é eccitante, lo si vende, lo si svende, lo si usa,  ma non lo si conosce bene. Ed é spesso motivo di un insipiegabile imbarazzo che viene trasmesso alle più giovani. 

Non si può parlare di ciclo mestruale. E alla ripetizione della parola “utero” ho personalmente assistito a reazioni ridicole e imbarazzate. In famiglia o a scuola di sessualità e salute non se ne parla o comunque non se ne parla abbastanza. E temo che possa essere più facile che un padre accompagni la figlia adolescente ai provini per Miss Italia piuttosto che dal ginecologo per occuparsi della sua informazione, consapevolezza e salute. Ma la salute non può assolutamente essere motivo di imbarazzo.

L’informazione é importante e  parlare con le adolescenti dei loro corpi é fondamentale. Fondamentale é ascoltarle e guidarle. Conoscere  il nostro corpo é il primo passo per stare bene. Io adesso, grazie a questa esperienza, mi conosco e conosco il mio corpo molto meglio. Soprattutto il mio utero. E lo amo alla follia. Anche se é malato e ogni tanto ci litigo.


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fonte: https://bambolediavole.wordpress.com/2014/09/24/endometriosi-e-femminismo/