Introduzione
Il delitto del Circeo nell’immaginario collettivo italiano
di Consuelo Corradi
L’immaginario sociale di un paese è fatto di eventi e personaggi che hanno avuto un ruolo, talvolta involontario, nel modellare la storia recente. Non sono eventi storici in senso stretto, non riguardano le élites politiche e non provocano mutamenti epocali. Eppure concorrono a formare quella pasta di simboli, narrazioni e nomi che plasma la memoria breve di un paese.
Sono passati trentacinque anni da quel settembre del 1975 quando venne commesso il “delitto del Circeo”. Oggi possiamo dire che esso è rimasto nell’immaginario sociale italiano, in particolare nella storia recente delle donne.
Il libro di Sara Mascherpa ha il grande pregio di ricostruire tale storia proprio nell’ottica di quell’evento e dei suoi personaggi, gettando in questo modo una nuova luce sul presente. Il delitto del Circeo è stato uno degli spartiacque nel cammino di emancipazione delle donne italiane; ma ha svolto questo ruolo perché, nel momento in cui fu commesso, andò a intercettare correnti culturali e spinte verso il mutamento che già agitavano la nostra società sospingendola verso una migliore modernizzazione. Il clamore provocato, la scala nazionale nella quale il delitto venne subito riportato, il numero di commenti pubblicati dalla stampa si spiegano, in parte, con l’efferatezza delle azioni.
Quel terribile fatto di cronaca e la spontanea ondata emotiva da esso sprigionata ebbero in realtà anche la capacità di sintetizzare alcuni conflitti profondi che già scuotevano la società italiana, prestandosi così a varie “letture”:
- la lettura classista di una contrapposizione tra ricchi e poveri, quartieri borghesi e periferie urbane;
- la lettura femminista di una contrapposizione tra uomini e donne, predatori e oggetti sessuali;
- la lettura politica tipica degli anni della post-resistenza, di una contrapposizione tra rossi e neri, fascisti e antifascisti.
Fu per questo che alcune tra le migliori penne della cultura e del giornalismo italiano dell’epoca – tra le quali Italo Calvino, Pierpaolo Pasolini, Stefano Rodotà, Franco Ferrarotti, Dacia Maraini - si impegnarono nell’agone della cronaca, con esiti diversi.
Fu per questo spessore acquistato subito dal delitto nell’immaginario sociale di allora che i cinque protagonisti – due vittime e tre aggressori – diventarono non più solo persone, ma personaggi.
Da allora molte cose sono cambiate nella società italiana:
- la lettura politica degli eventi appare oggi datata;
- la lettura classista conserva una parte di verità: l’incontro di Rosaria e Donatella con i tre assassini sembra ancora oggi l’incontro tra lo svantaggio della vita di periferia e il vantaggio dell’istruzione e dei soldi, un incontro totalmente asimmetrico, sfruttato con ferocia dai tre;
- la lettura femminista ha preso vigore nel tempo.
Dal settembre del 1975, e ancora di più dall’anno successivo durante il quale si tiene a Latina il processo, il delitto del Circeo ha saputo rafforzare quell’onda di interesse nei riguardi della violenza contro le donne che ancora oggi, soprattutto oggi, mantiene la sua forza nell’opinione pubblica.
Sono, sì, ancora oggi, cinque volti tragici, ma il destino sociale si è ribaltato. Le vittime e in modo particolare Donatella Colasanti hanno occupato un posto di rilievo nell’immaginario femminile, offrendo negli anni e con la testimonianza un contributo positivo all’emancipazione. La sorte degli assassini è stata molto diversa: pur con vicissitudini distinte l’uno dall’altro, a volte rocambolesche, ognuno di loro ha rappresentato in modo vivido un’icona negativa di spietatezza e sopraffazione. La storia ha ristabilito la verità delle persone e delle loro azioni.
Il libro di Sara Mascherpa ricostruisce con cura tutto questo e, in conclusione, apre alcune piste di riflessione sullo studio della violenza contro le donne, un fenomeno sociale rispetto al quale la sensibilità dell’opinione pubblica è cresciuta. Se appare infatti chiaro il filo rosso che lega quegli eventi alle campagne e alle politiche sociali di oggi, altrettanto chiara è la necessità di dotarsi di categorie interpretative e politiche di intervento che tengano conto dei cambiamenti avvenuti:
- sappiamo che la violenza contro le donne si registra oggi in tutti gli strati sociali, non solo tra le classi più umili;
- sappiamo che donne con elevati livelli di istruzione e reddito non ne sono immuni;
- sappiamo che la tradizionale divisione dei ruoli maschile-femminile è stata rimessa in discussione e, almeno in parte, anche superata.
Per questo, il libro si conclude formulando nuove letture del fenomeno sociale e nuove proposte di interventi. A questo riguardo, il lavoro della ricerca empirica e dell’elaborazione teorica trova ancora campo aperto.
1. La ricostruzione dei fatti
Roma, nella notte tra il 30 settembre e il 1° ottobre del ’75, in via Pola, una strada di un tranquillo ed elegante quartiere borghese, vengono ritrovate due ragazze nel bagagliaio di una Fiat 127, avvolte in sacchi di plastica: una morta, l’altra quasi. I carabinieri sono arrivati sul posto solo perché una donna, che non riusciva a dormire, ha sentito dei lamenti provenire da una macchina. Le due ragazze sono Rosaria Lopez, 18 anni, e la sedicenne Donatella Colasanti. Arrivata all’ospedale, Donatella riuscirà a dare una prima testimonianza:
Mi avevano messo un laccio intorno al collo e tiravano, tiravano, e poi vedendo che non riuscivo a morire mi hanno presa a sprangate sulla testa e dicevano sempre: “Madonna, questa qui resiste troppo, quand’è che muore? Casomai dopo gli diamo una pistolettata”. Quando mi hanno messa nel portabagagli, hanno detto: “Finalmente è morta”.
Poche ore dopo Donatella riesce a fornire particolari sufficienti per individuare i responsabili: sono Gianni Guido, 20 anni, figlio di un dirigente bancario (la 127 era quella di suo padre), Angelo Izzo, 17 anni, figlio di un ingegnere costruttore, e Andrea Ghira, 22 anni, anch'egli figlio di un costruttore. I primi due vengono immediatamente arrestati, mentre Ghira riesce a fuggire. Nessuno lo prenderà mai più.
Ma chi sono Guido, Izzo e Ghira? Loro stessi si definiscono fascisti. Ghira, in particolare, teorizza il crimine come mezzo legittimo di affermazione sociale.
Questa breve sintesi dei fatti è tratta dal sito della trasmissione Rai “La storia siamo noi” (www.lastoriasiamonoi.rai.it).
Di seguito la ricostruzione della vicenda, così come viene raccontata da Donatella Colasanti:
Tutto è cominciato una settimana fa, con l’incontro con un ragazzo all’uscita del cinema che diceva di chiamarsi Carlo, lo scambio dei numeri di telefono e la promessa di vederci all’indomani insieme ad altri amici. Con Carlo così, vengono Angelo e Gianni, chiacchieriamo un po’, poi si decide di fare qualcosa all’indomani, io dico che non avrei potuto, allora si fissa per lunedì. L’appuntamento è per le quattro del pomeriggio. Arrivano solo Angelo e Gianni, Carlo, dicono, aveva una festa alla sua villa di Lavinio, se avessimo voluto raggiungerlo… ma a Lavinio non arrivammo mai. I due a un certo punto si fermano a un bar per telefonare a Carlo, così dicono; quando Gianni ritorna in macchina dice che l’amico avrebbe gradito la nostra visita e che andassimo pure in villa che lui stava al mare. La villa era al Circeo e quel Carlo non arrivò mai.
I due si svelano subito e ci chiedono di fare l’amore, rifiutiamo, insistono e ci promettono un milione ciascuna, rifiutiamo di nuovo. A questo punto Gianni tira fuori una pistola e dice: “Siamo della banda dei Marsigliesi, quindi vi conviene obbedire, quando arriverà Jacques Berenguer non avrete scampo, lui è un duro, è quello che ha rapito il gioielliere Bulgari”. Capiamo che era una trappola e scoppiamo a piangere. I due ci chiudono in bagno, aspettavano Jacques.
La mattina dopo Angelo apre la porta del bagno e si accorge che il lavandino è rotto, si infuria come un pazzo e ci ammazza di botte, e ci separano: io in un bagno, Rosaria in un altro. Comincia l’inferno. Verso sera arriva Jacques. Jacques in realtà era Andrea Ghira, dice che ci porterà a Roma ma poi ci hanno addormentate. Ci fanno tre punture ciascuna, ma io e Rosaria siamo più sveglie di prima e allora passano ad altri sistemi. Prendono Rosaria e la portano in un’altra stanza per cloroformizzarla dicono, la sento piangere e urlare, poi silenzio all’improvviso. Devono averla uccisa in quel momento.
A me mi picchiano in testa col calcio della pistola, sono mezza stordita, e allora mi legano un laccio al collo e mi trascinano per tutta casa per strozzarmi, svengo per un po’, e quando mi sveglio sento uno che mi tiene al petto con un piede e sento che dice: “Questa non vuole proprio morire”, e giù a colpirmi in testa con una spranga di ferro. Ho capito che avevo una sola via di uscita, fingermi morta, e l’ho fatto.
Mi hanno messa nel portabagagli della macchina, Rosaria non c’era ancora, ma quando l’hanno portata ho sentito chiudere il cofano e uno che diceva: “Guarda come dormono bene queste due”.
La stampa italiana dedica al delitto del Circeo ampio spazio fin dall’inizio, dal giorno del ritrovamento del cadavere di Rosaria e di Donatella, la sopravvissuta; nei giorni successivi l’attenzione dei mass media è costante, anzi cresce. Non solo i quotidiani a diffusione nazionale ma anche i settimanali d’attualità («Panorama», «L’Espresso», «Il Mondo», «L’Europeo») se ne occupano, pubblicano approfondimenti, inchieste e articoli di commento, affidati alle firme più prestigiose del giornalismo italiano.
L’attenzione, la curiosità, l’indignazione, lo stupore degli italiani vengono alimentati da informazioni giornaliere. Troviamo articoli dedicati al delitto del Circeo in prima pagina, nelle pagine di cronaca o in entrambe, corredati da foto, quasi tutti i giorni, a partire dal 1° ottobre 1975 e per quasi tre settimane, come riassunto nella tabella riportata in appendice, al termine di questo capitolo.
La quantità di articoli pubblicati testimonia la straordinaria attenzione che il caso del Circeo attira su di sé; i lettori ricevono continuamente aggiornamenti, dettagli e novità su tutto ciò che riguarda la vicenda.
I maggiori quotidiani italiani seguono, giorno dopo giorno, le prime ricostruzioni dell’accaduto, dall’appuntamento a Roma fino al ritrovamento delle ragazze nel bagagliaio dell’auto, descrivono minuziosamente le ore di terrore trascorse all’interno della villa, le minacce, le sevizie e le violenze perpetrate contro le due giovani. In base all’autopsia effettuata sul corpo di Rosaria, i medici legali stabiliscono che è morta per annegamento.
Articoli più o meno lunghi ragguagliano circa le indagini in corso, il coinvolgimento e gli interrogatori di altri ragazzi, presunti complici e accusati di favoreggiamento; riferiscono della latitanza di Ghira e del ritrovamento della sua auto ed anche delle perizie relative all’assunzione o meno di stupefacenti (si parla di eroina e di anfetamine) durante il festino nella villa.
Diversi giornalisti forniscono il ritratto dei colpevoli, la descrizione del quartiere Parioli - dove sono nati e cresciuti i tre amici - e dell’ambiente che frequentano abitualmente; descrivono i locali e i bar in Piazza Euclide e in Piazza delle Muse, in cui i “pariolini neri”, i “picchiatori fascisti”, autori di intimidazioni, di assalti e di pestaggi nei confronti di “studenti democratici”, solitamente si ritrovano. Raccolgono le dichiarazioni degli amici dei colpevoli o degli abitanti del quartiere; elencano i loro precedenti penali, le condanne che hanno già collezionato, nonostante la giovane età, e mettono in evidenza l’impunità di cui hanno sempre goduto in passato.
Durante il mese di ottobre, i lettori dei giornali ricevono notizie circa il sopralluogo nella villa del Circeo, che viene più volte rimandato e vengono informati sull’elenco delle accuse formulate contro i tre ragazzi e sulle manovre dei loro avvocati difensori, manovre che possono spiegare le lungaggini circa l’assegnazione del processo al tribunale di Roma o al tribunale di Latina. Il conflitto di competenza territoriale si risolve a favore del tribunale di Latina, dato che il reato più grave, l’omicidio volontario di Rosaria Lopez, è avvenuto a San Felice Circeo, che si trova in provincia di Latina. Infine, viene dato risalto alla polemica, che cresce di giorno in giorno, circa il trattamento di favore, la speciale “protezione” di cui hanno goduto i tre ragazzi, già accusati in precedenza di reati simili e rimessi rapidamente in libertà.
I protagonisti: aggressori e vittime
I veri protagonisti di questa storia sono i cattivi; nei confronti dei tre ragazzi, colpevoli dell’omicidio di Rosaria e del tentato omicidio di Donatella, si concentra l’attenzione di quotidiani e settimanali, per tentare di capire come sia stato possibile che dei giovani, ricchi e privilegiati, si siano accaniti con tanta brutalità su due ragazze, povere e indifese.
Si domanda chi siano Cristina Mariotti, su «L’Espresso» (1): Li chiamano “i ragazzi della via Pola”. Abitano nello stesso quartiere, sono andati nella stessa scuola, hanno tutti le stesse abitudini, le loro famiglie si somigliano tutte l’una all’altra.
Chi sono? Anormali, delinquenti comuni o i figli assassini di una classe corrotta?
Sono molti i giornalisti che tentano di fornire una risposta esauriente a questo interrogativo. Per farsi un’idea dei tre pariolini neri, è indispensabile iniziare dai fatti ed analizzare il loro recente passato.
(1) C. MARIOTTI Io uccido, poi passa papà a pagare, in «L’Espresso», 12 ottobre 1975.
Nell’articolo “Razza fascista”, apparso su «Panorama» (2), troviamo il resoconto dei precedenti penali di Izzo e Ghira:
Andrea Ghira: arrestato nel 1973 per la rapina in casa di un ingegnere di via Panama fu condannato a 8 anni. Dopo 18 mesi di carcere, 10 giorni prima dell’orgia del Circeo, era di nuovo a spasso grazie a un provvedimento di libertà provvisoria. Prima della rapina aveva collezionato una sfilza di denunce: violazione di domicilio, lesioni personali, porto abusivo d’arma da fuoco, ricettazione, furto aggravato, sostituzione di persona. Il suo nome è inoltre da tempo segnalato tra gli spacciatori di droga pesante negli ambienti neofascisti della capitale.
Per Angelo Izzo la specialità invece è sempre stata la violenza carnale: il 2 marzo 1974, ancora studente del San Leone Magno, costrinse sotto la minaccia di una pistola una minorenne a subire atti di libidine. La stessa sorte nove mesi dopo l’ha riservata a un’altra ragazza di 18 anni. Per tutti e due i reati Izzo è stato condannato nel maggio scorso a due anni. Il regalo del giudice della condizionale, però, gli ha permesso, mercoledì primo ottobre, di partecipare al tragico festino del Circeo.
«L’Europeo» (3) pubblica tre articoli, raccolti sotto un unico, grande titolo La violenza ai Parioli: nel primo, dall’esplicito titolo "Il privilegio e la legge", scritto da Giuliano Ferrieri, si afferma che ben ferme restando le responsabilità dei singoli colpevoli, altre e gravi ne vanno ricercate di ambiente e di costume, di politica e di omertà - posizione che, come vedremo in seguito, viene sostenuta da numerosi ed autorevoli giornalisti e scrittori.
Gli altri due articoli, invece, descrivono il quartiere romano da cui provengono i protagonisti del criminoso festino nella villa al mare.
Duilio Pallottelli firma "Ritratto di un quartiere", un lungo articolo in cui vengono descritte le frequenti azioni dei picchiatori fascisti, continuamente attivi ai Parioli, e vengono intervistati alcuni abitanti della zona: una signora che manda i suoi due figli in un istituto privato “fuori zona”, il giovane prete della parrocchia di San Bellarmino, alcuni studenti del Liceo Scientifico Azzarita e del Liceo Classico Mameli.
(2) Razza fascista, in «Panorama», 16 ottobre 1975.
(3) G. FERRIERI, "Il privilegio e la legge"; Duilio Pallottelli, Ritratto di un quartiere; Claudio Lazzaro, "Parla un pariolino", in «L’Europeo», 17 ottobre 1975.
Ecco parte delle interviste:
una studentessa del liceo scientifico Azzarita (una delle scuole più bersagliata dai fascisti) spiega: “All’interno di questo quartiere c’è una doppia componente. Oltre ai ricchi ci sono i miserabili. Pensi ai figli dei portieri, ai figli dei piccoli impiegati che sono finiti, per un motivo o per l’altro, a vivere quassù. Tutta questa gente è irrimediabilmente attratta dalle abitudini, dal modo di concepire la vita, dalla filosofia dei ricchi. Specialmente le ragazzine.
Alle ragazze loro dicono: tu ti salvi perché sei una donna, quindi non pigli botte. Però se vuoi stare con noi devi fare esattamente quello che ti chiediamo. E chiedono di tutto, creda a me. Ogni tipo di porcheria, ogni depravazione. Molte accettano. Non riescono a resistere al fascino dell’ambiente più elevato. Credono di fare un passo avanti. È un po’ il caso della tragedia del Circeo, anche se quelle poverette non abitavano ai Parioli, ma stavano in borgata. E per questi fascisti la “borgatara” deve fare di tutto: è un giocattolo qualsiasi. Le donne del loro stampo, invece, le trattano con tutte le cure e il rispetto possibili. Le difendono con ferocia. Ho visto dei poveracci mandati all’ospedale solo perché avevano lanciato un’occhiata troppo audace a una pariolina. Quindi siamo davanti al razzismo puro. I poveri maschi invece vengono usati, quando sono accettati, come truppa d’assalto, come carne da macello. E devono ubbidire.”
Oltre a questo scenario classista, presentato dalla studentessa liceale, una seconda ragazza intervistata parla esplicitamente dell’uso di stupefacenti:
Con la questione delle droghe bisogna starci attenti; qualcuno cerca di giustificarli perché si drogano. Cercano anche di giustificare l’ultimo orrendo delitto del Circeo con la scusa della droga. La droga è un fatto marginale. Essi non sono violenti perché si drogano, sono semplicemente dei violenti che fanno uso di stupefacenti.
Colpisce la nettezza di giudizio: la droga non è che una scusa, è un elemento irrilevante per spiegare il tragico epilogo dell’orgia nella villa del Circeo.
Sempre su «L’Europeo», in "Parla un pariolino", il giornalista Claudio Lazzaro racconta così la sua indagine conoscitiva nel quartiere romano, balzato improvvisamente alla ribalta della cronaca:
A Piazza delle Muse siamo venuti per conoscere i pariolini, per capire fino a che punto il contesto di questa piazza San Babila romana può produrre gli incubi della nostra società: i delitti come quello del Circeo.
Parlo con un gruppo di questi ragazzi. Hanno delle idee su quanto è successo al Circeo. “I peggiori”, dicono, “sono quelli sotto i vent’anni. La nuova generazione è la più cattiva. Hanno bisogno di mostrarsi duri, se picchiano una donna poi se ne vantano. Devono emergere, farsi notare in qualche modo: passano su un gippone, in gruppo, cantando inni fascisti, ma neanche sanno cos’è il fascismo.”
Tramite uno di questi ragazzi, il giornalista riesce a mettersi in contatto con un vero pariolino, uno rappresentativo, che lo riceve a casa sua, in Viale Parioli; ecco come si presenta il giovane: ha diciannove anni, alto, col fisico da lottatore agile. E questo è un breve estratto della loro conversazione; il giornalista gli chiede:
i giovani pariolini sono in maggioranza di destra e hanno utilizzato la violenza organizzata come mezzo di intimidazione politica?
“Certo in questa storia entra anche la violenza nera. Quella dei gruppi di estrema destra, come Lotta di Popolo, ai quali erano stati collegati alcuni degli imputati per il delitto del Circeo. Ma io non so fino a che punto a vent’anni uno abbia la coscienza di giocarsi la pelle per un’idea politica. Secondo me sono solo ragazzi che cercano di affermare la propria personalità con la forza. Più uno è violento, più uno esiste.
Conosco la formula: ‘Ma tu hai paura di fare una cosa del genere? Che uomo di merda?’
Sono sicuro che anche nella villa del Circeo questa formula ha funzionato: ognuno dei tre probabilmente temeva che l’altro lo considerasse una cacasotto. Dopo il primo schiaffo ognuno picchiava più forte per dimostrare che valeva di più.”
Se davvero, come afferma il vero pariolino, più uno è violento più uno esiste, i tre giovani hanno commesso violenze di ogni tipo non solo per dimostrare la propria forza, la propria capacità di dominio ma, principalmente, per costruirsi un’identità, per affermare la propria esistenza all’interno del gruppo, sotto lo sguardo giudicante degli altri due, in un gioco al rialzo difficile da interrompere. Chi tra loro, alla fine della trasferta fuori città, si è dimostrato un vero duro? Chi ha dato prova di essere il migliore dei tre?
Oltre agli articoli che si occupano dei colpevoli e dell’ambiente da cui provengono, la stampa rivolge la propria attenzione anche alle due ragazze: Rosaria, la vittima, e Donatella, la sopravvissuta, ricoverata in ospedale.
I giornalisti si recano alla Montagnola, quartiere povero e periferico di Roma, dove abitano le due giovani, per incontrare i familiari e i parenti della vittima e Nadia, l’amica di Donatella che, con una scusa, aveva rifiutato l’invito dei “pariolini”.
Maria R. Calderoni, in "Quando la periferia diventa un ghetto" (4), descrive così Rosaria e il suo mondo:
Apparteneva a una famiglia di origine siciliana, di piccola borghesia ministeriale. Il padre, settantacinquenne, impiegato del catasto, ora in pensione fa un ritratto affettuoso di questa sua ultima figlia, “moderna, ma con un suo forte orgoglio, autonoma ma non scapestrata”. Oggi, in questa casa, la disgregazione si nota a occhio nudo, nelle due stanzucce e nel corridoio-budello che la compongono, i muri stinti, i mucchi di biancheria per terra, la specchiera rotta, le scarpe qua e là.
La disgregazione più acuta, tuttavia, non è negli oggetti; è nell’aria stampata sui volti delle persone che abitano la casa: su quello della madre, 59 anni, ma da venti in stato di abulica dissociazione mentale; su quello della sorella Teresa, diplomata maestra elementare, anch’essa in preda a squilibri psichici; su quello un po’ allucinato del fratello Emanuele: come una barca malferma che sta in piedi a fatica, che nessuno più s’è curato di raddrizzare. Tanto meno la spietata realtà di un quartiere dove ogni famiglia ha i suoi guai tangibili e cataloga semplicemente come un “po’ matta” questa gente.
La Montagnola è un quartiere abitato da persone che hanno tanti guai e difficoltà di ogni genere da affrontare ogni giorno; Rosaria Lopez è una giovane ragazza che proviene da una famiglia molto numerosa - è l’ultima di otto figli - una famiglia segnata dal disagio mentale, a cui nessuno offre un aiuto, né i vicini troppo presi dai loro problemi né i servizi sociali assenti dal quartiere.
(4) M.R. CALDERONI, "Quando la periferia diventa un ghetto", in “L’Unità”, 3 ottobre 1975.
Sono questi i primi elementi utili per ricostruire il contesto in cui viveva Rosaria.
Così viene descritta fisicamente: piccola, minuta, ben fatta ma non sconvolgente, mai truccata, vestiva “come tutti noi”, jeans e magliette, un berretto sui capelli per le volate in motorino.
E questa è la sua carriera scolastica e lavorativa: licenzia media, un corso di formazione professionale, cassiera in un bar per un po’ di tempo, quindi la ricerca di un lavoro qualsiasi.
È il ritratto di una ragazza che conduce una vita semplice, modesta, conosciuta da tutti nel quartiere, nessun pettegolezzo, nessuna maldicenza; qualche aneddoto, piuttosto, frammenti di vita quotidiana:
Aveva fame di affetto: dai colloqui con i ragazzi del quartiere, con le ragazze sue coetanee, viene fuori un ritratto semplice, persino banale.
Non c’è quasi niente da dire, una storia senza rilievi. Squarci significativi illuminano la sua ansia di andar via, di riscattarsi. “Aveva sempre fame, a casa sua non trovava mai nulla da mangiare”. “Io l’ho frequentata fino a due anni fa - dice uno studente seduto al bar in piazza - ; andavamo in un prato dietro al Campidoglio e lì si parlava, si parlava. Aveva grossi problemi esistenziali e sentimentali: cercava un appoggio. E nemmeno aveva fama di “quella che tutti si fanno”, tutt’altro.”
Gli amici la difendono, raccontano di lei con tenerezza e semplicità, e definiscono calunnie le strane storie che girano sul suo conto, dopo la sua tragica morte.
L’assurda fine di Rosaria (nuda, il viso massacrato, rinchiusa dentro un bagagliaio, così come la mostrano alcune spietate immagini), l’ha consegnata a curiosità malsane, a mormorii morbosi che è facile riempire di insinuazioni. Dalle parole degli amici e dei conoscenti emerge un ritratto che nulla ha a che fare con una vita disordinata, con un comportamento frivolo o degradante, con frequentazioni compromettenti; piuttosto, viene fuori tutto il contrario ed è per questo che, nel suo quartiere, l’impressione è enorme; c’è in giro pietà, non scandalo; soprattutto, tra i ragazzi, c’è un grande e doloroso stupore.
È difficile trovare una spiegazione convincente ed accettare ciò che è successo, è difficile associare Rosaria, una ragazza semplice e modesta, con un festino in una villa fuori città a base di droga, sesso e violenza. Quello che è successo è quasi incomprensibile: perché allora quella “leggerezza”, quell’imprudenza improvvisa, un pomeriggio di lunedì, che sembra distruggere in un attimo questo ritratto di ragazza saggia? Di quale abbaglio è stata vittima? Quale verità è ancora da cercare?
Rosaria, ragazza senza radici, forse è solo colpevole di aver affidato ad una spider lucente e ad un delinquente vestito da ragazzo-bene, il suo infantile sogno di rivincita.
La stampa racconta il dolore e lo sconcerto degli abitanti della Montagnola, sentimenti che sono apparsi evidenti durante il funerale di Rosaria.
Cristina Mariotti, in "Io uccido, poi passa papà a pagare", ci racconta come si presenta la Montagnola, la borgata in cui Rosaria viveva, il giorno del suo funerale: i muri della zona sono tappezzati di manifesti mortuari, voluti dalla famiglia della vittima:
Nelle “partecipazioni di morte” che la famiglia Lopez ha voluto affiggere all’uso paesano sulle case della Montagnola, lo squallido rione-dormitorio
che nasce sulla Cristoforo Colombo poco più sotto del quartiere modello dell’Eur, si legge che “Rosaria, 18 anni, è stata barbaramente uccisa dalla “Gioventù della Roma-bene”. Un’attribuzione generica e quindi incompleta (della Roma bene e fascista sarebbe stato più esatto) ma che serve a mettere in rilievo i connotati classisti di questo delitto.
La distanza sociale e politica esistente tra i Parioli e la Montagnola, tra i pariolini ricchi, privilegiati e fascisti, e le borgatare, proletarie e povere, viene costantemente sottolineata nella cronaca nazionale.
Queste sono le parole pronunciate dall’ex parroco della Montagnola, don Pietro Orcelli, nel corso dell’omelia funebre:
Da una parte questi straricchi pariolini che tutto possono e che tutto hanno; fannulloni, privilegiati, debosciati, protetti dal denaro e da una magistratura con sedimenti fascisti, gratificati sempre della libertà provvisoria di una smaccata evasione fiscale, padroni di macchine e di case. Dall’altra la gente dei quartieri di periferia per la quale c’è la fiscalizzazione di tutto e c’è la miseria e non ci sono le case. Quelli possono spendere, possedere ville, ammazzare, coltivare il sadismo... Sia Rosaria a trenta anni dalla Resistenza a frenare il dilagare del fascismo violento.
Il vecchio parroco mette in evidenza l’enorme distanza che c’è tra due classi sociali, tra due quartieri, tra due veri e propri mondi, presenti nella stessa città, territorialmente vicini ma, in realtà, lontanissimi tra loro.
Ritroviamo considerazioni simili nell’articolo del sociologo Gianni Statera che, su “Il Messaggero” (5), scrive:
Quanto è accaduto nella villa di San Felice ha un significato emblematico: due mondi che solo fisicamente convivono in una città frammentata e profondamente dilacerata nel suo tessuto sociale, collidono drammaticamente; e a soccombere è il mondo di chi vive in due stanze di periferia. I predoni si scoprono per tali, si scatenano contro il diverso, l’ “altro” per sesso, estrazione sociale, visione del mondo; l’attitudine alla prevaricazione e alla sopraffazione che è dei padri si fa, nei figli, determinazione irresponsabile alla umiliazione, alla distruzione, alla cancellazione dell’altro, sia esso il “rosso” o la ragazza di periferia.
L’episodio, in sé esecrabile, insegna molte cose, insegna che la grassa borghesia dell’incultura, dello scempio edilizio e della connivenza col
potere, produce mostri; che la disgregazione del tessuto sociale della città ha raggiunto l’estremo limite.
La contrapposizione tra classi sociali che ci viene continuamente proposta, dal parroco durante il funerale di Rosaria, dai giornalisti, dai commentatori, appare oggi un po’ datata. È davvero questa la chiave di lettura del delitto del Circeo? È la marxiana lotta di classe che ci spiega la morte di Rosaria? O è il mito fascista dell’uomo forte e autoritario, che disprezza le donne, che ci permette di capire il sequestro di due ragazze, le sevizie protratte e l’intenzione dei tre “pariolini neri” di uccidere entrambe?
Queste interpretazioni “politiche” non sembrano avere retto alla prova del tempo; leggendole oggi, appaiono decisamente superate. Tuttavia, scorrendo gli articoli dedicati al delitto del Circeo, troviamo continuamente questa interpretazione classista e ideologica dei fatti.
(5) G. STATERA, "I simboli falsi imposti dai mostri", in “Il Messaggero”, 4 ottobre 1975.
2. L’interpretazione della stampa italiana
Oltre agli articoli di cronaca, rivolgiamo ora l’attenzione agli editoriali che appaiono sulle prime pagine dei quotidiani nazionali e anche sui settimanali di attualità, firmati dei più importanti giornalisti e scrittori italiani.
Iniziamo da tre articoli di Lietta Tornabuoni, Antonio Capranica e Stefano Rodotà, che presentano riflessioni piuttosto simili tra loro.
Sul “Corriere della sera”, in prima pagina, compare l’articolo "Roma male", di Lietta Tornabuoni (6), che descrive così i tre colpevoli:
“Ragazzi della Roma-male, figli di ricchi professionisti, facce carine, pullover alla moda, belle automobili, belle case, belle estati: e, dietro, tutto il nero brulicare che può fare d’un ragazzo un assassino”.
In questa descrizione ci sono i soliti elementi, che sono già stati indicati in precedenza da altri giornalisti: la ricchezza, l’appartenenza sociale e quella politica. La violenza fa parte della vita quotidiana, le azioni organizzate dai gruppi di estrema destra (a cui i tre pariolini appartengono), gli assalti e i pestaggi continui contro gli avversari politici rendono abituale l’uso della violenza, che è considerata un mezzo di affermazione personale, un modo per emergere, per distinguersi dagli altri.
L’arroganza dei soldi e il disprezzo per le donne, specialmente per quelle più povere, viste come esseri senza volontà né sentimenti propri, come oggetti di divertimento da raccattare per strada, prendere, costringere, violentare, massacrare di botte se fanno storie, se non ci stanno oppure s’azzardano a ribellarsi.
Arroganza e disprezzo per le donne sono tratti distintivi della personalità di Angelo Izzo e di Gianni Guido, che già in precedenza si erano resi protagonisti di reati analoghi.
Il vuoto di vite velleitarie, torpide, trascinate nella noia, viziate dal benessere, senza moralità. La furia irosa di chi non rispetta nessuno e non ammette ostacoli alla propria prepotenza. E alla fine, magari, la droga: per esaltarsi e darsi forza. Gli ultimi eredi della “dolce vita” sono neri, e ammazzano. La crisi, la disgregazione della società, l’arroganza del privilegio sociale, l’assenza di valori lascia spazio alla violenza come valore assoluto.
(6) L. TORNABUONI, "Roma male", in “Corriere della sera”, 2 ottobre 1975.
La conclusione di Tornabuoni è il solito atto di accusa nei confronti della società che si ritrova spesso nei commenti giornalistici ai fatti più eclatanti di cronaca nera. Il generico riferimento ad un sistema in crisi, disgregato e privo di valori sembra essere un alibi che giustifica anche i gesti più efferati, come quelli compiuti dai tre autori del delitto.
Sempre in prima pagina, su “L’Unità”, Antonio Capranica titola il suo articolo di fondo "Squadristi dal “fausto avvenire” di assassini" (7):
Gli squadristi assassini di Rosaria Lopez hanno scelto il silenzio. Un’autoaccusa evidentemente. Ma ancor più un ennesimo gesto di sprezzo verso le loro vittime, una arrogante riaffermazione di “superiorità” anche di fronte alla giustizia. L’impunità goduta dalla loro carriera di picchiatori sembra rassicurarli sui rigori di una legge che gli ha sempre presentato il volto benigno di una paterna tolleranza. Il ghigno sulle labbra di Izzo appena arrestato: “Che mi importa? Tra dieci anni sarò fuori, potrò ancora andare a donne.” Il tranquillo conversare di calcio coi carabinieri di scorta di Gianni Guido. Il commento degli amici del “giro” dei bar dei Parioli e di Corso Trieste “è stata pura sfortuna”.
Compare subito, all’inizio dell’articolo, il termine impunità, l’elemento principale della lettura dei fatti che viene proposta da Capranica. Gli assassini non temono la punizione della giustizia, non hanno nessun dubbio sul trattamento di favore che gli sarà riservato, per il semplice motivo che, in passato, i giudici sono già stati particolarmente comprensivi nei loro confronti.
Nei mesi precedenti se la sono cavata con poco, anche questa volta non andrà tanto male, di questo sono convinti Angelo Izzo e Gianni Guido, catturati immediatamente; il terzo aggressore, Andrea Ghira, è latitante.
I due ragazzi arrestati non parlano, non è necessario, spetta ai loro avvocati occuparsi delle accuse e gestire i rapporti con i giudici; loro, i colpevoli, gli assassini, non hanno nulla da dichiarare, nulla da spiegare, e soprattutto nulla di cui pentirsi. Si sentono intoccabili, protetti e appoggiati dai contatti giusti, dalle conoscenze che contano e fanno affidamento sulla compiacenza dei giudici, perché sono figli di una classe privilegiata che vive, indisturbata, secondo regole diverse da quelle fissate dalla legge:
I figli della borghesia parassitaria, sviluppatasi all’ombra del sacco urbanistico di Roma, sono i discendenti dei dignitari del regime mussoliniano, cresciuti nelle case agiate di Corso Trieste o dei Parioli. Il denaro, il lusso, le macchine e le ville autorizzano alla fiducia.
(7) A. CAPRANICA, Squadristi dal “fausto avvenire” di assassini, in “L’Unità”, 5 ottobre 1975.
Secondo Capranica, i “pariolini” costituiscono una casta, una classe sociale chiusa, che si distingue da tutte le altre per nascita, per ricchezza, per privilegi goduti. Di conseguenza, il trattamento riservato dai giudici ai membri della casta sarà un trattamento di riguardo.
Non conta che proprio nell’ozio e nella noia di questa vita dorata maturino le aggressioni squadristiche, la torpida abitudine alla violenza sui “diversi”, il disprezzo verso gli esclusi dalla propria casta reputata “superiore”. (…) tutto si fa “oggetto”, da prendere, usare, gettare via.
Anche la sventurata ragazza povera e inquieta, a cui una sera, poco più di una settimana fa, Parboni Arquati offre un passaggio sulla sua lussuosa "Citroen Pallas”. Se si rifiuta, se si oppone, c’è la violenza.
Questo il ritratto giornalistico di Giampiero Parboni Arquati:
amico e complice dei tre responsabili, è uno squadrista nero, 20 anni, anche lui rampollo della “Roma bene”, soltanto un anno prima in una villa di Monte Porzio seviziò e violentò una ragazzina di sedici anni insieme al suo amico e camerata Angelo Izzo.
L’ordine di cattura parla di ratto a fine di libidine (8).
Ecco ricomparire un elemento fondamentale, utilizzato da molti giornalisti, per spiegare il delitto del Circeo: il disprezzo nei confronti dei diversi ovvero di coloro che non appartengono alla “casta superiore”; gli esclusi, i diversi sono gli “studenti democratici”, i “rossi”, le ragazze di borgata. Il disprezzo nutrito nei loro confronti porta, come inevitabile conseguenza, all’aggressione e alla violenza. Se una donna, ad esempio, si oppone alle richieste di un pariolino, viene umiliata, picchiata, annichilita; perché una donna è un essere inferiore, che deve sempre obbedire ed eseguire immediatamente ciò che le viene ordinato di fare. Per un pariolino nero è inaccettabile una manifestazione di resistenza, una contestazione o un rifiuto da parte di una donna.
Perché viene dato per scontato che il disprezzo porti, sempre e comunque, all’aggressione e alla violenza? Perché viene considerato “normale” dividere le persone in esseri superiori e esseri inferiori? Perché, insomma, non si cerca di trovare delle spiegazioni meno superficiali, che vadano oltre la descrizione degli eventi?
Forse non spetta ad un giornalista trovare delle risposte adeguate a casi di questo tipo ma quello che sorprende è il fatto che la realtà venga presentata sempre nello stesso modo ovvero che la chiave di lettura proposta sia continuamente lo scontro tra fascisti ricchi e ragazze povere.
Stefano Rodotà, in "Chi dà spazio ai teppisti" (9), amplia un po’ la visione delle cose e prende una posizione molto netta nei confronti dei responsabili diretti e, soprattutto, indiretti del delitto del Circeo:
Non era certo necessario attendere il selvaggio assassinio di una ragazza romana per scoprire la matrice fascista di tanta delinquenza comune.
Sono anni che le cronache registrano puntualmente questo fatto.
Perché insisto particolarmente su questo punto, rischiando l’accusa di voler esasperare l’interpretazione politica della vicenda che ha condotto alla morte di Rosaria Lopez? Perché ho l’impressione che molti dei giudizi dati in questa occasione - mettendo l’accento sul denaro facile, sul permessivismo dei genitori, sulla scuola incapace di trasmettere i valori - si preoccupino soltanto di spiegazioni generali, annacquando o facendo passare in secondo piano le responsabilità specifiche di persone o di organi dello Stato.
Rodotà ritiene insufficienti, insoddisfacenti le interpretazioni incentrate in modo eccessivo sui protagonisti del massacro e sull’ambiente nel quale sono cresciuti e suggerisce una visione d’insieme più articolata e più complessa:
È vero. Quei bravi giovani borghesi sono stati abituati all’impunità dall’aria che si respira in famiglie in cui l’evasione fiscale è la regola e le fortune si edificano sulle speculazioni edilizie o valutarie. Ma essi non hanno soltanto assorbito quasi inconsapevolmente questo abito di vita, che li portava a ritenere valide solo le regole dettate dal loro capriccio o interesse: giorno dopo giorno, grazie alla benevolenza della polizia e della magistratura, hanno sperimentato quell’impunità anche in prima persona e hanno così finito col ritenere che essa avrebbe continuato a coprire qualsiasi manifestazione della loro vita violenta.
Anche per Rodotà, l’impunità è un elemento centrale per comprendere il comportamento dei pariolini neri. Vengono chiamate direttamente in causa la polizia e la magistratura, colpevoli di aver già favorito, in passato, gli assassini di Rosaria.
L’attacco di Rodotà si basa su fatti precisi:
Sulle imprese teppistiche di fascisti giovani e meno giovani, e sul fitto tessuto di compiacenze pubbliche che le hanno lasciate impunite, esiste una documentazione tale che è inutile insistervi analiticamente ancora una volta. Basta ricordare che, all’indomani del delitto di Roma, i membri del Cogidas (coordinamento genitori democratici e antifascisti) hanno con amarezza sottolineato come siano rimaste da anni inascoltate le loro circostanziate denunce delle violenze di cui erano stati protagonisti proprio alcuni degli assassini di Rosaria Lopez. Ma servirà quest’ultimo episodio a cambiare, se non una mentalità, almeno alcuni comportamenti esteriori?
La vicenda del Circeo è emblematica nel mettere in luce gli stretti rapporti esistenti tra magistratura e organizzazioni di estrema destra, tra magistratura e borghesi ricchi e ammanicati.
Rodotà non è il solo ad interrogarsi sulla situazione politica e sociale italiana. Lidia Menapace, sulla prima pagina de “il Manifesto”, analizza Il pubblico e il privato dei fascisti assassini (10) ed afferma che l’immoralità (…) non è il frutto della permissività.
L’immoralità ha un nome preciso: è la doppia morale della prepotenza fascista coperta dalla solidarietà di classe, è l’uso della donna come di un disprezzato strumento di eccitazione e di piacere. Anche in questo articolo tornano gli stessi concetti, non c’è nulla di nuovo.
Infine, è senz’altro degno di interesse il dibattito a distanza che si è svolto tra Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini; è quest’ultimo a rappresentare la sola voce fuori dal coro della stampa italiana.
Il lungo articolo di Italo Calvino, pubblicato dal “Corriere della Sera” in prima pagina, è intitolato "Delitto in Europa" (11) e presenta una acuta analisi della situazione politica e sociale europea.
Riguardo alla situazione italiana, la riflessione calviniana è amara ma non cupa; egli ritrae una società in crisi ed, al tempo stesso, in cambiamento: questo periodo di crisi generale è per l’Italia anche un’epoca di passi avanti importanti, nella legislazione, nella vita civile, nella coscienza sociale.
Seguiamo la sua riflessione a partire dal tragico fatto di cronaca del Circeo:
i responsabili della carneficina del Circeo sono in molti e si comportano come se quello che hanno fatto fosse perfettamente naturale, come se avessero dietro di loro un ambiente e una mentalità che li comprende e li ammira. Per poco che riusciamo a capire, dobbiamo guardare le cose in faccia e considerare l’esistenza di una società di mostri che convive perfettamente con le strutture della nostra società attuale. (…)
I giornali hanno messo in rilievo che i protagonisti della vicenda appartengono all’ambiente dei picchiatori fascisti: c’era da aspettarselo. È una parte della nostra società in cui il disprezzo per la donna e per le persone di condizione sociale più modesta, la linea di condotta della sopraffazione del più debole e del disprezzo di ogni senso civico, [passa] da una generazione all’altra.
Anche nell’analisi calviniana è presente l’elemento del disprezzo nei confronti dei più deboli, donne e poveri, un disprezzo che fa parte di una precisa visione del mondo, che viene tramandata di padre in figlio, in cui il forte schiaccia il debole.
Il pericolo vero viene dall’estendersi nella nostra società di strati cancerosi; c’è una parte della borghesia italiana che vive e prospera e prolifera senza il minimo senso di ciò che appartenere a una società significa, come relazione reciproca tra gli interessi personali o di gruppo e quelli della collettività. Dire che non c’è che un passo dall’atonia morale e dalla irresponsabilità sociale alla pratica di seviziare e massacrare le ragazze con cui si esce alla sera può sembrare una delle solite generalizzazioni esagerate dei moralisti, però abbiamo sotto gli occhi il curriculum e il linguaggio di questi giovanotti, campioni rappresentativi - si dice - della clientela di un bar molto frequentato dalla gioventù del loro ceto.
(8) S. CRISCUOLI, "Arrestato un altro squadrista", in “L’Unità”, 5 ottobre 1975.
(9) S. RODOTÀ, "Chi dà spazio ai teppisti", in «Panorama», 16 ottobre 1975.
(10) L. MENAPACE, "Il pubblico e il privato dei fascisti assassini" in “Il Manifesto”, 7 ottobre 1975.
(11) I. CALVINO, Delitto in Europa, in “Corriere della Sera”, 8 ottobre 1975.
Con termini diversi da quelli usati da altri giornalisti, anche Calvino afferma l’esistenza di una casta, di una classe privilegiata, chiusa su se stessa e attiva nel difendere i propri privilegi.
Le azioni compiute dai membri di una classe che si ritiene privilegiata e superiore sono irresponsabili ed amorali: usare, umiliare, picchiare i deboli e le donne è la conseguenza di un modo di pensare e di vivere, che non ha niente a che fare con la convivenza civile, con l’appartenenza ad una comunità.
Criminalità politica e criminalità sessuale sembrano in questo caso definizioni riduttive ed ottimistiche. Probabilmente anche il fanatismo politico più bruto è un gradino al di sopra delle capacità intellettive di costoro. Così come mi pare certo che il sesso non interessa veramente questi [ragazzi]. Viviamo in un mondo in cui l’escalation nel massacro e nella umiliazione della persona è uno dei segni più vistosi del divenire storico: a questi giovani romani sta a cuore solo dimostrare una cosa ovvia: che i nazisti possono essere largamente superati in crudeltà in ogni momento.
L’intervento di Calvino sulle pagine del “Corriere della Sera” suscita, nei giorni successivi, un vivace dibattito; diversi giornalisti riprendono le sue posizioni e replicano alle sue tesi.
Certamente la risposta più significativa è quella di Pier Paolo Pasolini, che indirizza a Calvino, dalle pagine de «Il Mondo», una delle sue “lettere luterane”(12). Citando testualmente le parole dello scrittore, Pasolini controbatte alle tesi calviniane:
Ho da ridire sul fatto che tu crei dei capri espiatori, che sono: “parte della borghesia”, “Roma”, i “neofascisti”. Tu hai privilegiato i neofascisti pariolini del tuo interesse e della tua indignazione, perché sono borghesi. La loro criminalità ti pare interessante perché riguarda i nuovi figli della borghesia. Li porti dal buio truculento della cronaca alla luce dell’interpretazione intellettuale, perché la loro classe sociale lo pretende. Ti sei comportato - mi sembra - come tutta la stampa italiana, che negli assassini del Circeo vede un caso che la riguarda, un caso, ripeto, privilegiato. Se a fare le stesse cose fossero stati dei “poveri” delle borgate romane, oppure dei “poveri” immigrati a Milano o a Torino, non se ne sarebbe parlato tanto e a quel modo. Per razzismo.
Perché i “poveri” delle borgate o i “poveri” immigrati sono considerati delinquenti a priori.
Pasolini attacca duramente Calvino, lo accusa di razzismo, sostiene che l’attenzione, non solo di Calvino ma di tutta stampa italiana, nei confronti del delitto del Circeo, dipende esclusivamente dall’appartenenza dei tre assassini alla classe borghese.
Lo stupore, l’indignazione, il tentativo di capire le ragioni di un delitto così atroce derivano dalla classe sociale di appartenenza dei tre giovani assassini. L’eccezionalità della notizia è questa.
Per Calvino, per la stampa italiana e per l’opinione pubblica, è inaccettabile che tre giovani, ricchi, privilegiati, fortunati, tre ragazzi che hanno avuto tutto dalla vita, come si usa dire, si trasformino in brutali assassini.
Questi tre pariolini non corrispondono all’immagine dello stupratore violento; le aspettative nei loro confronti sono altre, completamente diverse; la loro appartenenza sociale sembra inconciliabile con il reato che hanno commesso. In base ad un pregiudizio diffuso, il ritratto del criminale è quello di un uomo povero, ignorante, brutto e cattivo, che compie crimini di ogni genere a causa della sua posizione ai margini della società, della sua mancanza di mezzi di sussistenza. Nell’immaginario collettivo i borgatari, i proletari sono delinquenti ed assassini, i ragazzi per bene, educati ed agiati no. Secondo Pasolini, è questo l’errore che commettono i giornalisti italiani ed anche Calvino, osservare la società italiana e dividerla in buoni e cattivi in base ad un banale pregiudizio classista.
(12) P.P. PASOLINI, "Lettera Luterana", in «Il Mondo», 30 ottobre 1975.
Ebbene, i “poveri” delle borgate romane e i “poveri” immigrati, cioè i giovani del popolo, possono fare e fanno effettivamente (come dicono con spaventosa chiarezza le cronache) le stesse cose che hanno fatto i giovani dei Parioli: e con lo stesso identico spirito, quello che è oggetto della tua “descrittività”. I giovani delle borgate di Roma fanno tutte le sere centinaia di orge (le chiamano “batterie”) simili a quelle del Circeo: e, inoltre, anch’essi drogati.
L’uccisione di Rosaria Lopez è stata molto probabilmente preterintenzionale (cosa che non considero affatto un’attenuante): tutte le sere, infatti, quelle centinaia di batterie implicano un rozzo cerimoniale sadico. (…) L’impunità di tutti questi anni per i delinquenti borghesi e in specie neofascisti non ha niente da invidiare all’impunità dei criminali di borgata.
Proseguendo con il confronto tra ricchi e poveri, tra borghesi fascisti e borgatari, Pasolini sostiene che l’impunità di cui tanto si parla a proposito dei tre pariolini neri, protetti dal privilegio sociale e da una magistratura compiacente, è la stessa impunità che viene goduta anche dai criminali di borgata; per fare un esempio, cita il caso dei fratelli Carlino, di Torpignattara, che godevano della stessa libertà condizionale dei pariolini.
La tesi sostenuta da Pasolini è certamente spiazzante.
Come abbiamo visto in precedenza, giornalisti di diverse testate hanno continuamente posto in contrapposizione i Parioli e la Montagnola, hanno descritto l’ambiente di provenienza, benestante e fascista, degli aggressori mettendolo in netto contrasto con la miseria e lo squallore del quartiere-dormitorio delle due ragazze.
Dopo tutti questi monotoni articoli, ci troviamo di fronte al paragone pasoliniano. Tra tutti i giornalisti e gli scrittori che hanno commentato i fatti del Circeo, Pasolini è l’unico che pone a confronto i Parioli e le borgate romane per affermare che non esistono sostanziali differenze tra i due contesti sociali. Posti vicini l’uno alle altre, egli vede affinità invece di differenze, similitudini invece di fratture abissali, elementi comuni invece di mondi estranei l’uno agli altri.
Criticando le tesi espresse da Calvino e dalla stampa italiana, Pasolini cambia prospettiva, propone un punto di vista nuovo, abbandona la contrapposizione ricchi-poveri, pariolini-borgatare e ci offre una descrizione, originale e sconcertante, delle periferie delle grandi città e dei loro abitanti. Squarcia il velo di indifferenza che circonda il mondo proletario e, confrontando il modo di agire dei ricchi con il modo di agire dei poveri, afferma che non c’è alcuna differenza, perché ci troviamo di fronte alla stessa violenza, alla stessa crudeltà, alla stessa impunità.
La tesi pasoliniana è una vera e propria voce fuori dal coro, destinata a rimanere tale; non ci sono stati commenti o discussioni a partire dalle sue considerazioni, nessuno ha raccolto la sua provocazione. Eppure, a più di trent’anni di distanza dall’episodio del Circeo, l’articolo di Pasolini, pubblicato pochi giorni prima del suo omicidio, avvenuto il 2 novembre 1975, è l’unico che ha ancora qualcosa da dirci oggi.
Dopo aver letto sempre le stesse parole, dopo aver analizzato interpretazioni ripetitive e poco convincenti in innumerevoli articoli, Pasolini ci presenta una realtà nuova, disturbante, in cui ricchezza e privilegio, fascismo e disprezzo non trovano posto.
La società tratteggiata dallo scrittore è una società pervasa dalla violenza, dal sadismo, dal sesso brutale, indipendentemente dall’appartenenza di classe. Non ci sono ambiti circoscritti, situazioni straordinarie, nelle quali la violenza si scatena, al contrario, la violenza è una presenza quotidiana, abituale sia tra i borgatari che tra i borghesi.
Anche se non nomina le donne, Pasolini intuisce la sistematicità e la diffusione del fenomeno della violenza contro le donne, fenomeno completamente ignorato dalla società italiana e denunciato con forza soltanto dal movimento femminista.
3. Una chiave di lettura diversa: la violenza sulle donne
Ad eccezione di Pasolini, dagli articoli selezionati emerge un’interpretazione politica del delitto del Circeo piuttosto ripetitiva. È un lungo articolo di Dacia Maraini, intitolato "La violenza contro le donne: una costante nel tempo. Rosaria e Donatella" (13), a darci una lettura dei fatti completamente diversa dalle precedenti, dato che tutta l’attenzione della scrittrice è rivolta verso le donne.
Il punto di vista di Maraini, le spiegazioni fornite ed i giudizi espressi, i concetti e i termini usati non sono neppure confrontabili con le opinioni che abbiamo considerato finora, perché ci troviamo di fronte ad una prospettiva radicalmente diversa.
Oggi l’Italia è in pianto per la giovane Rosaria seviziata e uccisa. Tutti si scagliano con uguale fervore contro i delinquenti fascisti chiamandoli “bruti”, “mostri”, “assassini senza cuore”. La televisione dedica una trasmissione speciale a questo fatto di sangue. I giornali e i rotocalchi fanno a gara a chi spreca più parole per lunghi articoli indignati e sentimentali. (…) A leggere i vari interventi però si avverte dappertutto una preoccupazione nascosta ma costante e monotona: che la ragazza fosse vergine e che si sia opposta con tutte le sue forze, non tanto contro la violenza assassina dei ragazzi, quanto contro il sesso in sé e per sé.
Per la prima volta, un lungo articolo a tutta pagina si occupa delle due ragazze, in particolare della vittima, Rosaria Lopez, che è posta al centro dell’attenzione e dell’analisi. Ai tre aggressori non viene dedicato spazio; tutto quello che è successo in quella villa fuori città ha portato alla morte di Rosaria ed è questo il fatto fondamentale da indagare e da capire.
Secondo Maraini, la curiosità degli italiani nei confronti della ragazza uccisa si concentra ossessivamente su un unico dettaglio: la sua verginità. È necessario essere sicuri che Rosaria fosse vergine per poterla compiangere. Solo in questo caso, gli italiani sono disposti a commuoversi per lei e a condannare i tre assassini, che volevano costringerla ad avere rapporti sessuali con loro. Rosaria ha veramente lottato, ha fatto di tutto per preservarsi, si è opposta in tutti i modi ai tentativi di violenza sessuale?
Tutti insistono su questa faccenda della “purezza”, della “pulizia” che naturalmente sono fatti puramente fisiologici, senza rendersi conto di quanto sia offensivo tutto questo per le due ragazze. Nessuno dice della morta che era buona, intelligente, onesta, forte, indipendente, allegra. Si insiste tetramente sulla sua verginità. Insomma l’Italia intera non vuole mettere mano al fazzoletto se non dopo essersi rassicurata che c’è stato un attentato alla virtù e all’innocenza, due cose che sono dimostrabili, secondo l’opinione pubblica, solo con la verginità.
La verginità, valore fondamentale nella cultura cattolica e nella società italiana, diventa l’elemento discriminante per stabilire chi sia veramente responsabile per ciò che è accaduto: soltanto se Rosaria è vergine, e di conseguenza virtuosa e innocente, la colpa ricade interamente sui tre aggressori.
A questo punto Maraini solleva un dubbio per provocare il lettore:
E se si fosse trattato di due ragazze che non tornavano a casa prima delle otto? Se si fosse trattato di due diciottenni che facevano l’amore con chi volevano e quando volevano perché faceva loro piacere? Quale sarebbe stata la reazione? Si sarebbe scatenata la stessa indignazione nazionale Oppure si tratta di una indignazione “condizionata” dalla garanzia che tutto è a posto: la ragazza è buona perché pura e difende la sua purezza.
I ragazzi sono cattivi perché insidiano questa purezza. Tutto normale insomma. Solo imprevisto: la morte.
La forte reazione dell’opinione pubblica dipende solo e soltanto dal fatto che Rosaria si è comportata come doveva comportarsi: ha difeso la propria verginità, ha combattuto contro i bruti che volevano fare sesso con lei. È andata a finire male, i mostri non sono stati teneri, l’hanno massacrata di botte, seviziata per ore, violentata e uccisa. La sua strenua resistenza, la sua ostinata opposizione le sono costate la vita ma il suo onore di ragazza rispettabile è salvo.
Maraini si dice certa di una reazione radicalmente diversa da parte dell’opinione pubblica nel caso in cui Rosaria non fosse stata vergine; dubbi, sospetti, insinuazioni, domande assillanti avrebbero inevitabilmente fatto la loro comparsa: come essere sicuri che non fosse consenziente? Chi può affermare con certezza che non sia stata lei a provocare i ragazzi? Probabilmente aveva accettato l’invito alla festa con l’intenzione di spassarsela con uno di loro o forse con tutti e tre e poi, all’improvviso, aveva cambiato idea.
Il fatto stesso di non essere casta e pura avrebbe gettato su di lei un pesante discredito, l’avrebbe esposta a giudizi malevoli e a critiche severe e l’avrebbe trasformata da vittima in parte in causa. Una ragazza così giovane con precedenti esperienze sessuali è indubbiamente una poco di buono, questa è la condivisa certezza da cui nascono i dubbi e le insinuazioni che diventano rapidamente giudizi severi e critiche feroci nei confronti della ragazza sfacciata.
Rosaria non può raccontare, non può difendersi, non può confermare o negare fatti e circostanze; per lei parla l’autopsia eseguita dai medici legali, che certifica la sua verginità e le ripetute sevizie inferte su di lei dagli assassini. Rosaria è, quindi, da compatire e da onorare; come si giudicano, invece, tutte le altre ragazze, quelle che, non essendo vergini, sono automaticamente delle poco di buono? Se una ragazza non illibata esce la sera, va a ballare, conosce un ragazzo carino e gentile e si allontana con lui; se i due si baciano ma, dopo i primi baci e le prime resistenze da parte di lei, la ragazza viene aggredita dallo sconosciuto, viene picchiata e costretta ad avere un rapporto sessuale, come si valuta la situazione? Di chi è la colpa?
La scrittrice riferisce quello che succede regolarmente nelle questure italiane: quando una donna si presenta di fronte ad un poliziotto e dichiara di essere stata aggredita, nel giro di pochi minuti la donna violentata diventa l’imputata, domanda dopo domanda si trasforma nell’accusata: il suo comportamento presente e passato, le sue frequentazioni, il suo stile di vita vengono messi in discussione, indagati e giudicati. In tutto questo, la responsabilità dell’aggressore diventa un dettaglio di scarso interesse, a causa della diffusa convinzione che se una donna viene aggredita è perché se l’è andata a cercare; se così non fosse, non sarebbe stata violentata.
Rosaria è stata uccisa, Donatella è stata ridotta in fin di vita: il loro è un caso straordinario, fuori dalla norma, che ha scosso l’opinione pubblica italiana. Maraini ritiene necessario andare oltre il delitto del Circeo e chiedersi che cosa succede abitualmente a tutte le altre, alle ragazze e alle donne italiane, né vergini né poco di buono, che vivono nelle città italiane: le donne, giovani e meno giovani, come si relazionano con gli uomini? Che tipo di rapporti hanno con i maschi?
A questo punto viene spontaneo chiedersi quanto siano sincere le lacrime di tutti questi italiani che d’altra parte non battono ciglio di fronte alle migliaia di casi di violenza che si compiono ogni giorno sulla donna. Se permettete, io a questa indignazione nazionale, a questo fiume di lacrime, non ci credo, anzi un poco me ne vergogno come di una manifestazione di ipocrisia dei miei connazionali. (…) Quello che nessuno ha detto è che la violenza sulle donne è un fatto quotidiano, comune, di massa. Nessun giornale ha parlato di questa violenza continuata, atroce, muta, ricattatoria, sottile, abituale che viene compiuta sul corpo e sull’anima delle donne. Una violenza che si consuma nelle famiglie, nei luoghi pubblici, nelle camere da letto, nelle strade, nei giardini pubblici.
Nonostante le dimensioni del fenomeno, il silenzio è profondo: non se ne interessano i mezzi di informazione, non se ne preoccupa la società civile, non ne parlano le donne direttamente coinvolte. Ecco allora che, per rompere il silenzio, il movimento femminista decide di scendere in piazza, più volte nei giorni successivi al massacro del Circeo; questo è il resoconto di una manifestazione che si è svolta a Roma:
le ragazze intervenute hanno parlato delle proprie esperienze quotidiane di violenza. Sono venute fuori cose inquietanti, nascoste, brucianti: ragazze di quattordici anni violentate dal padre, compagne aggredite e picchiate dai compagni di uno stesso gruppo politico, mogli picchiate a sangue dai mariti, ragazze inseguite e aggredite per la strada, bambine insidiate da amici di famiglia e parenti prossimi, sorelle sottomesse con la forza da fratelli maggiori, fidanzate brutalizzate da fidanzati gelosi, eccetera.
Le testimonianze forniscono un quadro d’insieme sconcertante; queste sono le conclusioni della scrittrice:
la violenza sulla donna è un esercizio quotidiano, così antico e abituale che non ce ne stupiamo più. Le donne poi non denunciano quasi mai le violenze subite, per paura, per complicità, per amore, per un malinteso senso del pudore, nonché per la solita scarsa fiducia in se stesse e nel mondo.
Nell’articolo di Dacia Maraini sono presenti molti spunti interessanti:
- il delitto del Circeo viene interpretato in base alla divisione dei ruoli sessuali e alla strenua difesa dell’onore da parte della vittima;
- gli italiani vengono criticati perché giudicano le donne e le dividono in buone e cattive in base al loro comportamento sessuale;
- i poliziotti vengono accusati di mettere in difficoltà le donne stuprate che intendono denunciare i loro aggressori;
- infine, vi è la denuncia, forte e chiara, del fenomeno della violenza contro le donne, che è un fenomeno costante e molto diffuso in tutta la società ma completamente ignorato.
È altrettanto interessante, in questo articolo, quello che non c’è: nulla, assolutamente nulla di ciò che altri giornalisti e altri scrittori hanno detto e ripetuto, trova spazio nelle riflessioni di Maraini.
Ci troviamo di fronte ad un nuovo modo di interpretare la realtà, ad un nuovo modo di vedere il mondo: quello che conta è il punto di vista delle donne. È Rosaria la protagonista della vicenda, è lei la figura emblematica che ha colpito l’opinione pubblica, è lei la ragazza, violentata e uccisa, che può rappresentare tutte le altre donne che vengono aggredite, picchiate, abusate e violentate quotidianamente dagli uomini.
Il massacro del Circeo segna profondamente l’immaginario collettivo italiano e le prime a rendersene perfettamente conto sono le femministe, intenzionate ad utilizzarlo come caso paradigmatico per far emergere, in tutta la sua drammaticità, il fenomeno, scomodo e disturbante, della violenza contro le donne.
Sono passati trentacinque anni da quel settembre del 1975 quando venne commesso il “delitto del Circeo”. Oggi possiamo dire che esso è rimasto nell’immaginario sociale italiano, in particolare nella storia recente delle donne.
Il libro di Sara Mascherpa ha il grande pregio di ricostruire tale storia proprio nell’ottica di quell’evento e dei suoi personaggi, gettando in questo modo una nuova luce sul presente. Il delitto del Circeo è stato uno degli spartiacque nel cammino di emancipazione delle donne italiane; ma ha svolto questo ruolo perché, nel momento in cui fu commesso, andò a intercettare correnti culturali e spinte verso il mutamento che già agitavano la nostra società sospingendola verso una migliore modernizzazione. Il clamore provocato, la scala nazionale nella quale il delitto venne subito riportato, il numero di commenti pubblicati dalla stampa si spiegano, in parte, con l’efferatezza delle azioni.
Quel terribile fatto di cronaca e la spontanea ondata emotiva da esso sprigionata ebbero in realtà anche la capacità di sintetizzare alcuni conflitti profondi che già scuotevano la società italiana, prestandosi così a varie “letture”:
- la lettura classista di una contrapposizione tra ricchi e poveri, quartieri borghesi e periferie urbane;
- la lettura femminista di una contrapposizione tra uomini e donne, predatori e oggetti sessuali;
- la lettura politica tipica degli anni della post-resistenza, di una contrapposizione tra rossi e neri, fascisti e antifascisti.
Fu per questo che alcune tra le migliori penne della cultura e del giornalismo italiano dell’epoca – tra le quali Italo Calvino, Pierpaolo Pasolini, Stefano Rodotà, Franco Ferrarotti, Dacia Maraini - si impegnarono nell’agone della cronaca, con esiti diversi.
Fu per questo spessore acquistato subito dal delitto nell’immaginario sociale di allora che i cinque protagonisti – due vittime e tre aggressori – diventarono non più solo persone, ma personaggi.
Da allora molte cose sono cambiate nella società italiana:
- la lettura politica degli eventi appare oggi datata;
- la lettura classista conserva una parte di verità: l’incontro di Rosaria e Donatella con i tre assassini sembra ancora oggi l’incontro tra lo svantaggio della vita di periferia e il vantaggio dell’istruzione e dei soldi, un incontro totalmente asimmetrico, sfruttato con ferocia dai tre;
- la lettura femminista ha preso vigore nel tempo.
Dal settembre del 1975, e ancora di più dall’anno successivo durante il quale si tiene a Latina il processo, il delitto del Circeo ha saputo rafforzare quell’onda di interesse nei riguardi della violenza contro le donne che ancora oggi, soprattutto oggi, mantiene la sua forza nell’opinione pubblica.
Sono, sì, ancora oggi, cinque volti tragici, ma il destino sociale si è ribaltato. Le vittime e in modo particolare Donatella Colasanti hanno occupato un posto di rilievo nell’immaginario femminile, offrendo negli anni e con la testimonianza un contributo positivo all’emancipazione. La sorte degli assassini è stata molto diversa: pur con vicissitudini distinte l’uno dall’altro, a volte rocambolesche, ognuno di loro ha rappresentato in modo vivido un’icona negativa di spietatezza e sopraffazione. La storia ha ristabilito la verità delle persone e delle loro azioni.
Il libro di Sara Mascherpa ricostruisce con cura tutto questo e, in conclusione, apre alcune piste di riflessione sullo studio della violenza contro le donne, un fenomeno sociale rispetto al quale la sensibilità dell’opinione pubblica è cresciuta. Se appare infatti chiaro il filo rosso che lega quegli eventi alle campagne e alle politiche sociali di oggi, altrettanto chiara è la necessità di dotarsi di categorie interpretative e politiche di intervento che tengano conto dei cambiamenti avvenuti:
- sappiamo che la violenza contro le donne si registra oggi in tutti gli strati sociali, non solo tra le classi più umili;
- sappiamo che donne con elevati livelli di istruzione e reddito non ne sono immuni;
- sappiamo che la tradizionale divisione dei ruoli maschile-femminile è stata rimessa in discussione e, almeno in parte, anche superata.
Per questo, il libro si conclude formulando nuove letture del fenomeno sociale e nuove proposte di interventi. A questo riguardo, il lavoro della ricerca empirica e dell’elaborazione teorica trova ancora campo aperto.
CAPITOLO I
Il delitto del Circeo (1975)
1. La ricostruzione dei fatti
Roma, nella notte tra il 30 settembre e il 1° ottobre del ’75, in via Pola, una strada di un tranquillo ed elegante quartiere borghese, vengono ritrovate due ragazze nel bagagliaio di una Fiat 127, avvolte in sacchi di plastica: una morta, l’altra quasi. I carabinieri sono arrivati sul posto solo perché una donna, che non riusciva a dormire, ha sentito dei lamenti provenire da una macchina. Le due ragazze sono Rosaria Lopez, 18 anni, e la sedicenne Donatella Colasanti. Arrivata all’ospedale, Donatella riuscirà a dare una prima testimonianza:
Mi avevano messo un laccio intorno al collo e tiravano, tiravano, e poi vedendo che non riuscivo a morire mi hanno presa a sprangate sulla testa e dicevano sempre: “Madonna, questa qui resiste troppo, quand’è che muore? Casomai dopo gli diamo una pistolettata”. Quando mi hanno messa nel portabagagli, hanno detto: “Finalmente è morta”.
Poche ore dopo Donatella riesce a fornire particolari sufficienti per individuare i responsabili: sono Gianni Guido, 20 anni, figlio di un dirigente bancario (la 127 era quella di suo padre), Angelo Izzo, 17 anni, figlio di un ingegnere costruttore, e Andrea Ghira, 22 anni, anch'egli figlio di un costruttore. I primi due vengono immediatamente arrestati, mentre Ghira riesce a fuggire. Nessuno lo prenderà mai più.
Ma chi sono Guido, Izzo e Ghira? Loro stessi si definiscono fascisti. Ghira, in particolare, teorizza il crimine come mezzo legittimo di affermazione sociale.
Questa breve sintesi dei fatti è tratta dal sito della trasmissione Rai “La storia siamo noi” (www.lastoriasiamonoi.rai.it).
Di seguito la ricostruzione della vicenda, così come viene raccontata da Donatella Colasanti:
Tutto è cominciato una settimana fa, con l’incontro con un ragazzo all’uscita del cinema che diceva di chiamarsi Carlo, lo scambio dei numeri di telefono e la promessa di vederci all’indomani insieme ad altri amici. Con Carlo così, vengono Angelo e Gianni, chiacchieriamo un po’, poi si decide di fare qualcosa all’indomani, io dico che non avrei potuto, allora si fissa per lunedì. L’appuntamento è per le quattro del pomeriggio. Arrivano solo Angelo e Gianni, Carlo, dicono, aveva una festa alla sua villa di Lavinio, se avessimo voluto raggiungerlo… ma a Lavinio non arrivammo mai. I due a un certo punto si fermano a un bar per telefonare a Carlo, così dicono; quando Gianni ritorna in macchina dice che l’amico avrebbe gradito la nostra visita e che andassimo pure in villa che lui stava al mare. La villa era al Circeo e quel Carlo non arrivò mai.
I due si svelano subito e ci chiedono di fare l’amore, rifiutiamo, insistono e ci promettono un milione ciascuna, rifiutiamo di nuovo. A questo punto Gianni tira fuori una pistola e dice: “Siamo della banda dei Marsigliesi, quindi vi conviene obbedire, quando arriverà Jacques Berenguer non avrete scampo, lui è un duro, è quello che ha rapito il gioielliere Bulgari”. Capiamo che era una trappola e scoppiamo a piangere. I due ci chiudono in bagno, aspettavano Jacques.
La mattina dopo Angelo apre la porta del bagno e si accorge che il lavandino è rotto, si infuria come un pazzo e ci ammazza di botte, e ci separano: io in un bagno, Rosaria in un altro. Comincia l’inferno. Verso sera arriva Jacques. Jacques in realtà era Andrea Ghira, dice che ci porterà a Roma ma poi ci hanno addormentate. Ci fanno tre punture ciascuna, ma io e Rosaria siamo più sveglie di prima e allora passano ad altri sistemi. Prendono Rosaria e la portano in un’altra stanza per cloroformizzarla dicono, la sento piangere e urlare, poi silenzio all’improvviso. Devono averla uccisa in quel momento.
A me mi picchiano in testa col calcio della pistola, sono mezza stordita, e allora mi legano un laccio al collo e mi trascinano per tutta casa per strozzarmi, svengo per un po’, e quando mi sveglio sento uno che mi tiene al petto con un piede e sento che dice: “Questa non vuole proprio morire”, e giù a colpirmi in testa con una spranga di ferro. Ho capito che avevo una sola via di uscita, fingermi morta, e l’ho fatto.
Mi hanno messa nel portabagagli della macchina, Rosaria non c’era ancora, ma quando l’hanno portata ho sentito chiudere il cofano e uno che diceva: “Guarda come dormono bene queste due”.
La stampa italiana dedica al delitto del Circeo ampio spazio fin dall’inizio, dal giorno del ritrovamento del cadavere di Rosaria e di Donatella, la sopravvissuta; nei giorni successivi l’attenzione dei mass media è costante, anzi cresce. Non solo i quotidiani a diffusione nazionale ma anche i settimanali d’attualità («Panorama», «L’Espresso», «Il Mondo», «L’Europeo») se ne occupano, pubblicano approfondimenti, inchieste e articoli di commento, affidati alle firme più prestigiose del giornalismo italiano.
L’attenzione, la curiosità, l’indignazione, lo stupore degli italiani vengono alimentati da informazioni giornaliere. Troviamo articoli dedicati al delitto del Circeo in prima pagina, nelle pagine di cronaca o in entrambe, corredati da foto, quasi tutti i giorni, a partire dal 1° ottobre 1975 e per quasi tre settimane, come riassunto nella tabella riportata in appendice, al termine di questo capitolo.
La quantità di articoli pubblicati testimonia la straordinaria attenzione che il caso del Circeo attira su di sé; i lettori ricevono continuamente aggiornamenti, dettagli e novità su tutto ciò che riguarda la vicenda.
I maggiori quotidiani italiani seguono, giorno dopo giorno, le prime ricostruzioni dell’accaduto, dall’appuntamento a Roma fino al ritrovamento delle ragazze nel bagagliaio dell’auto, descrivono minuziosamente le ore di terrore trascorse all’interno della villa, le minacce, le sevizie e le violenze perpetrate contro le due giovani. In base all’autopsia effettuata sul corpo di Rosaria, i medici legali stabiliscono che è morta per annegamento.
Articoli più o meno lunghi ragguagliano circa le indagini in corso, il coinvolgimento e gli interrogatori di altri ragazzi, presunti complici e accusati di favoreggiamento; riferiscono della latitanza di Ghira e del ritrovamento della sua auto ed anche delle perizie relative all’assunzione o meno di stupefacenti (si parla di eroina e di anfetamine) durante il festino nella villa.
Diversi giornalisti forniscono il ritratto dei colpevoli, la descrizione del quartiere Parioli - dove sono nati e cresciuti i tre amici - e dell’ambiente che frequentano abitualmente; descrivono i locali e i bar in Piazza Euclide e in Piazza delle Muse, in cui i “pariolini neri”, i “picchiatori fascisti”, autori di intimidazioni, di assalti e di pestaggi nei confronti di “studenti democratici”, solitamente si ritrovano. Raccolgono le dichiarazioni degli amici dei colpevoli o degli abitanti del quartiere; elencano i loro precedenti penali, le condanne che hanno già collezionato, nonostante la giovane età, e mettono in evidenza l’impunità di cui hanno sempre goduto in passato.
Durante il mese di ottobre, i lettori dei giornali ricevono notizie circa il sopralluogo nella villa del Circeo, che viene più volte rimandato e vengono informati sull’elenco delle accuse formulate contro i tre ragazzi e sulle manovre dei loro avvocati difensori, manovre che possono spiegare le lungaggini circa l’assegnazione del processo al tribunale di Roma o al tribunale di Latina. Il conflitto di competenza territoriale si risolve a favore del tribunale di Latina, dato che il reato più grave, l’omicidio volontario di Rosaria Lopez, è avvenuto a San Felice Circeo, che si trova in provincia di Latina. Infine, viene dato risalto alla polemica, che cresce di giorno in giorno, circa il trattamento di favore, la speciale “protezione” di cui hanno goduto i tre ragazzi, già accusati in precedenza di reati simili e rimessi rapidamente in libertà.
I protagonisti: aggressori e vittime
I veri protagonisti di questa storia sono i cattivi; nei confronti dei tre ragazzi, colpevoli dell’omicidio di Rosaria e del tentato omicidio di Donatella, si concentra l’attenzione di quotidiani e settimanali, per tentare di capire come sia stato possibile che dei giovani, ricchi e privilegiati, si siano accaniti con tanta brutalità su due ragazze, povere e indifese.
Si domanda chi siano Cristina Mariotti, su «L’Espresso» (1): Li chiamano “i ragazzi della via Pola”. Abitano nello stesso quartiere, sono andati nella stessa scuola, hanno tutti le stesse abitudini, le loro famiglie si somigliano tutte l’una all’altra.
Chi sono? Anormali, delinquenti comuni o i figli assassini di una classe corrotta?
Sono molti i giornalisti che tentano di fornire una risposta esauriente a questo interrogativo. Per farsi un’idea dei tre pariolini neri, è indispensabile iniziare dai fatti ed analizzare il loro recente passato.
(1) C. MARIOTTI Io uccido, poi passa papà a pagare, in «L’Espresso», 12 ottobre 1975.
Nell’articolo “Razza fascista”, apparso su «Panorama» (2), troviamo il resoconto dei precedenti penali di Izzo e Ghira:
Andrea Ghira: arrestato nel 1973 per la rapina in casa di un ingegnere di via Panama fu condannato a 8 anni. Dopo 18 mesi di carcere, 10 giorni prima dell’orgia del Circeo, era di nuovo a spasso grazie a un provvedimento di libertà provvisoria. Prima della rapina aveva collezionato una sfilza di denunce: violazione di domicilio, lesioni personali, porto abusivo d’arma da fuoco, ricettazione, furto aggravato, sostituzione di persona. Il suo nome è inoltre da tempo segnalato tra gli spacciatori di droga pesante negli ambienti neofascisti della capitale.
Per Angelo Izzo la specialità invece è sempre stata la violenza carnale: il 2 marzo 1974, ancora studente del San Leone Magno, costrinse sotto la minaccia di una pistola una minorenne a subire atti di libidine. La stessa sorte nove mesi dopo l’ha riservata a un’altra ragazza di 18 anni. Per tutti e due i reati Izzo è stato condannato nel maggio scorso a due anni. Il regalo del giudice della condizionale, però, gli ha permesso, mercoledì primo ottobre, di partecipare al tragico festino del Circeo.
«L’Europeo» (3) pubblica tre articoli, raccolti sotto un unico, grande titolo La violenza ai Parioli: nel primo, dall’esplicito titolo "Il privilegio e la legge", scritto da Giuliano Ferrieri, si afferma che ben ferme restando le responsabilità dei singoli colpevoli, altre e gravi ne vanno ricercate di ambiente e di costume, di politica e di omertà - posizione che, come vedremo in seguito, viene sostenuta da numerosi ed autorevoli giornalisti e scrittori.
Gli altri due articoli, invece, descrivono il quartiere romano da cui provengono i protagonisti del criminoso festino nella villa al mare.
Duilio Pallottelli firma "Ritratto di un quartiere", un lungo articolo in cui vengono descritte le frequenti azioni dei picchiatori fascisti, continuamente attivi ai Parioli, e vengono intervistati alcuni abitanti della zona: una signora che manda i suoi due figli in un istituto privato “fuori zona”, il giovane prete della parrocchia di San Bellarmino, alcuni studenti del Liceo Scientifico Azzarita e del Liceo Classico Mameli.
(2) Razza fascista, in «Panorama», 16 ottobre 1975.
(3) G. FERRIERI, "Il privilegio e la legge"; Duilio Pallottelli, Ritratto di un quartiere; Claudio Lazzaro, "Parla un pariolino", in «L’Europeo», 17 ottobre 1975.
Ecco parte delle interviste:
una studentessa del liceo scientifico Azzarita (una delle scuole più bersagliata dai fascisti) spiega: “All’interno di questo quartiere c’è una doppia componente. Oltre ai ricchi ci sono i miserabili. Pensi ai figli dei portieri, ai figli dei piccoli impiegati che sono finiti, per un motivo o per l’altro, a vivere quassù. Tutta questa gente è irrimediabilmente attratta dalle abitudini, dal modo di concepire la vita, dalla filosofia dei ricchi. Specialmente le ragazzine.
Alle ragazze loro dicono: tu ti salvi perché sei una donna, quindi non pigli botte. Però se vuoi stare con noi devi fare esattamente quello che ti chiediamo. E chiedono di tutto, creda a me. Ogni tipo di porcheria, ogni depravazione. Molte accettano. Non riescono a resistere al fascino dell’ambiente più elevato. Credono di fare un passo avanti. È un po’ il caso della tragedia del Circeo, anche se quelle poverette non abitavano ai Parioli, ma stavano in borgata. E per questi fascisti la “borgatara” deve fare di tutto: è un giocattolo qualsiasi. Le donne del loro stampo, invece, le trattano con tutte le cure e il rispetto possibili. Le difendono con ferocia. Ho visto dei poveracci mandati all’ospedale solo perché avevano lanciato un’occhiata troppo audace a una pariolina. Quindi siamo davanti al razzismo puro. I poveri maschi invece vengono usati, quando sono accettati, come truppa d’assalto, come carne da macello. E devono ubbidire.”
Oltre a questo scenario classista, presentato dalla studentessa liceale, una seconda ragazza intervistata parla esplicitamente dell’uso di stupefacenti:
Con la questione delle droghe bisogna starci attenti; qualcuno cerca di giustificarli perché si drogano. Cercano anche di giustificare l’ultimo orrendo delitto del Circeo con la scusa della droga. La droga è un fatto marginale. Essi non sono violenti perché si drogano, sono semplicemente dei violenti che fanno uso di stupefacenti.
Colpisce la nettezza di giudizio: la droga non è che una scusa, è un elemento irrilevante per spiegare il tragico epilogo dell’orgia nella villa del Circeo.
Sempre su «L’Europeo», in "Parla un pariolino", il giornalista Claudio Lazzaro racconta così la sua indagine conoscitiva nel quartiere romano, balzato improvvisamente alla ribalta della cronaca:
A Piazza delle Muse siamo venuti per conoscere i pariolini, per capire fino a che punto il contesto di questa piazza San Babila romana può produrre gli incubi della nostra società: i delitti come quello del Circeo.
Parlo con un gruppo di questi ragazzi. Hanno delle idee su quanto è successo al Circeo. “I peggiori”, dicono, “sono quelli sotto i vent’anni. La nuova generazione è la più cattiva. Hanno bisogno di mostrarsi duri, se picchiano una donna poi se ne vantano. Devono emergere, farsi notare in qualche modo: passano su un gippone, in gruppo, cantando inni fascisti, ma neanche sanno cos’è il fascismo.”
Tramite uno di questi ragazzi, il giornalista riesce a mettersi in contatto con un vero pariolino, uno rappresentativo, che lo riceve a casa sua, in Viale Parioli; ecco come si presenta il giovane: ha diciannove anni, alto, col fisico da lottatore agile. E questo è un breve estratto della loro conversazione; il giornalista gli chiede:
i giovani pariolini sono in maggioranza di destra e hanno utilizzato la violenza organizzata come mezzo di intimidazione politica?
“Certo in questa storia entra anche la violenza nera. Quella dei gruppi di estrema destra, come Lotta di Popolo, ai quali erano stati collegati alcuni degli imputati per il delitto del Circeo. Ma io non so fino a che punto a vent’anni uno abbia la coscienza di giocarsi la pelle per un’idea politica. Secondo me sono solo ragazzi che cercano di affermare la propria personalità con la forza. Più uno è violento, più uno esiste.
Conosco la formula: ‘Ma tu hai paura di fare una cosa del genere? Che uomo di merda?’
Sono sicuro che anche nella villa del Circeo questa formula ha funzionato: ognuno dei tre probabilmente temeva che l’altro lo considerasse una cacasotto. Dopo il primo schiaffo ognuno picchiava più forte per dimostrare che valeva di più.”
Se davvero, come afferma il vero pariolino, più uno è violento più uno esiste, i tre giovani hanno commesso violenze di ogni tipo non solo per dimostrare la propria forza, la propria capacità di dominio ma, principalmente, per costruirsi un’identità, per affermare la propria esistenza all’interno del gruppo, sotto lo sguardo giudicante degli altri due, in un gioco al rialzo difficile da interrompere. Chi tra loro, alla fine della trasferta fuori città, si è dimostrato un vero duro? Chi ha dato prova di essere il migliore dei tre?
Oltre agli articoli che si occupano dei colpevoli e dell’ambiente da cui provengono, la stampa rivolge la propria attenzione anche alle due ragazze: Rosaria, la vittima, e Donatella, la sopravvissuta, ricoverata in ospedale.
I giornalisti si recano alla Montagnola, quartiere povero e periferico di Roma, dove abitano le due giovani, per incontrare i familiari e i parenti della vittima e Nadia, l’amica di Donatella che, con una scusa, aveva rifiutato l’invito dei “pariolini”.
Maria R. Calderoni, in "Quando la periferia diventa un ghetto" (4), descrive così Rosaria e il suo mondo:
Apparteneva a una famiglia di origine siciliana, di piccola borghesia ministeriale. Il padre, settantacinquenne, impiegato del catasto, ora in pensione fa un ritratto affettuoso di questa sua ultima figlia, “moderna, ma con un suo forte orgoglio, autonoma ma non scapestrata”. Oggi, in questa casa, la disgregazione si nota a occhio nudo, nelle due stanzucce e nel corridoio-budello che la compongono, i muri stinti, i mucchi di biancheria per terra, la specchiera rotta, le scarpe qua e là.
La disgregazione più acuta, tuttavia, non è negli oggetti; è nell’aria stampata sui volti delle persone che abitano la casa: su quello della madre, 59 anni, ma da venti in stato di abulica dissociazione mentale; su quello della sorella Teresa, diplomata maestra elementare, anch’essa in preda a squilibri psichici; su quello un po’ allucinato del fratello Emanuele: come una barca malferma che sta in piedi a fatica, che nessuno più s’è curato di raddrizzare. Tanto meno la spietata realtà di un quartiere dove ogni famiglia ha i suoi guai tangibili e cataloga semplicemente come un “po’ matta” questa gente.
La Montagnola è un quartiere abitato da persone che hanno tanti guai e difficoltà di ogni genere da affrontare ogni giorno; Rosaria Lopez è una giovane ragazza che proviene da una famiglia molto numerosa - è l’ultima di otto figli - una famiglia segnata dal disagio mentale, a cui nessuno offre un aiuto, né i vicini troppo presi dai loro problemi né i servizi sociali assenti dal quartiere.
(4) M.R. CALDERONI, "Quando la periferia diventa un ghetto", in “L’Unità”, 3 ottobre 1975.
Sono questi i primi elementi utili per ricostruire il contesto in cui viveva Rosaria.
Così viene descritta fisicamente: piccola, minuta, ben fatta ma non sconvolgente, mai truccata, vestiva “come tutti noi”, jeans e magliette, un berretto sui capelli per le volate in motorino.
E questa è la sua carriera scolastica e lavorativa: licenzia media, un corso di formazione professionale, cassiera in un bar per un po’ di tempo, quindi la ricerca di un lavoro qualsiasi.
È il ritratto di una ragazza che conduce una vita semplice, modesta, conosciuta da tutti nel quartiere, nessun pettegolezzo, nessuna maldicenza; qualche aneddoto, piuttosto, frammenti di vita quotidiana:
Aveva fame di affetto: dai colloqui con i ragazzi del quartiere, con le ragazze sue coetanee, viene fuori un ritratto semplice, persino banale.
Non c’è quasi niente da dire, una storia senza rilievi. Squarci significativi illuminano la sua ansia di andar via, di riscattarsi. “Aveva sempre fame, a casa sua non trovava mai nulla da mangiare”. “Io l’ho frequentata fino a due anni fa - dice uno studente seduto al bar in piazza - ; andavamo in un prato dietro al Campidoglio e lì si parlava, si parlava. Aveva grossi problemi esistenziali e sentimentali: cercava un appoggio. E nemmeno aveva fama di “quella che tutti si fanno”, tutt’altro.”
Gli amici la difendono, raccontano di lei con tenerezza e semplicità, e definiscono calunnie le strane storie che girano sul suo conto, dopo la sua tragica morte.
L’assurda fine di Rosaria (nuda, il viso massacrato, rinchiusa dentro un bagagliaio, così come la mostrano alcune spietate immagini), l’ha consegnata a curiosità malsane, a mormorii morbosi che è facile riempire di insinuazioni. Dalle parole degli amici e dei conoscenti emerge un ritratto che nulla ha a che fare con una vita disordinata, con un comportamento frivolo o degradante, con frequentazioni compromettenti; piuttosto, viene fuori tutto il contrario ed è per questo che, nel suo quartiere, l’impressione è enorme; c’è in giro pietà, non scandalo; soprattutto, tra i ragazzi, c’è un grande e doloroso stupore.
È difficile trovare una spiegazione convincente ed accettare ciò che è successo, è difficile associare Rosaria, una ragazza semplice e modesta, con un festino in una villa fuori città a base di droga, sesso e violenza. Quello che è successo è quasi incomprensibile: perché allora quella “leggerezza”, quell’imprudenza improvvisa, un pomeriggio di lunedì, che sembra distruggere in un attimo questo ritratto di ragazza saggia? Di quale abbaglio è stata vittima? Quale verità è ancora da cercare?
Rosaria, ragazza senza radici, forse è solo colpevole di aver affidato ad una spider lucente e ad un delinquente vestito da ragazzo-bene, il suo infantile sogno di rivincita.
La stampa racconta il dolore e lo sconcerto degli abitanti della Montagnola, sentimenti che sono apparsi evidenti durante il funerale di Rosaria.
Cristina Mariotti, in "Io uccido, poi passa papà a pagare", ci racconta come si presenta la Montagnola, la borgata in cui Rosaria viveva, il giorno del suo funerale: i muri della zona sono tappezzati di manifesti mortuari, voluti dalla famiglia della vittima:
Nelle “partecipazioni di morte” che la famiglia Lopez ha voluto affiggere all’uso paesano sulle case della Montagnola, lo squallido rione-dormitorio
che nasce sulla Cristoforo Colombo poco più sotto del quartiere modello dell’Eur, si legge che “Rosaria, 18 anni, è stata barbaramente uccisa dalla “Gioventù della Roma-bene”. Un’attribuzione generica e quindi incompleta (della Roma bene e fascista sarebbe stato più esatto) ma che serve a mettere in rilievo i connotati classisti di questo delitto.
La distanza sociale e politica esistente tra i Parioli e la Montagnola, tra i pariolini ricchi, privilegiati e fascisti, e le borgatare, proletarie e povere, viene costantemente sottolineata nella cronaca nazionale.
Queste sono le parole pronunciate dall’ex parroco della Montagnola, don Pietro Orcelli, nel corso dell’omelia funebre:
Da una parte questi straricchi pariolini che tutto possono e che tutto hanno; fannulloni, privilegiati, debosciati, protetti dal denaro e da una magistratura con sedimenti fascisti, gratificati sempre della libertà provvisoria di una smaccata evasione fiscale, padroni di macchine e di case. Dall’altra la gente dei quartieri di periferia per la quale c’è la fiscalizzazione di tutto e c’è la miseria e non ci sono le case. Quelli possono spendere, possedere ville, ammazzare, coltivare il sadismo... Sia Rosaria a trenta anni dalla Resistenza a frenare il dilagare del fascismo violento.
Il vecchio parroco mette in evidenza l’enorme distanza che c’è tra due classi sociali, tra due quartieri, tra due veri e propri mondi, presenti nella stessa città, territorialmente vicini ma, in realtà, lontanissimi tra loro.
Ritroviamo considerazioni simili nell’articolo del sociologo Gianni Statera che, su “Il Messaggero” (5), scrive:
Quanto è accaduto nella villa di San Felice ha un significato emblematico: due mondi che solo fisicamente convivono in una città frammentata e profondamente dilacerata nel suo tessuto sociale, collidono drammaticamente; e a soccombere è il mondo di chi vive in due stanze di periferia. I predoni si scoprono per tali, si scatenano contro il diverso, l’ “altro” per sesso, estrazione sociale, visione del mondo; l’attitudine alla prevaricazione e alla sopraffazione che è dei padri si fa, nei figli, determinazione irresponsabile alla umiliazione, alla distruzione, alla cancellazione dell’altro, sia esso il “rosso” o la ragazza di periferia.
L’episodio, in sé esecrabile, insegna molte cose, insegna che la grassa borghesia dell’incultura, dello scempio edilizio e della connivenza col
potere, produce mostri; che la disgregazione del tessuto sociale della città ha raggiunto l’estremo limite.
La contrapposizione tra classi sociali che ci viene continuamente proposta, dal parroco durante il funerale di Rosaria, dai giornalisti, dai commentatori, appare oggi un po’ datata. È davvero questa la chiave di lettura del delitto del Circeo? È la marxiana lotta di classe che ci spiega la morte di Rosaria? O è il mito fascista dell’uomo forte e autoritario, che disprezza le donne, che ci permette di capire il sequestro di due ragazze, le sevizie protratte e l’intenzione dei tre “pariolini neri” di uccidere entrambe?
Queste interpretazioni “politiche” non sembrano avere retto alla prova del tempo; leggendole oggi, appaiono decisamente superate. Tuttavia, scorrendo gli articoli dedicati al delitto del Circeo, troviamo continuamente questa interpretazione classista e ideologica dei fatti.
(5) G. STATERA, "I simboli falsi imposti dai mostri", in “Il Messaggero”, 4 ottobre 1975.
2. L’interpretazione della stampa italiana
Oltre agli articoli di cronaca, rivolgiamo ora l’attenzione agli editoriali che appaiono sulle prime pagine dei quotidiani nazionali e anche sui settimanali di attualità, firmati dei più importanti giornalisti e scrittori italiani.
Iniziamo da tre articoli di Lietta Tornabuoni, Antonio Capranica e Stefano Rodotà, che presentano riflessioni piuttosto simili tra loro.
Sul “Corriere della sera”, in prima pagina, compare l’articolo "Roma male", di Lietta Tornabuoni (6), che descrive così i tre colpevoli:
“Ragazzi della Roma-male, figli di ricchi professionisti, facce carine, pullover alla moda, belle automobili, belle case, belle estati: e, dietro, tutto il nero brulicare che può fare d’un ragazzo un assassino”.
In questa descrizione ci sono i soliti elementi, che sono già stati indicati in precedenza da altri giornalisti: la ricchezza, l’appartenenza sociale e quella politica. La violenza fa parte della vita quotidiana, le azioni organizzate dai gruppi di estrema destra (a cui i tre pariolini appartengono), gli assalti e i pestaggi continui contro gli avversari politici rendono abituale l’uso della violenza, che è considerata un mezzo di affermazione personale, un modo per emergere, per distinguersi dagli altri.
L’arroganza dei soldi e il disprezzo per le donne, specialmente per quelle più povere, viste come esseri senza volontà né sentimenti propri, come oggetti di divertimento da raccattare per strada, prendere, costringere, violentare, massacrare di botte se fanno storie, se non ci stanno oppure s’azzardano a ribellarsi.
Arroganza e disprezzo per le donne sono tratti distintivi della personalità di Angelo Izzo e di Gianni Guido, che già in precedenza si erano resi protagonisti di reati analoghi.
Il vuoto di vite velleitarie, torpide, trascinate nella noia, viziate dal benessere, senza moralità. La furia irosa di chi non rispetta nessuno e non ammette ostacoli alla propria prepotenza. E alla fine, magari, la droga: per esaltarsi e darsi forza. Gli ultimi eredi della “dolce vita” sono neri, e ammazzano. La crisi, la disgregazione della società, l’arroganza del privilegio sociale, l’assenza di valori lascia spazio alla violenza come valore assoluto.
(6) L. TORNABUONI, "Roma male", in “Corriere della sera”, 2 ottobre 1975.
La conclusione di Tornabuoni è il solito atto di accusa nei confronti della società che si ritrova spesso nei commenti giornalistici ai fatti più eclatanti di cronaca nera. Il generico riferimento ad un sistema in crisi, disgregato e privo di valori sembra essere un alibi che giustifica anche i gesti più efferati, come quelli compiuti dai tre autori del delitto.
Sempre in prima pagina, su “L’Unità”, Antonio Capranica titola il suo articolo di fondo "Squadristi dal “fausto avvenire” di assassini" (7):
Gli squadristi assassini di Rosaria Lopez hanno scelto il silenzio. Un’autoaccusa evidentemente. Ma ancor più un ennesimo gesto di sprezzo verso le loro vittime, una arrogante riaffermazione di “superiorità” anche di fronte alla giustizia. L’impunità goduta dalla loro carriera di picchiatori sembra rassicurarli sui rigori di una legge che gli ha sempre presentato il volto benigno di una paterna tolleranza. Il ghigno sulle labbra di Izzo appena arrestato: “Che mi importa? Tra dieci anni sarò fuori, potrò ancora andare a donne.” Il tranquillo conversare di calcio coi carabinieri di scorta di Gianni Guido. Il commento degli amici del “giro” dei bar dei Parioli e di Corso Trieste “è stata pura sfortuna”.
Compare subito, all’inizio dell’articolo, il termine impunità, l’elemento principale della lettura dei fatti che viene proposta da Capranica. Gli assassini non temono la punizione della giustizia, non hanno nessun dubbio sul trattamento di favore che gli sarà riservato, per il semplice motivo che, in passato, i giudici sono già stati particolarmente comprensivi nei loro confronti.
Nei mesi precedenti se la sono cavata con poco, anche questa volta non andrà tanto male, di questo sono convinti Angelo Izzo e Gianni Guido, catturati immediatamente; il terzo aggressore, Andrea Ghira, è latitante.
I due ragazzi arrestati non parlano, non è necessario, spetta ai loro avvocati occuparsi delle accuse e gestire i rapporti con i giudici; loro, i colpevoli, gli assassini, non hanno nulla da dichiarare, nulla da spiegare, e soprattutto nulla di cui pentirsi. Si sentono intoccabili, protetti e appoggiati dai contatti giusti, dalle conoscenze che contano e fanno affidamento sulla compiacenza dei giudici, perché sono figli di una classe privilegiata che vive, indisturbata, secondo regole diverse da quelle fissate dalla legge:
I figli della borghesia parassitaria, sviluppatasi all’ombra del sacco urbanistico di Roma, sono i discendenti dei dignitari del regime mussoliniano, cresciuti nelle case agiate di Corso Trieste o dei Parioli. Il denaro, il lusso, le macchine e le ville autorizzano alla fiducia.
(7) A. CAPRANICA, Squadristi dal “fausto avvenire” di assassini, in “L’Unità”, 5 ottobre 1975.
Secondo Capranica, i “pariolini” costituiscono una casta, una classe sociale chiusa, che si distingue da tutte le altre per nascita, per ricchezza, per privilegi goduti. Di conseguenza, il trattamento riservato dai giudici ai membri della casta sarà un trattamento di riguardo.
Non conta che proprio nell’ozio e nella noia di questa vita dorata maturino le aggressioni squadristiche, la torpida abitudine alla violenza sui “diversi”, il disprezzo verso gli esclusi dalla propria casta reputata “superiore”. (…) tutto si fa “oggetto”, da prendere, usare, gettare via.
Anche la sventurata ragazza povera e inquieta, a cui una sera, poco più di una settimana fa, Parboni Arquati offre un passaggio sulla sua lussuosa "Citroen Pallas”. Se si rifiuta, se si oppone, c’è la violenza.
Questo il ritratto giornalistico di Giampiero Parboni Arquati:
amico e complice dei tre responsabili, è uno squadrista nero, 20 anni, anche lui rampollo della “Roma bene”, soltanto un anno prima in una villa di Monte Porzio seviziò e violentò una ragazzina di sedici anni insieme al suo amico e camerata Angelo Izzo.
L’ordine di cattura parla di ratto a fine di libidine (8).
Ecco ricomparire un elemento fondamentale, utilizzato da molti giornalisti, per spiegare il delitto del Circeo: il disprezzo nei confronti dei diversi ovvero di coloro che non appartengono alla “casta superiore”; gli esclusi, i diversi sono gli “studenti democratici”, i “rossi”, le ragazze di borgata. Il disprezzo nutrito nei loro confronti porta, come inevitabile conseguenza, all’aggressione e alla violenza. Se una donna, ad esempio, si oppone alle richieste di un pariolino, viene umiliata, picchiata, annichilita; perché una donna è un essere inferiore, che deve sempre obbedire ed eseguire immediatamente ciò che le viene ordinato di fare. Per un pariolino nero è inaccettabile una manifestazione di resistenza, una contestazione o un rifiuto da parte di una donna.
Perché viene dato per scontato che il disprezzo porti, sempre e comunque, all’aggressione e alla violenza? Perché viene considerato “normale” dividere le persone in esseri superiori e esseri inferiori? Perché, insomma, non si cerca di trovare delle spiegazioni meno superficiali, che vadano oltre la descrizione degli eventi?
Forse non spetta ad un giornalista trovare delle risposte adeguate a casi di questo tipo ma quello che sorprende è il fatto che la realtà venga presentata sempre nello stesso modo ovvero che la chiave di lettura proposta sia continuamente lo scontro tra fascisti ricchi e ragazze povere.
Stefano Rodotà, in "Chi dà spazio ai teppisti" (9), amplia un po’ la visione delle cose e prende una posizione molto netta nei confronti dei responsabili diretti e, soprattutto, indiretti del delitto del Circeo:
Non era certo necessario attendere il selvaggio assassinio di una ragazza romana per scoprire la matrice fascista di tanta delinquenza comune.
Sono anni che le cronache registrano puntualmente questo fatto.
Perché insisto particolarmente su questo punto, rischiando l’accusa di voler esasperare l’interpretazione politica della vicenda che ha condotto alla morte di Rosaria Lopez? Perché ho l’impressione che molti dei giudizi dati in questa occasione - mettendo l’accento sul denaro facile, sul permessivismo dei genitori, sulla scuola incapace di trasmettere i valori - si preoccupino soltanto di spiegazioni generali, annacquando o facendo passare in secondo piano le responsabilità specifiche di persone o di organi dello Stato.
Rodotà ritiene insufficienti, insoddisfacenti le interpretazioni incentrate in modo eccessivo sui protagonisti del massacro e sull’ambiente nel quale sono cresciuti e suggerisce una visione d’insieme più articolata e più complessa:
È vero. Quei bravi giovani borghesi sono stati abituati all’impunità dall’aria che si respira in famiglie in cui l’evasione fiscale è la regola e le fortune si edificano sulle speculazioni edilizie o valutarie. Ma essi non hanno soltanto assorbito quasi inconsapevolmente questo abito di vita, che li portava a ritenere valide solo le regole dettate dal loro capriccio o interesse: giorno dopo giorno, grazie alla benevolenza della polizia e della magistratura, hanno sperimentato quell’impunità anche in prima persona e hanno così finito col ritenere che essa avrebbe continuato a coprire qualsiasi manifestazione della loro vita violenta.
Anche per Rodotà, l’impunità è un elemento centrale per comprendere il comportamento dei pariolini neri. Vengono chiamate direttamente in causa la polizia e la magistratura, colpevoli di aver già favorito, in passato, gli assassini di Rosaria.
L’attacco di Rodotà si basa su fatti precisi:
Sulle imprese teppistiche di fascisti giovani e meno giovani, e sul fitto tessuto di compiacenze pubbliche che le hanno lasciate impunite, esiste una documentazione tale che è inutile insistervi analiticamente ancora una volta. Basta ricordare che, all’indomani del delitto di Roma, i membri del Cogidas (coordinamento genitori democratici e antifascisti) hanno con amarezza sottolineato come siano rimaste da anni inascoltate le loro circostanziate denunce delle violenze di cui erano stati protagonisti proprio alcuni degli assassini di Rosaria Lopez. Ma servirà quest’ultimo episodio a cambiare, se non una mentalità, almeno alcuni comportamenti esteriori?
La vicenda del Circeo è emblematica nel mettere in luce gli stretti rapporti esistenti tra magistratura e organizzazioni di estrema destra, tra magistratura e borghesi ricchi e ammanicati.
Rodotà non è il solo ad interrogarsi sulla situazione politica e sociale italiana. Lidia Menapace, sulla prima pagina de “il Manifesto”, analizza Il pubblico e il privato dei fascisti assassini (10) ed afferma che l’immoralità (…) non è il frutto della permissività.
L’immoralità ha un nome preciso: è la doppia morale della prepotenza fascista coperta dalla solidarietà di classe, è l’uso della donna come di un disprezzato strumento di eccitazione e di piacere. Anche in questo articolo tornano gli stessi concetti, non c’è nulla di nuovo.
Infine, è senz’altro degno di interesse il dibattito a distanza che si è svolto tra Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini; è quest’ultimo a rappresentare la sola voce fuori dal coro della stampa italiana.
Il lungo articolo di Italo Calvino, pubblicato dal “Corriere della Sera” in prima pagina, è intitolato "Delitto in Europa" (11) e presenta una acuta analisi della situazione politica e sociale europea.
Riguardo alla situazione italiana, la riflessione calviniana è amara ma non cupa; egli ritrae una società in crisi ed, al tempo stesso, in cambiamento: questo periodo di crisi generale è per l’Italia anche un’epoca di passi avanti importanti, nella legislazione, nella vita civile, nella coscienza sociale.
Seguiamo la sua riflessione a partire dal tragico fatto di cronaca del Circeo:
i responsabili della carneficina del Circeo sono in molti e si comportano come se quello che hanno fatto fosse perfettamente naturale, come se avessero dietro di loro un ambiente e una mentalità che li comprende e li ammira. Per poco che riusciamo a capire, dobbiamo guardare le cose in faccia e considerare l’esistenza di una società di mostri che convive perfettamente con le strutture della nostra società attuale. (…)
I giornali hanno messo in rilievo che i protagonisti della vicenda appartengono all’ambiente dei picchiatori fascisti: c’era da aspettarselo. È una parte della nostra società in cui il disprezzo per la donna e per le persone di condizione sociale più modesta, la linea di condotta della sopraffazione del più debole e del disprezzo di ogni senso civico, [passa] da una generazione all’altra.
Anche nell’analisi calviniana è presente l’elemento del disprezzo nei confronti dei più deboli, donne e poveri, un disprezzo che fa parte di una precisa visione del mondo, che viene tramandata di padre in figlio, in cui il forte schiaccia il debole.
Il pericolo vero viene dall’estendersi nella nostra società di strati cancerosi; c’è una parte della borghesia italiana che vive e prospera e prolifera senza il minimo senso di ciò che appartenere a una società significa, come relazione reciproca tra gli interessi personali o di gruppo e quelli della collettività. Dire che non c’è che un passo dall’atonia morale e dalla irresponsabilità sociale alla pratica di seviziare e massacrare le ragazze con cui si esce alla sera può sembrare una delle solite generalizzazioni esagerate dei moralisti, però abbiamo sotto gli occhi il curriculum e il linguaggio di questi giovanotti, campioni rappresentativi - si dice - della clientela di un bar molto frequentato dalla gioventù del loro ceto.
(8) S. CRISCUOLI, "Arrestato un altro squadrista", in “L’Unità”, 5 ottobre 1975.
(9) S. RODOTÀ, "Chi dà spazio ai teppisti", in «Panorama», 16 ottobre 1975.
(10) L. MENAPACE, "Il pubblico e il privato dei fascisti assassini" in “Il Manifesto”, 7 ottobre 1975.
(11) I. CALVINO, Delitto in Europa, in “Corriere della Sera”, 8 ottobre 1975.
Con termini diversi da quelli usati da altri giornalisti, anche Calvino afferma l’esistenza di una casta, di una classe privilegiata, chiusa su se stessa e attiva nel difendere i propri privilegi.
Le azioni compiute dai membri di una classe che si ritiene privilegiata e superiore sono irresponsabili ed amorali: usare, umiliare, picchiare i deboli e le donne è la conseguenza di un modo di pensare e di vivere, che non ha niente a che fare con la convivenza civile, con l’appartenenza ad una comunità.
Criminalità politica e criminalità sessuale sembrano in questo caso definizioni riduttive ed ottimistiche. Probabilmente anche il fanatismo politico più bruto è un gradino al di sopra delle capacità intellettive di costoro. Così come mi pare certo che il sesso non interessa veramente questi [ragazzi]. Viviamo in un mondo in cui l’escalation nel massacro e nella umiliazione della persona è uno dei segni più vistosi del divenire storico: a questi giovani romani sta a cuore solo dimostrare una cosa ovvia: che i nazisti possono essere largamente superati in crudeltà in ogni momento.
L’intervento di Calvino sulle pagine del “Corriere della Sera” suscita, nei giorni successivi, un vivace dibattito; diversi giornalisti riprendono le sue posizioni e replicano alle sue tesi.
Certamente la risposta più significativa è quella di Pier Paolo Pasolini, che indirizza a Calvino, dalle pagine de «Il Mondo», una delle sue “lettere luterane”(12). Citando testualmente le parole dello scrittore, Pasolini controbatte alle tesi calviniane:
Ho da ridire sul fatto che tu crei dei capri espiatori, che sono: “parte della borghesia”, “Roma”, i “neofascisti”. Tu hai privilegiato i neofascisti pariolini del tuo interesse e della tua indignazione, perché sono borghesi. La loro criminalità ti pare interessante perché riguarda i nuovi figli della borghesia. Li porti dal buio truculento della cronaca alla luce dell’interpretazione intellettuale, perché la loro classe sociale lo pretende. Ti sei comportato - mi sembra - come tutta la stampa italiana, che negli assassini del Circeo vede un caso che la riguarda, un caso, ripeto, privilegiato. Se a fare le stesse cose fossero stati dei “poveri” delle borgate romane, oppure dei “poveri” immigrati a Milano o a Torino, non se ne sarebbe parlato tanto e a quel modo. Per razzismo.
Perché i “poveri” delle borgate o i “poveri” immigrati sono considerati delinquenti a priori.
Pasolini attacca duramente Calvino, lo accusa di razzismo, sostiene che l’attenzione, non solo di Calvino ma di tutta stampa italiana, nei confronti del delitto del Circeo, dipende esclusivamente dall’appartenenza dei tre assassini alla classe borghese.
Lo stupore, l’indignazione, il tentativo di capire le ragioni di un delitto così atroce derivano dalla classe sociale di appartenenza dei tre giovani assassini. L’eccezionalità della notizia è questa.
Per Calvino, per la stampa italiana e per l’opinione pubblica, è inaccettabile che tre giovani, ricchi, privilegiati, fortunati, tre ragazzi che hanno avuto tutto dalla vita, come si usa dire, si trasformino in brutali assassini.
Questi tre pariolini non corrispondono all’immagine dello stupratore violento; le aspettative nei loro confronti sono altre, completamente diverse; la loro appartenenza sociale sembra inconciliabile con il reato che hanno commesso. In base ad un pregiudizio diffuso, il ritratto del criminale è quello di un uomo povero, ignorante, brutto e cattivo, che compie crimini di ogni genere a causa della sua posizione ai margini della società, della sua mancanza di mezzi di sussistenza. Nell’immaginario collettivo i borgatari, i proletari sono delinquenti ed assassini, i ragazzi per bene, educati ed agiati no. Secondo Pasolini, è questo l’errore che commettono i giornalisti italiani ed anche Calvino, osservare la società italiana e dividerla in buoni e cattivi in base ad un banale pregiudizio classista.
(12) P.P. PASOLINI, "Lettera Luterana", in «Il Mondo», 30 ottobre 1975.
Ebbene, i “poveri” delle borgate romane e i “poveri” immigrati, cioè i giovani del popolo, possono fare e fanno effettivamente (come dicono con spaventosa chiarezza le cronache) le stesse cose che hanno fatto i giovani dei Parioli: e con lo stesso identico spirito, quello che è oggetto della tua “descrittività”. I giovani delle borgate di Roma fanno tutte le sere centinaia di orge (le chiamano “batterie”) simili a quelle del Circeo: e, inoltre, anch’essi drogati.
L’uccisione di Rosaria Lopez è stata molto probabilmente preterintenzionale (cosa che non considero affatto un’attenuante): tutte le sere, infatti, quelle centinaia di batterie implicano un rozzo cerimoniale sadico. (…) L’impunità di tutti questi anni per i delinquenti borghesi e in specie neofascisti non ha niente da invidiare all’impunità dei criminali di borgata.
Proseguendo con il confronto tra ricchi e poveri, tra borghesi fascisti e borgatari, Pasolini sostiene che l’impunità di cui tanto si parla a proposito dei tre pariolini neri, protetti dal privilegio sociale e da una magistratura compiacente, è la stessa impunità che viene goduta anche dai criminali di borgata; per fare un esempio, cita il caso dei fratelli Carlino, di Torpignattara, che godevano della stessa libertà condizionale dei pariolini.
La tesi sostenuta da Pasolini è certamente spiazzante.
Come abbiamo visto in precedenza, giornalisti di diverse testate hanno continuamente posto in contrapposizione i Parioli e la Montagnola, hanno descritto l’ambiente di provenienza, benestante e fascista, degli aggressori mettendolo in netto contrasto con la miseria e lo squallore del quartiere-dormitorio delle due ragazze.
Dopo tutti questi monotoni articoli, ci troviamo di fronte al paragone pasoliniano. Tra tutti i giornalisti e gli scrittori che hanno commentato i fatti del Circeo, Pasolini è l’unico che pone a confronto i Parioli e le borgate romane per affermare che non esistono sostanziali differenze tra i due contesti sociali. Posti vicini l’uno alle altre, egli vede affinità invece di differenze, similitudini invece di fratture abissali, elementi comuni invece di mondi estranei l’uno agli altri.
Criticando le tesi espresse da Calvino e dalla stampa italiana, Pasolini cambia prospettiva, propone un punto di vista nuovo, abbandona la contrapposizione ricchi-poveri, pariolini-borgatare e ci offre una descrizione, originale e sconcertante, delle periferie delle grandi città e dei loro abitanti. Squarcia il velo di indifferenza che circonda il mondo proletario e, confrontando il modo di agire dei ricchi con il modo di agire dei poveri, afferma che non c’è alcuna differenza, perché ci troviamo di fronte alla stessa violenza, alla stessa crudeltà, alla stessa impunità.
La tesi pasoliniana è una vera e propria voce fuori dal coro, destinata a rimanere tale; non ci sono stati commenti o discussioni a partire dalle sue considerazioni, nessuno ha raccolto la sua provocazione. Eppure, a più di trent’anni di distanza dall’episodio del Circeo, l’articolo di Pasolini, pubblicato pochi giorni prima del suo omicidio, avvenuto il 2 novembre 1975, è l’unico che ha ancora qualcosa da dirci oggi.
Dopo aver letto sempre le stesse parole, dopo aver analizzato interpretazioni ripetitive e poco convincenti in innumerevoli articoli, Pasolini ci presenta una realtà nuova, disturbante, in cui ricchezza e privilegio, fascismo e disprezzo non trovano posto.
La società tratteggiata dallo scrittore è una società pervasa dalla violenza, dal sadismo, dal sesso brutale, indipendentemente dall’appartenenza di classe. Non ci sono ambiti circoscritti, situazioni straordinarie, nelle quali la violenza si scatena, al contrario, la violenza è una presenza quotidiana, abituale sia tra i borgatari che tra i borghesi.
Anche se non nomina le donne, Pasolini intuisce la sistematicità e la diffusione del fenomeno della violenza contro le donne, fenomeno completamente ignorato dalla società italiana e denunciato con forza soltanto dal movimento femminista.
3. Una chiave di lettura diversa: la violenza sulle donne
Ad eccezione di Pasolini, dagli articoli selezionati emerge un’interpretazione politica del delitto del Circeo piuttosto ripetitiva. È un lungo articolo di Dacia Maraini, intitolato "La violenza contro le donne: una costante nel tempo. Rosaria e Donatella" (13), a darci una lettura dei fatti completamente diversa dalle precedenti, dato che tutta l’attenzione della scrittrice è rivolta verso le donne.
Il punto di vista di Maraini, le spiegazioni fornite ed i giudizi espressi, i concetti e i termini usati non sono neppure confrontabili con le opinioni che abbiamo considerato finora, perché ci troviamo di fronte ad una prospettiva radicalmente diversa.
Oggi l’Italia è in pianto per la giovane Rosaria seviziata e uccisa. Tutti si scagliano con uguale fervore contro i delinquenti fascisti chiamandoli “bruti”, “mostri”, “assassini senza cuore”. La televisione dedica una trasmissione speciale a questo fatto di sangue. I giornali e i rotocalchi fanno a gara a chi spreca più parole per lunghi articoli indignati e sentimentali. (…) A leggere i vari interventi però si avverte dappertutto una preoccupazione nascosta ma costante e monotona: che la ragazza fosse vergine e che si sia opposta con tutte le sue forze, non tanto contro la violenza assassina dei ragazzi, quanto contro il sesso in sé e per sé.
Per la prima volta, un lungo articolo a tutta pagina si occupa delle due ragazze, in particolare della vittima, Rosaria Lopez, che è posta al centro dell’attenzione e dell’analisi. Ai tre aggressori non viene dedicato spazio; tutto quello che è successo in quella villa fuori città ha portato alla morte di Rosaria ed è questo il fatto fondamentale da indagare e da capire.
Secondo Maraini, la curiosità degli italiani nei confronti della ragazza uccisa si concentra ossessivamente su un unico dettaglio: la sua verginità. È necessario essere sicuri che Rosaria fosse vergine per poterla compiangere. Solo in questo caso, gli italiani sono disposti a commuoversi per lei e a condannare i tre assassini, che volevano costringerla ad avere rapporti sessuali con loro. Rosaria ha veramente lottato, ha fatto di tutto per preservarsi, si è opposta in tutti i modi ai tentativi di violenza sessuale?
Tutti insistono su questa faccenda della “purezza”, della “pulizia” che naturalmente sono fatti puramente fisiologici, senza rendersi conto di quanto sia offensivo tutto questo per le due ragazze. Nessuno dice della morta che era buona, intelligente, onesta, forte, indipendente, allegra. Si insiste tetramente sulla sua verginità. Insomma l’Italia intera non vuole mettere mano al fazzoletto se non dopo essersi rassicurata che c’è stato un attentato alla virtù e all’innocenza, due cose che sono dimostrabili, secondo l’opinione pubblica, solo con la verginità.
La verginità, valore fondamentale nella cultura cattolica e nella società italiana, diventa l’elemento discriminante per stabilire chi sia veramente responsabile per ciò che è accaduto: soltanto se Rosaria è vergine, e di conseguenza virtuosa e innocente, la colpa ricade interamente sui tre aggressori.
A questo punto Maraini solleva un dubbio per provocare il lettore:
E se si fosse trattato di due ragazze che non tornavano a casa prima delle otto? Se si fosse trattato di due diciottenni che facevano l’amore con chi volevano e quando volevano perché faceva loro piacere? Quale sarebbe stata la reazione? Si sarebbe scatenata la stessa indignazione nazionale Oppure si tratta di una indignazione “condizionata” dalla garanzia che tutto è a posto: la ragazza è buona perché pura e difende la sua purezza.
I ragazzi sono cattivi perché insidiano questa purezza. Tutto normale insomma. Solo imprevisto: la morte.
La forte reazione dell’opinione pubblica dipende solo e soltanto dal fatto che Rosaria si è comportata come doveva comportarsi: ha difeso la propria verginità, ha combattuto contro i bruti che volevano fare sesso con lei. È andata a finire male, i mostri non sono stati teneri, l’hanno massacrata di botte, seviziata per ore, violentata e uccisa. La sua strenua resistenza, la sua ostinata opposizione le sono costate la vita ma il suo onore di ragazza rispettabile è salvo.
Maraini si dice certa di una reazione radicalmente diversa da parte dell’opinione pubblica nel caso in cui Rosaria non fosse stata vergine; dubbi, sospetti, insinuazioni, domande assillanti avrebbero inevitabilmente fatto la loro comparsa: come essere sicuri che non fosse consenziente? Chi può affermare con certezza che non sia stata lei a provocare i ragazzi? Probabilmente aveva accettato l’invito alla festa con l’intenzione di spassarsela con uno di loro o forse con tutti e tre e poi, all’improvviso, aveva cambiato idea.
Il fatto stesso di non essere casta e pura avrebbe gettato su di lei un pesante discredito, l’avrebbe esposta a giudizi malevoli e a critiche severe e l’avrebbe trasformata da vittima in parte in causa. Una ragazza così giovane con precedenti esperienze sessuali è indubbiamente una poco di buono, questa è la condivisa certezza da cui nascono i dubbi e le insinuazioni che diventano rapidamente giudizi severi e critiche feroci nei confronti della ragazza sfacciata.
Rosaria non può raccontare, non può difendersi, non può confermare o negare fatti e circostanze; per lei parla l’autopsia eseguita dai medici legali, che certifica la sua verginità e le ripetute sevizie inferte su di lei dagli assassini. Rosaria è, quindi, da compatire e da onorare; come si giudicano, invece, tutte le altre ragazze, quelle che, non essendo vergini, sono automaticamente delle poco di buono? Se una ragazza non illibata esce la sera, va a ballare, conosce un ragazzo carino e gentile e si allontana con lui; se i due si baciano ma, dopo i primi baci e le prime resistenze da parte di lei, la ragazza viene aggredita dallo sconosciuto, viene picchiata e costretta ad avere un rapporto sessuale, come si valuta la situazione? Di chi è la colpa?
La scrittrice riferisce quello che succede regolarmente nelle questure italiane: quando una donna si presenta di fronte ad un poliziotto e dichiara di essere stata aggredita, nel giro di pochi minuti la donna violentata diventa l’imputata, domanda dopo domanda si trasforma nell’accusata: il suo comportamento presente e passato, le sue frequentazioni, il suo stile di vita vengono messi in discussione, indagati e giudicati. In tutto questo, la responsabilità dell’aggressore diventa un dettaglio di scarso interesse, a causa della diffusa convinzione che se una donna viene aggredita è perché se l’è andata a cercare; se così non fosse, non sarebbe stata violentata.
Rosaria è stata uccisa, Donatella è stata ridotta in fin di vita: il loro è un caso straordinario, fuori dalla norma, che ha scosso l’opinione pubblica italiana. Maraini ritiene necessario andare oltre il delitto del Circeo e chiedersi che cosa succede abitualmente a tutte le altre, alle ragazze e alle donne italiane, né vergini né poco di buono, che vivono nelle città italiane: le donne, giovani e meno giovani, come si relazionano con gli uomini? Che tipo di rapporti hanno con i maschi?
A questo punto viene spontaneo chiedersi quanto siano sincere le lacrime di tutti questi italiani che d’altra parte non battono ciglio di fronte alle migliaia di casi di violenza che si compiono ogni giorno sulla donna. Se permettete, io a questa indignazione nazionale, a questo fiume di lacrime, non ci credo, anzi un poco me ne vergogno come di una manifestazione di ipocrisia dei miei connazionali. (…) Quello che nessuno ha detto è che la violenza sulle donne è un fatto quotidiano, comune, di massa. Nessun giornale ha parlato di questa violenza continuata, atroce, muta, ricattatoria, sottile, abituale che viene compiuta sul corpo e sull’anima delle donne. Una violenza che si consuma nelle famiglie, nei luoghi pubblici, nelle camere da letto, nelle strade, nei giardini pubblici.
Nonostante le dimensioni del fenomeno, il silenzio è profondo: non se ne interessano i mezzi di informazione, non se ne preoccupa la società civile, non ne parlano le donne direttamente coinvolte. Ecco allora che, per rompere il silenzio, il movimento femminista decide di scendere in piazza, più volte nei giorni successivi al massacro del Circeo; questo è il resoconto di una manifestazione che si è svolta a Roma:
le ragazze intervenute hanno parlato delle proprie esperienze quotidiane di violenza. Sono venute fuori cose inquietanti, nascoste, brucianti: ragazze di quattordici anni violentate dal padre, compagne aggredite e picchiate dai compagni di uno stesso gruppo politico, mogli picchiate a sangue dai mariti, ragazze inseguite e aggredite per la strada, bambine insidiate da amici di famiglia e parenti prossimi, sorelle sottomesse con la forza da fratelli maggiori, fidanzate brutalizzate da fidanzati gelosi, eccetera.
Le testimonianze forniscono un quadro d’insieme sconcertante; queste sono le conclusioni della scrittrice:
la violenza sulla donna è un esercizio quotidiano, così antico e abituale che non ce ne stupiamo più. Le donne poi non denunciano quasi mai le violenze subite, per paura, per complicità, per amore, per un malinteso senso del pudore, nonché per la solita scarsa fiducia in se stesse e nel mondo.
Nell’articolo di Dacia Maraini sono presenti molti spunti interessanti:
- il delitto del Circeo viene interpretato in base alla divisione dei ruoli sessuali e alla strenua difesa dell’onore da parte della vittima;
- gli italiani vengono criticati perché giudicano le donne e le dividono in buone e cattive in base al loro comportamento sessuale;
- i poliziotti vengono accusati di mettere in difficoltà le donne stuprate che intendono denunciare i loro aggressori;
- infine, vi è la denuncia, forte e chiara, del fenomeno della violenza contro le donne, che è un fenomeno costante e molto diffuso in tutta la società ma completamente ignorato.
È altrettanto interessante, in questo articolo, quello che non c’è: nulla, assolutamente nulla di ciò che altri giornalisti e altri scrittori hanno detto e ripetuto, trova spazio nelle riflessioni di Maraini.
Ci troviamo di fronte ad un nuovo modo di interpretare la realtà, ad un nuovo modo di vedere il mondo: quello che conta è il punto di vista delle donne. È Rosaria la protagonista della vicenda, è lei la figura emblematica che ha colpito l’opinione pubblica, è lei la ragazza, violentata e uccisa, che può rappresentare tutte le altre donne che vengono aggredite, picchiate, abusate e violentate quotidianamente dagli uomini.
Il massacro del Circeo segna profondamente l’immaginario collettivo italiano e le prime a rendersene perfettamente conto sono le femministe, intenzionate ad utilizzarlo come caso paradigmatico per far emergere, in tutta la sua drammaticità, il fenomeno, scomodo e disturbante, della violenza contro le donne.
(13) D. MARAINI, "La violenza contro le donne: una costante nel
tempo. Rosaria e Donatella", in “Paese sera”, 11 ottobre 1975.
(continua)
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