martedì 17 gennaio 2017

Ripercussioni psicologiche della violenza domestica sulle donne

Condivido il post di Valentina R. che mi trova più che d'accordo con quanto scritto il 20 ottobre 2016 su UnAltroGenereDiRispetto

violenza-1

Uno dei motivi che mi ha spinto ad aprire questo blog e la relativa pagina Facebook è stato proprio quello di combattere questa grossa piaga mondiale: la violenza sulle donne e la violenza domestica.
Ogni giorno sento di donne maltrattate e uccise. Sento parlare di femminicidio, sento parlare di morte. Ogni volta mi si incrina una parte del cuore.
Sfido chiunque di voi, guardatevi intorno, e ditemi se non avete mai vissuto direttamente o indirettamente, attraverso vostri cari, amicizie o conoscenti, una situazione di violenza domestica sulle donne. Ditemi se non avete mai conosciuto una donna che è stata maltrattata fisicamente o psicologicamente da un uomo.
Nessun* di voi vero?
Queste situazioni sono all’ordine del giorno e io ne sono stanca. Allora ho pensato che cercando di spiegare quali siano le ripercussioni psicologiche di una violenza domestica, magari, forse, riuscirò a sensibilizzare qualcun’altr*…
Andiamo per ordine.
La violenza domestica è l’insieme di violenze che coinvolgono sia la sfera sessuale che quella psicologica, fisica ed economica esercitata all’interno di una famiglia. Si definiscono violenti tutti i comportamenti o gli atti che mettono il partner in condizione di potere e controllo rispetto alla donna.
Riprendendo l’intervento della Dott.ssa Gamberini, che potete leggere qui, possiamo suddividere la violenza in quattro settori:
  • Violenza Fisica: ovvero tutti quegli atti che servono a fare male. Non si tratta solo aggressioni fisiche che impongono l’intervento medico d’urgenza, ma anche tutti quegli atti di forza che creano terrore alla donna come spingere, schiaffeggiare, mordere, prendere a calci, tirare i capelli etc. etc.
  • Violenza Psicologica: sono tutte quelle minacce o quelle asserzioni che sminuiscono la validità di una persona o incutono terrore, come ad esempio “ti ammazzo”, “ti rovino”, “senza di me non sei niente”, “sei una nullità”, “sei una cretina” “non capisci niente”, “non ti sai vestire”, “sei brutta”, “mi fai schifo”, ma anche “se te ne vai io mi ammazzo”, “se te ne vai uccido tutta la tua famiglia” etc. etc.
  • Violenza Economica: non permettere alla donna di lavorare o indurla a lasciare il lavoro e allo stesso tempo non darle i mezzi per poter vivere una vita indipendente.
  • Violenza Sessuale: l’obbligo ad avere rapporti sessuali indesiderati, ma anche l’obbligare la donna ad avere rapporti con altre persone, a girare filmati pornografici, a prostituirsi, o anche mettere la donna in ridicolo durante un rapporto.
Queste quattro sfere rappresentano le violenze che una donna può subire in un ambiente domestico.
Ovviamente ogni donna è a se, ognuna con le sue reazioni, ognuna con il suo modo di reagire a queste violenze. A seguito di queste violenze però, la prima cosa che succede, è la perdita della sicurezza in se stesse. La donna comincia ad avere paura, comincia non capire cosa sta succedendo e non sa come reagire. Sente quasi di impazzire, non ha più il controllo, e si chiude in se stessa per paura di essere giudicata.
A seguito di queste violenze PERPETRATE DAL MALTRATTANTE la paura di essere giudicata, di non essere capita, di essere fraintesa ha la meglio. La paura che le persone che ha intorno minimizzino il suo problema. Inoltre, la donna comincia a sentirsi in colpa, come se fosse colpa sua se è in questa situazione. I dubbi perpetrano nella mente: “se non mi comportassi così”, “magari la prossima volta evito…”, “lo devo capire, lui è stanco per il lavoro, e io sono una stupida a pretendere che non mi tratti male dopo una giornata massacrante…”,

“e certo, se mi vesto così attillata, è ovvio che lui si ingelosisce, lo fa perchè mi ama…, quindi questo schiaffo me lo merito, e stupida io che mi sono comprata questa gonna! Fa bene a levarmi i soldi. Fa bene a dirmi cosa mi devo mettere! Infondo questa gonna è da “puttana”… Ma cosa avevo pensato? Che figura faccio? E che figura gli faccio fare?!?!?!” 

Tipico vero? Questa storia della puttana deve finire. Nella mentalità patriarcale, come molte volte abbiamo denunciato e scritto, sia io che la mia collega, la donna, per non disonorare, deve camminare a testa bassa, vestirsi in modo consono ai canoni della società e soprattutto… NON ESSERE UNA PUTTANA! Non voglio dilungarmi molto su questo argomento per non andare fuori tema, ma una cosa la dico: “puttana” non è offesa, è un mestiere. A riguardo vi lascio un articolo sul maschilismo interiorizzato scritto dalla mia collega che spiega meglio il concetto: Maschilismo e sessismo internalizzato. Una riflessione.
Tornando al nostro argomento, come dicevo, nella donna prevale un senso di vergogna. Vergogna perchè i panni si lavano in casa, vergogna perchè per meritare le botte chissà cosa ha combinato, vergogna per paura di essere, appunto, giudicati.
Come scrissi in un altro articolo,  LA VIOLENZA NON SI GIUSTIFICA, e se magari tutt* lo capissimo, forse per le donne vittime di violenze, soprattutto quelle domestiche che sono ancor più complicate e delicate, sarebbe più facile denunciare e riuscire ad uscire dal loro incubo, semplicemente perchè si sentirebbero meno sole.
Vi consiglio inoltre un altro articolo Dal “Se l’è cercata” al “Il femminicidio non esiste” che spiega ancora meglio come può essere deleterio giudicare il comportamento di una donna e giustificare i comportamenti violenti.

Infondo,
“la più alta forma di intelligenza di intelligenza umana
è la capacità di osservare senza giudicare”
-Jiddu Krishnamurti

Riassumendo, i primi sintomi sono:
  • mancanza di autostima
  • vergogna
  • paura dell’essere giudicate
  • senso di impotenza
  • senso di dipendenza verso qualcun’altro
  • senso di colpa
  • senso di solitudine
In una relazione di coppia, una persona che stimo molto, mi descrisse in modo perfetto, il modo in cui le cose dovrebbero funzionare:
immaginate per un attimo due persone. Queste due persone camminano su due linee rette, due assi infinite che rappresentano la loro vita. Per stare in equilibrio utilizzano un bastone tenuto in mano da entrambe la parti. Queste linee devono sempre rimanere parallele, mai incrociarsi, mai divergere, e questo bastone serve a mantenere l’equilibrio di entrambe le parti. Nessuna delle due si deve appoggiare all’altro, nessuna delle due deve far pressione sull’altra, nessuna delle due deve dipendere dall’altra.
immagine

So bene di essere negata per il disegno, ma spero di aver reso l’idea. Al di là della violenza domestica, penso che questo sia il primo passo per capire se una relazione è o non è funzionale, e nel caso trovare una soluzione.
Purtroppo però i disturbi non si fermano a quanto descritto.
  • Apatia
  • Difficoltà di attenzione e concentrazione
  • Instabilità emotiva
  • Ansia
  • Abuso di alcool, droghe e psicofarmaci
  • Sfiducia verso gli altri
  • difficoltà di relazionarsi
La donna, perdendo la fiducia in se stessa, perde anche la fiducia negli altri. Le capacità relazionali si limitano giusto a quelle persone che ha intorno, se non l’allontanamento anche di esse.
Spesso poi si le conseguenze diventano ancora più gravi:
  • Attacchi di panico
  • Fobie
  • Disturbi alimentari
  • Disturbi del sonno
  • Disturbi psicosomatici (tachicardia, difficoltà a deglutire, disturbi gastrointestinali)
  • Dipendenza di alcool, droghe e psicofarmaci
  • Depressione
Uno schema ben preciso lo potete trovare anche QUI.
Parlando in numeri, secondo i dati ISTAT relativi al 5 giugno 2015 che riporto integralmente, anche se in miglioramento (dobbiamo aspettare il concludersi del 2016 che è stato un anno pieno di femminicidi), possiamo esaminare che:
  • La violenza contro le donne è fenomeno ampio e diffuso. 6 milioni 788 mila donne hanno subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale, il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni: il 20,2% ha subìto violenza fisica, il 21% violenza sessuale, il 5,4% forme più gravi di violenza sessuale come stupri e tentati stupri. Sono 652 mila le donne che hanno subìto stupri e 746 mila le vittime di tentati stupri.
  • Le donne straniere hanno subìto violenza fisica o sessuale in misura simile alle italiane nel corso della vita (31,3% e 31,5%). La violenza fisica è più frequente fra le straniere (25,7% contro 19,6%), mentre quella sessuale più tra le italiane (21,5% contro 16,2%). Le straniere sono molto più soggette a stupri e tentati stupri (7,7% contro 5,1%). Le donne moldave (37,3%), rumene (33,9%) e ucraine (33,2%) subiscono più violenze.
  • I partner attuali o ex commettono le violenze più gravi. Il 62,7% degli stupri è commesso da un partner attuale o precedente. Gli sconosciuti sono nella maggior parte dei casi autori di molestie sessuali (76,8%).
  •  Il 10,6% delle donne ha subìto violenze sessuali prima dei 16 anni. Considerando il totale delle violenze subìte da donne con figli, aumenta la percentuale dei figli che hanno assistito ad episodi di violenza sulla propria madre (dal 60,3% del dato del 2006 al 65,2% rilevato nel 2014)
  •  Le donne separate o divorziate hanno subìto violenze fisiche o sessuali in misura maggiore rispetto alle altre (51,4% contro 31,5%). Critica anche la situazione delle donne con problemi di salute o disabilità: ha subìto violenze fisiche o sessuali il 36% di chi è in cattive condizioni di salute e il 36,6% di chi ha limitazioni gravi. Il rischio di subire stupri o tentati stupri è doppio (10% contro il 4,7% delle donne senza problemi).
  • Emergono importanti segnali di miglioramento rispetto all’indagine precedente: negli ultimi 5 anni le violenze fisiche o sessuali sono passate dal 13,3% all’11,3%, rispetto ai 5 anni precedenti il 2006. Ciò è frutto di una maggiore informazione, del lavoro sul campo ma soprattutto di una migliore capacità delle donne di prevenire e combattere il fenomeno e di un clima sociale di maggiore condanna della violenza.  E’ in calo sia la violenza fisica sia la sessuale, dai partner e ex partner (dal 5,1% al 4% la fisica, dal 2,8% al 2% la sessuale) come dai non partner (dal 9% al 7,7%). Il calo è particolarmente accentuato per le studentesse, che passano dal 17,1% all’11,9% nel caso di ex partner, dal 5,3% al 2,4% da partner attuale e dal 26,5% al 22% da non partner.
  • In forte calo anche la violenza psicologica dal partner attuale (dal 42,3% al 26,4%), soprattutto se non affiancata da violenza fisica e sessuale.
  • Alla maggiore capacità delle donne di uscire dalle relazioni violente o di prevenirle si affianca anche una maggiore consapevolezza. Più spesso considerano la violenza subìta un reato (dal 14,3% al 29,6% per la violenza da partner) e la denunciano di più alle forze dell’ordine (dal 6,7% all’11,8%). Più spesso ne parlano con qualcuno (dal 67,8% al 75,9%) e cercano aiuto presso i servizi specializzati, centri antiviolenza, sportelli (dal 2,4% al 4,9%). La stessa situazione si riscontra per le violenze da parte dei non partner.
  • Rispetto al 2006, le vittime sono più soddisfatte del lavoro delle forze dell’ordine. Per le violenze da partner o ex, le donne molto soddisfatte passano dal 9,9% al 28,5%.
  • Si segnalano però anche elementi negativi. Non si intacca lo zoccolo duro della violenza, gli stupri e i tentati stupri (1,2% sia per il 2006 sia per il 2014). Le violenze sono più gravi: aumentano quelle che hanno causato ferite (dal 26,3% al 40,2% da partner) e il numero di donne che hanno temuto per la propria vita (dal 18,8% del 2006 al 34,5% del 2014). Anche le violenze da parte dei non partner sono più gravi.
  •  3 milioni 466 mila donne hanno subìto stalking nel corso della vita, il 16,1% delle donne. Di queste, 1 milione 524 mila l’ha subìto dall’ex partner, 2 milioni 229 mila da persone diverse dall’ex partner.
Io sono un attimino stanca di alzarmi la mattina e leggere che un’altra donna è stata uccisa dal proprio partner, o che ha subito delle violenze, è stata picchiata o maltrattata, voi no?!
So che debellare del tutto la violenza è impossibile, ma forse con qualche dato in più, possiamo ancora abbassare queste stime.
E noi donne invece non dobbiamo avere paura di denunciare, e soprattutto non dobbiamo avere paura di difenderci e di reagire agli insulti con un grande, enorme, gigantesco VAFFANCULO!

Al riguardo vi lascio un video che spiega, in modo semplicissimo come difendersi da degli schiaffi o da dei calci:

Resta inteso che un corso “fai da te” è sconsigliato. Magari sulla base di questo video potete rivolgervi a qualche organizzazione che insegna autodifesa. E’ importante rendersi conto dal vivo, con un istruttore, di cosa possa essere un’aggressione e di imparare i movimenti giusti per non rischiare di farsi male.
Io spero davvero che con queste poche parole, ogni volta a un uomo gli verrà in mente di usare la violenza con la propria compagna non penserà solo all’imminente conseguenza di un occhio nero o di un broncio (che è già sbagliato di per se), ma penserà alle conseguenze catastrofiche a cui può portare il suo modo di agire.
Da piccola mi hanno sempre detto “Le donne non si toccano neanche con un fiore”. Io non sono debole, non ho bisogno di essere “preservata”. Non si tratta solo di non toccare una donna, si tratta di non far soffrire un essere umano.

lunedì 16 gennaio 2017

8 marzo 2017: sciopero delle donne

SE LE NOSTRE VITE NON VALGONO, ALLORA CI FERMIAMO!
postato da NON UNA DI MENO Lunedì 16 gennaio 2017
 
L'8 marzo è una giornata di lotta, non un'occasione per locali, ristoranti e fiorai di far girare l'economia. Prende vita dagli scioperi delle operaie che dai primi del Novecento, in tutto il mondo, animarono le lotte per i loro diritti violati di persone e lavoratrici.
Ricordiamo il primo, quello delle camiciaie di New York nel 1909, poi lo sciopero e la rivolta delle operaie di Pietrogrado, l’8 marzo del 1917, perché senza donne non c'è rivoluzione possibile!
 
Niente fiori e cioccolatini, dunque: non abbiamo niente da festeggiare, abbiamo tutto da cambiare!
 
Dopo le straordinarie giornate di mobilitazione che hanno visto milioni di donne nelle piazze di tutto il mondo, dalla Polonia all'Italia, alla Germania, alla Turchia, dal Brasile all’Argentina, il prossimo 8 marzo sarà l'occasione per riprenderci questa giornata di lotta: sarà SCIOPERO GLOBALE DELLE DONNE.
 
Lanciato dalle donne argentine, ha raccolto l'adesione di oltre 22 paesi al grido di “Se le nostre vite non valgono, non produciamo”.
 
Differenti luoghi e contesti, analoga condizione di subalternità e violenza per le donne: NI UNA MENOS, allora, non una di meno in piazza, la chiamata rimbalza ai quattro angoli del pianeta: Uniamoci per continuare a lottare!
 
L’8 marzo sciopereremo anche in Italia. 
Una giornata in cui sperimentare/praticare forme di blocco della produzione e della riproduzione sociale, reinventando lo sciopero come vera e propria pratica femminista a partire dalle forme specifiche di violenza, discriminazione e sfruttamento che viviamo quotidianamente, 24 ore al giorno, in ogni ambito della vita, che sia pubblico o privato.
 
Constatiamo ogni giorno quanto la violenza sia fenomeno strutturale delle nostre società, strumento di controllo delle nostre vite e quanto condizioni ogni ambito della nostra esistenza: in famiglia, al lavoro, a scuola, negli ospedali, in tribunale, sui giornali, per la strada, ... per questo il prossimo 8 marzo ci asterremo da ogni attività produttiva e riproduttiva che ci riguardi.
Sarà uno sciopero in cui riaffermare la nostra forza a partire dalla nostra sottrazione: una giornata senza di noi.
Resteremo al sole delle piazze a goderci la primavera che arriva anche per noi a dispetto
- di chi ci uccide per “troppo amore”,
- di chi, quando siamo vittime di stupro, processa prima le donne e i loro comportamenti;
- di chi “esporta democrazia” in nostro nome e poi alza muri tra noi e la nostra libertà;
- di chi scrive leggi sui nostri corpi;
- di chi ci lascia morire di obiezione di coscienza;
- di chi ci ricatta con le dimissioni in bianco perché abbiamo figli o forse li avremo;
- di chi ci offre stipendi comunque più bassi di quelli degli uomini a parità di mansioni...
 
Dopo la grande manifestazione del 26 e l'assemblea partecipatissima del 27 novembre a Roma, ci riuniremo in un terzo appuntamento nazionale, il 4 e il 5 febbraio a Bologna, in cui riprenderemo la stesura del Piano femminista contro la violenza. Un piano scritto dal basso, dal vissuto delle donne, dall’esperienza dei centri antiviolenza femministi, dalle condizioni materiali e dalle necessità primarie per costruire concretamente percorsi di fuoriuscita dalla violenza. Discuteremo delle forme e delle pratiche dello sciopero. Le forme tradizionali del lavoro e della lotta si combineranno con la trasformazione del lavoro contemporaneo - precario, intermittente, frammentato - e con il lavoro domestico e di cura, invisibile e quotidiano, ancora appannaggio quasi esclusivo delle donne, ancora sottopagato e gratuito. Sarà uno sciopero dai ruoli imposti dal genere in cui mettere in crisi un modello produttivo e sociale che, contemporaneamente, discrimina e mette a profitto le differenze.
 
A cento anni dall'8 marzo 1917, torneremo in strada in tutto il mondo, a protestare e a scioperare contro la guerra che ogni giorno subiamo sui nostri corpi: la violenza, fisica, psicologica, culturale, economica.
Se le nostre vite non valgono, allora ci fermiamo!



A COSA SERVE LO SCIOPERO:
Lo sciopero è in primo luogo una forma di lotta che si fonda sul blocco della produzione e sull'astensione dal lavoro con l'obiettivo di produrre un danno economico e di rendere tangibile il ruolo del lavoro nella produzione.
Mutuiamo lo sciopero come pratica fondamentale per segnalare la nostra sottrazione da una società violenta nei confronti delle donne: per questo lo sciopero sarà articolato sulle 24 ore e riguarderà ogni nostra attività, produttiva e riproduttiva, ogni ambito, pubblico o privato, in cui discriminazione, sfruttamento e violenza su ognuna di noi si riaffermano.
Se delle nostre vite si può disporre (fino a provocarne la morte) perché ritenute di poco valore, vi sfidiamo a vivere, produrre, organizzare le vostre vite senza di noi.
Se le nostre vite non valgono, noi ci fermiamo.
 
Uno sciopero per ribaltare i rapporti di forza, per mettere al centro le nostre rivendicazioni, la necessità di trasformare relazioni, rapporti sociali e narrazioni. In casa, a scuola, sui luoghi di lavoro, nelle istituzioni. Uno sciopero che ha nel piano femminista antiviolenza la sua piattaforma e il suo programma di lotta e di trasformazione scritto dal basso.
 
COME SCIOPERARE L'8 MARZO:
Non esiste una sola forma di sciopero da sperimentare l'8 marzo. Esistono condizioni di lavoro e di vita molto diverse. Lo sciopero coinvolgerà lavoratrici dipendenti, precarie, autonome, intermittenti, disoccupate, studentesse, casalinghe. Indipendentemente dal nostro profilo, siamo coinvolte in molteplici attività produttive e riproduttive che sfruttano le nostre capacità e ribadiscono la nostra subalternità.
Per praticare concretamente il blocco delle attività produttive e riproduttive, elenchiamo solo alcune possibilità: l'astensione dal lavoro, lo sciopero bianco, lo sciopero del consumo, l'adesione simbolica, lo sciopero digitale, il picchetto...
Lo sciopero si rivolge principalmente alle donne, ma ha più forza se innesca un supporto mutualistico con gli altri lavoratori, le reti relazionali e sociali, chi assume come prioritaria questa lotta. Vogliamo trovare soluzioni condivise e collettive come è avvenuto in Polonia in cui molti uomini, mariti, compagni, padri, fidanzati, fratelli, nonni, amici, hanno svolto un lavoro di supplenza nello svolgimento di attività normalmente svolte dalle donne.
 
Le assemblee cittadine di Non Una di Meno e i tavoli di lavoro tematici, territoriali e nazionali, saranno il luogo privilegiato in cui costruire e immaginare le forme dello sciopero a partire dalle vertenze, dalle specificità del territorio e dalle reti attivate, attraverso iniziative pubbliche di confronto e di approfondimento in avvicinamento all'8 marzo. Sarà comunque utile immaginare strumenti che facilitino lo scambio di idee e proposte, la costruzione di immaginario, utilizzando il blog e campagne social.
 
L'assemblea nazionale del 4-5 febbraio a Bologna sarà l'occasione per definire e consolidare il piano politico e il coordinamento delle iniziative dell'8 marzo.
L'obiettivo è andare oltre l'evocazione e il simbolico e praticare concretamente il blocco delle attività produttive e riproduttive da parte del maggiore numero possibile di persone.
Abbiamo fatto appello ai sindacati per la convocazione di uno sciopero generale per l8 marzo così da permettere la possibilità di adesione al più ampio numero di lavoratrici dipendenti e a chi gode del diritto di scioperare.
 
Se sei precaria e non ti è garantito il diritto di scioperare, puoi chiedere un permesso (per esempio per andare a donare il sangue) e astenerti dal lavorare. Per chi lavora in nero o in modo saltuario si possono organizzare iniziative di sostegno materiale e casse di mutuo soccorso.
 
Grande ruolo potranno avere i centri antiviolenza in quella giornata organizzando iniziative e rilanciando il piano femminista contro la violenza a partire dall'esperienza e le competenze di chi opera in questo settore.
La pratica del picchetto può essere utilizzata per un doppio scopo: bloccare gli accessi per bloccare la produzione; praticare presidi di denuncia contro persone, narrazioni e comportamenti violente, svilenti e dannose per le donne (reparti a alta densità di obiettori di coscienza, luoghi di lavoro, testate giornalistiche…) sul modello dell'escrache argentino.
 
Per consentire anche a chi non può scioperare in altro modo, rilanciamo cortei o manifestazioni, diurne o serali, in tutte le città per riprenderci la notte e lo spazio pubblico, per fare marea e conquistare visibilità pubblica e protagonismo in ogni città.
--
Non Una Di Meno
Tw: @nonunadimeno
Fb: NON UNA DI MENO

mercoledì 11 gennaio 2017

La rivoluzione delle donne in Rojava

Vincere il fascismo costruendo una società alternativa
di Dilar Dirik* Pubblicato Mercoledì, 11 Gennaio 2017 su dinamopress.it
Le vediamo spesso su Internet o sulle pagine dei giornali: le donne curde non stanno combattendo solo l'Isis sui monti del Rojava, stanno anche distruggendo il sistema patriarcale
La resistenza contro lo Stato Islamico a Kobane ha fatto conoscere al mondo la causa delle donne curde. Con la loro tipica miopia, i media non hanno preso in considerazione le radicali implicazioni del loro gesto, ovvero l’essere pronte ad abbracciare le armi in una società patriarcale, e per di più contro un gruppo che sistematicamente stupra e vende donne come schiave sessuali, anzi, persino riviste di moda si sono appropriate della lotta delle donne curde per i loro scopi sensazionalisti. Le combattenti più “attraenti” finiscono nelle interviste e nei servizi che ne fanno poi un’immagine esotica da toste amazzoni. La verità è che, per quanto possa essere affascinante – soprattutto in una prospettiva orientalista – scoprire una rivoluzione femminile tra i curdi, la mia generazione è cresciuta riconoscendo le donne combattenti come parte della nostra identità.

L’Unità di Difesa Popolare (curdo: Yekîneyên Parastina Gel, YPG) e l’Unità di Difesa delle Donne (curdo: Yekîneyên Parastina Jin, YPJ) di Rojava, regione a maggioranza curda nel nord della Siria, affrontano il cosiddetto “stato islamico” da due anni e stanno opponendo una strenua resistenza nella città di Kobane. All’incirca il 35 per cento dei combattenti, un numero stimato di 15.000, sono donne.
Fondata nel 2013 come un’armata delle donne indipendente, il YPJ dirige autonomamente operazioni e addestramenti. Ci sono centinaia di brigate femminili sparse nel Rojava. Quali sono le motivazioni politiche di queste donne? Perché Kobane non è caduta? La risposta si trova nella radicale rivoluzione sociale che accompagna i loro fucili di autodifesa.

Innanzitutto bisogna analizzare le implicazioni di stampo patriarcale, nella guerra e nel militarismo, per comprendere la natura della lotta delle donne contro l’ISIS e della sistematica guerra condotta dall’ISIS contro le donne.
Normalmente, in guerra, le donne vengono percepite come parti passive nei territori difesi dagli uomini, mentre al contempo il sistematico ricorso alla violenza sessuale è strumento di dominio e umiliazione del nemico.
Essere militante è “non-femminile” (un-womanly); scavalca le norme sociali e mina lo status quo. La guerra è vista come una questione maschile: suscitata, condotta e conclusa da uomini. Che “combattente” possa dunque essere anche donna, crea disagio generale.
Nonostante la tradizionale divisione di genere esemplifichi e idealizzi le donne come delle sante, la punizione è altrettanto feroce una volta che abbiano osato violare il ruolo prestabilito. Questo è il motivo per il quale tante donne combattenti, ovunque nel mondo, sono soggette a violenza sessualizzata in quanto combattenti in guerra o prigioniere politiche. Come molte femministe hanno indicato, lo stupro e la violenza sessuale hanno poco o nulla a che vedere con il desiderio sessuale, ma sono strumenti per dominare e imporre la propria volontà su un’altra. Nel caso delle donne militanti, il fine della violenza sessualizzata, fisica o verbale che sia, è di punirle per essere entrate in una sfera maschile.

Le militanti curde stanno combattendo contro lo stato turco (secondo esercito più grande della NATO e primo ministro che si appella alle donne chiedendo loro di partorire almeno tre figli), contro il regime iraniano (il quale disumanizza le donne apparentemente nel nome dell’Islam), contro il regime siriano (stupro sistematico come strategia di guerra) e contro i jihadisti, come quelli dell’ISIS. Inoltre, combattono anche contro il patriarcato, ancora insito nella stessa società curda. E ancora contro matrimoni precoci e forzati, violenza domestica, delitti d’onore e cultura dello stupro.

L’ISIS ha dichiarato una guerra alle donne con rapimenti, matrimoni forzati e schiavitù sessuale. Si tratta di una distruzione sistematica della donna, una forma specifica di violenza: femminicidio. La violenza sessuale è il castigo per le donne militanti che sono entrate in una sfera riservata agli uomini, al “genere privilegiato”. Per i membri dell’ISIS, che dichiarano “halal” (lecito) stuprare le donne nemiche e che si aspettano 72 vergini in paradiso come ricompensa per le loro atrocità, le donne militanti sono certamente un perfetto nemico…

Nonostante l’esplicita natura sessista della guerra e della violenza, in tutto il mondo le donne si schierano in prima fila nelle lotte per la libertà ma, una volta che la “liberazione” è raggiunta, vengono respinte, rimandate nei ruoli tradizionali in modo di ristabilire la “normale” vita civile; considerando ciò, cosa possiamo imparare sulla liberazione da un punto di vista radicale?

La repressione delle donne curde avviene su vari livelli, e questa esperienza ha maturato in loro la consapevolezza che le diverse forme di oppressione sono interconnesse tra loro. Da qui scaturisce l’ideologia che ora anima la resistenza nei tre cantoni del Rojava dichiarati autonomi nel gennaio del 2014, tra cui, appunto, Kobane. È una resistenza che trova risonanza con gente in lotta in tutto il mondo, che sente la causa come propria.

Qual è il credo politico dietro la resistenza delle donne curde?
Noi non vogliamo che il mondo ci conosca per le nostre pistole, ma per le nostre idee, dice Sozda, una comandante del YPJ a Amude, indicando le immagini che tappezzano la loro stanza in comune: guerriglieri del PKK e Abdullah Öcalan, il rappresentante ideologico del movimento, attualmente in prigione.
“Non siamo soltanto donne che combattono l’ISIS. Noi lottiamo per cambiare la mentalità della società e mostrare al mondo di cosa siano capaci le donne Per quanto il PKK e l’amministrazione del Rojava non siano esplicitamente legati, condividono gli stessi principi politici.

Il PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan), fondato nel 1978, ha iniziato una guerriglia contro lo stato turco nel 1984. Inizialmente puntava all’indipendenza del Kurdistan, ma sorpassò ben presto i concetti di stato e nazionalismo, criticati in quanto oppressivi ed egemonici. Ora propugna un progetto di liberazione sotto forma di democrazia – inclusiva, femminista e radicale – e di autonomia regionale: “confederalismo democratico” ( parità dei generi, ecologia ) e democrazia diretta per tutti i gruppi ( etnici, linguistici, culturali e religiosi ).
Abdullah Öcalan afferma esplicitamente che il patriarcato, insieme al capitalismo e allo Stato, sono alla base di oppressione, dominazione e potere: L’uomo è un sistema. Il maschile è diventato Stato e lo ha trasformato in cultura dominante. L’oppressione di classe di genere si sviluppano insieme. La mascolinità ha generato il genere dominante, la classe dominante, e lo stato dominante.
Si ribadisce il bisogno di una lotta femminista autonoma e cosciente: la libertà della donna non può essere assunta una volta che una società ha ottenuto generale libertà ed eguaglianza.” 

I quadri del PKK frequentano seminari contro il patriarcato e a sostegno dell’uguaglianza di genere, in modo di cambiare il senso di privilegio e diritto naturale dell’uomo sulla donna. Öcalan dimostra le connessioni tra differenti istituzioni di potere: Tutte le ideologie, di stato e di potere, derivano da comportamenti sessisti […]. Senza la schiavitù della donna nessun altro tipo di schiavitù può esistere, e nemmeno svilupparsi. Il capitalismo e lo stato-nazione non sono che il maschile dominante nella sua forma istituzionalizzata. Detto con franchezza: il capitalismo e lo stato nazione sono il monopolio del maschio dispotico e sfruttatore”. 
Anche il movimento delle donne produce indipendentemente teorie e critiche sofisticate, ma che, nel Medio Oriente, il leader di una lotta per la liberazione metta la liberazione femminile come misura critica della libertà stessa, è pressoché straordinario. Solo leggendo, capendo la posizione di questo movimento e le sue azioni corrispondenti, è possibile comprendere la mobilitazione di massa delle donne di Kobane. Questa posizione non è emersa dal nulla, ma nasce da una tradizione radicata con un determinato sistema di principi.

Il PKK ripartisce ogni posizione nell’amministrazione tra un uomo e una donna, dalle presidenze del partito ai consigli di quartiere, tramite il principio di co-presidenza (co-chair concept, lett. “seggio in comune”). Oltre al fornire ad entrambi lo stesso potere decisionale, il concetto di co-presidenza mira a decentralizzare il potere, prevenire il monopolismo, e promuovere la ricerca del consenso (consensus-finding).
Il movimento delle donne è organizzato autonomamente, socialmente, politicamente e militarmente. Mentre questi principi organizzativi cercano di garantire la rappresentanza femminile, la mobilitazione massiva sociale e politica mira alla coscienza della società in modo da interiorizzare i concetti appoggiati. Influenzate dalla linea femminista del PKK, la maggioranza delle donne nel parlamento turco e nelle amministrazioni municipali sono curde. Insieme al YPG/YPJ, unità del PKK realizzarono un corridoio umanitario per salvare i Yazida nelle montagne del Jebel Sinjār (Nord-Iraq) ad agosto. Alcune donne del PKK morirono difendendo la cittadina di Makhmour, nel Kurdistan iraqeno, a fianco dei compagni uomini. Ispirati da questi principi, i cantoni del Rojava hanno rinforzato i meccanismi di copresidenze e quote, hanno creato unità di difesa della donna, comuni femminili, accademie, tribunali e cooperative.
Il movimento delle donne Yekîtiya Star è organizzato autonomamente in tutti i settori, dalla difesa all’economia, fino alla sanità. Assemblee e consigli femminili coesistono con quelli popolari e hanno potere di veto sulle decisioni di quest’ultimi. 

La discriminazione basata sul genere viene fronteggiata dalle leggi. Uomini colpevoli di violenze contro le donne non sono supposti a far parte dell’amministrazione. Nel bel mezzo della guerra, uno dei primi atti del governo è stata la criminalizzazione di fenomeni come matrimoni forzati, violenza domestica, delitti d’onore, poligamia, matrimoni precoci e il “prezzo della sposa”. Molte donne non-curde, specialmente arabe e siriane, si sono unite ai ranghi militari e amministrativi del Rojava e vengono incoraggiate ad organizzarsi autonomamente.
In tutti i settori, incluse le forze di sicurezza interna, la parità dei sessi è parte centrale dell’educazione e dell’addestramento. Mentre alcuni editorialisti affermano arrogantemente che le donne di Kobane lottano “per valori occidentali”, le accademie femminili in Rojava criticano la nozione delle donne occidentali più libere, e dell’occidente detentore di un monopolio dei valori come la parità dei sessi.

“Non c’è libertà individuale se l’intera società è schiavizzata”.
In seminari pubblici, le donne esprimono le proprie critiche alle scienze sociali e propongono vie di liberare il sapere dal potere. Eppure questa rivoluzione femminista popolare ed esplicita è completamente ignorata dai media mainstream.
La nostra lotta non è solo per la difesa della nostra terra, spiega una comandante del YPJ, Jiyan Afrin.
Noi in quanto donne facciamo parte di tutte le estrazioni sociali, indipendentemente se combattiamo l’ISIS o la discriminazione e violenza contro le donne. Stiamo cercando di mobilitare e di essere le autrici della nostra stessa liberazione”. 

Quale liberazione?
L’esperienza del movimento femminile curdo illustra che per una rivoluzione sociale significativa i concetti di liberazione devono essere sciolti dai parametri dello status quo. Per esempio, il nazionalismo è un concetto patriarcale. Le sue premesse limitano le lotte per la giustizia. Similarmente, l’idea di uno stato-nazione perpetua il sistema egemonico, oppressivo e dominante. Piuttosto che sottoscrivere questi concetti, la liberazione dovrebbe essere vista come una lotta senza fine, il tentativo di costruire una società etica, solidarietà tra le comunità e giustizia sociale.
Dunque, piuttosto che essere una questione basata sui diritti che carica il peso sulle donne, la liberazione e l’uguaglianza dei generi dovrebbe diventare una questione di responsabilità di tutta la società, perché misurano l’etica e la libertà della società stessa.
Per una lotta radicale e rivoluzionaria, la liberazione della donna deve essere nel processo sia obiettivo intrinseco, sia metodo attivo. La partecipazione politica deve andare oltre al voto e ai diritti e deve venir radicalmente reclamata dalle persone.

In un'era nella quale grandi statiste alimentano guerre ingiuste in paesi del terzo mondo pretendendo di “salvare le povere donne oppresse” , insieme a gruppi razzisti e maschilisti che credono di contribuire alla causa femminile nel medio oriente tramite azioni sensazionaliste egocentriche che loro considerano radicali, e nella quale l’estremo individualismo e consumismo sono propagati come emancipazione, le combattenti di Kobane hanno contribuito a ri-articolare il femminismo radicale rifiutandosi di attenersi alle premesse dell’ordine costituito da stato-nazioni capitalisti e patriarcali, reclamando l'autodifesa legittima, dissociandosi dal monopolio di potere dallo stato, e combattendo una forza brutale non per conto degli imperialisti, ma per una liberazione nella quale loro stesse stabiliscono i termini.
.
Da Kobane, la combattente YPJ Amara Cudî mi racconta via internet: Una volta ancora, nuovamente, i curdi sono apparsi sul palcoscenico della Storia. Ma questa volta con un sistema di autogoverno e autodifesa, specialmente per le donne, che ora, dopo millenni, scrivono loro stesse la loro storia per la prima volta. La nostra filosofia ha reso noi donne coscienti che possiamo vivere solo resistendo. Se non possiamo difendere e liberare noi stesse, non possiamo difendere o liberare altri. La nostra rivoluzione va oltre questa guerra. Per riuscire, è vitale sapere per cosa stiamo lottando”.

Senza questo impegno collettivo per scuotere la coscienza della società, per trasformare i senzavoce in attori politici, Kobane non sarebbe stata capace di resistere per così tanto. Questo perché la mobilitazione politica e ideologica della popolazione di Rojava sono imprescindibili dalle vittorie contro l’ISIS: una rivoluzione genuina deve prima sfidare la mentalità di una società. Perciò, la lotta delle donne contro l’ISIS non è solo militare, ma anche esistenziale. Esse non resistono solo contro la misoginia dell’ISIS, ma anche contro la cultura dello stupro e del patriarcato nella loro stessa comunità. Dopotutto, l’ISIS cavalca sopra il concetto di “onore” nella regione, costruito intorno ai corpi e alla sessualità delle donne. Per questo, un grande striscione nel centro di Qamishlo dichiara: “Noi sconfiggeremo gli attacchi dell’ISIS garantendo la libertà delle donne nel medio oriente.” Uno non deve simpatizzare con il PKK, ma non può nemmeno sostenere la resistenza a Kobane negando il pensiero che la alimenta, per poi esprimere solidarietà alle donne coraggiose che combattono l’ISIS. Non puoi scrivere l’epos delle donne di Kobane senza aver letto la vita di Sakine Cansiz, cofondatrice del PKK, che aveva guidato un‘insurrezione in un carcere turco e aveva sputato in faccia al suo torturatore. È stata assassinata insieme Fidan Dogan e Leyla Saylemez il 9 gennaio 2013 a Parigi. Donne come lei hanno aperto la strada alla lotta contro lo stato islamico – donne che erano state, prima dell’ascesa dell’ISIS, etichettate come prostitute, terroriste, streghe irrazionali e confuse, crudeli, perché combattevano lo stato turco, membro della NATO.
Oggi, le donne di Rojava decorano le loro stanze con foto delle loro compagne Sakine, Fidan, e Leyla.

La de-politicizazzione della lotta a Kobane priva i combattenti del senso del loro operato estrae la mobilitazione collettiva dal contesto – questo per interesse della coalizione, che consiste di stati che non solo avevano ignorato e marginalizzato la resistenza di Rojava all’ISIS per due anni, ma anche rifornito di armi gli stessi individui che poi avrebbero formato questo sanguinario gruppo.
Solidarietà con le donne di Kobane vuol dire anche interessarsi alle loro politiche. Vuol dire sfidare l’ONU, la NATO, le guerre ingiuste, il patriarcato, il capitalismo, la religione politica, il commercio mondiale di armi, il nazionalismo, il settarismo, il paradigma dello stato, la distruzione ambientale – i pilastri di un sistema che ha scatenato l’inizio di questa situazione.
Non permettete che coloro che hanno proiettato ombre buie, violente sul Medio Oriente e che causarono l’ascesa dell’ISIS, pretendino ora di essere i “buoni”. Sostenere le donne di Kobane vuol dire alzarsi in piedi e diffondere la rivoluzione.

* Pubblicato sul blog di Dilar DirikTraduzione a cura di Eugenia, da abbattoimuri

martedì 10 gennaio 2017

Lucia Fantetti: non lasciate sole le vittime di violenza

Una donna vittima di violenza segnala un centro antiviolenza alla Regione Emilia Romagna:

Egregio responsabile regionale,
Le scrivo per segnalare una violazione della norma per eccellenza che contraddistingue un'associazione onlus non profit da una di profitto, che per la fattispecie è il non chiedere nessun tipo di remunerazione da parte dei soci della onlus a coloro che si rivolgono al centro per beneficiare dell'assistenza di cui necessitano.

Mi sono rivolta al centro antiviolenza di xxxxx  nel giugno 2014, dopo aver presentato denuncia, per violenza subìta, presso la questura di xxxxx dove lo stesso poliziotto che prese la mia denuncia, mi consegnò poi un libricino informativo, sponsorizzando il centro antiviolenza per l'assistenza o consulenza legale gratuita.

Fissaì così un appuntamento con l'avvocato del centro, xxxx, che mi accolse senza informarmi che al terzo incontro avrei dovuto rivolgermi al suo studio privato, poichè secondo le regole di tale centro (che ricordo è onlus) le consulenze erano gratuite solo per 3 incontri.
Ed è stato così, a mia insaputa, che nel momento in cui ho avuto bisogno dell'avvocato per la presentazione della richiesta di opposizione all'archiviazione della mia denuncia, mi son ritrovata senza un legale che mi rappresentasse (l'avvocato in questione  non rispondeva più alle mie chiamate telefoniche né ai messaggi , dopo aver capito che ero in difficoltà economiche e non potevo pagarla).

Ho subìto tanta sofferenza e molte umiliazioni ritrovandomi sola ad affrontare impreparata (gioco forza) problemi più grandi di me. Tuttavia non mi sono data per vinta neanche di fronte a quest'altra ingiustizia, e sperando che ci fossero davvero centri antiviolenza che percepiscono aiuti economici per la difesa delle donne vittime di violenza, mi sono rivolta al forum solidarietà di xxxx per capire come fare per poter creare io stessa una associazione costituita e autogestita da vittime che denuncianola violenza. Un desiderio, questo, nato dalla necessità di non sentirsi abbandonate a noi stesse, sole, passando tra le mani di avvocati poco sensibili alle nostre difficoltà in quanto vittime, ma molto più attenti a lucrare sulle vittime di violenza.
Ed è così che, leggendo la normativa dei centri di volontariato, scopro che c'è una norma ben precisa che identifica le onlus, e cioè, che non è consentito nessun tipo di renumerazione o attività professionale a pagamento tra i soci e i beneficiari del centro, soprattutto quando i beneficiari sono in condizioni di difficoltà economica.

Sono attualmente in possesso due registrazioni audio che testimoniano l'operato del centro, oltre alle email che ho inviato sia al centro che ai due avvocati, presidente e vicepresidente. Certo, se avessi saputo che non avrei avuto assistenza legale gratuita, avrei evitato di espormi con una denuncia che poi è stata infine archiviata, e allo stesso tempo, sono stata pure denunciata di calunnia d'ufficio senza capirne il reale motivo!  Forse perchè non ho accettato di farmi estorcere soldi dal centro antiviolenza che opera in associazione con la questura?

L'avvocato del centro, al primo incontro mi disse che non potevo pretendere nessun tipo di risarcimento con loro, in quanto a costituirsi parte civile era unicamente il centro ed io dovevo essere testimone, cosa che rifiutai in quanto capiavevo capito che sarei  diventata un soggetto da usare per speculazione per conto di terzi soggetti.

A tutt'oggi sto vivendo un senso d'impotenza e malessere totale nel vedere come tale centro continua a pubblicizzarsi in difesa delle donne per raccogliere fondi, ma poi noi donne che denunciamo restiamo sole con le nostre battaglie legali, con le nostre ferite visibili e invisibili, e diventiamo anche bersaglio di minacce quando non accettiamo un certo modo di operare nell'interesse di una avvocatura attenta più a lucrare col proprio lavoro, piuttosto che a ridare dignità e diritti alle donne vittime di violenza.

Spero che l'ufficio responsabile della Regione si attivi nel praticare i dovuti controlli, affinchè noi vittime non veniamo più prese in giro e lasciate sole proprio da chi raccoglie fondi in modo subdolo, in nome di noi vittime.

Per qualsiasi chiarimento o testimonianza sono a disposizione, questo è il contatto telefonico,

Distinti saluti


Per firmare la petizione lanciata da Lucia Fantetti NON LASCIAMO SOLE LE DONNE CHE DENUNCIANO LA VIOLENZA clicca sul link
https://www.change.org/p/ministero-pari-opportunit%C3%A0-non-lasciamo-sole-le-donne-che-denunciano-la-violenza