(Quasi una lettera in attesa di risposte)
Per
quelle come me, che hanno vissuto dagli anni settanta un tempo lungo
segnato dalla sperimentazione di forti relazioni tra donne per uscire
dal sistema culturale e politico del patriarcato, essere oggi una
anziana femminista significa avere un patrimonio di consapevolezze e di
saperi che confliggono, a volte stridono dolorosamente, con molto di
quello che accade intorno a noi in ogni ambito della vita.
Quando ho iniziato il mio impegno nel movimento delle donne ero
cattolica osservante, artista per formazione e passione, insegnante
impegnata in una pedagogia e una didattica antiautoritarie. Avevo due
figli maschi molto piccoli e mi interrogavo in solitudine su come essere
madre in un altro modo, attenta a mostrare i valori della tenerezza e
della cura come responsabilità di tutt*: tra i loro giocattoli c’erano,
richiesti, la lavatrice e una bambola fino a quando… sono entrati nella
scuola per l’infanzia dove qualcun* ha detto loro che erano giochi “da
femmina”.
Venivo da una adolescenza vissuta nella convinzione che avrei
lavorato per vivere e che era possibile costruire con l’altro una
relazione di reciprocità, nonostante i modelli e i comportamenti
tradizionali dicessero il contrario; vivevo infatti con disagio il mio
corpo di donna esposto a rischi di aggressioni e offese (la violenza
sessuale era reato contro la morale pubblica e indicibile vergogna per
la donna; le botte del “capofamiglia” una normalità) e sopportavo come
inevitabili fatalità piccole e grandi discriminazioni quotidiane e
limitazioni di libertà.
Quando nel 1974 sono entrata nell’Udi non
conoscevo l’estenuante lotta delle donne per ottenere il diritto di voto
e nulla sapevo dell’impegno del movimento di emancipazione, di cui
l’Udi era parte fondamentale, per ottenere le principali leggi
antidiscriminatorie nel mondo del lavoro e leggi istitutive di servizi
sociali quali la scuola per l’infanzia e gli asili nido. Tuttavia ero,
senza rendermene conto, all’interno di un processo storico che mi aveva
in parte allontanato dall’esperienza quotidiana della maggioranza delle
donne della generazione di mia madre, senza libertà e dignità sociale,
eppure portatrici di un senso autentico dell’esistenza umana nel suo
risvolto materiale e relazionale e perciò, nonostante tutto, modelli
potenti di riferimento.
Fondamentale è stato il lavoro di ricerca delle storiche femministe, ma anche il riferirsi reciproco tra donne, la capacità di nominare e nominarsi al di fuori di un simbolico di disvalore. Mi ci sono voluti anni di riflessione, confronti, letture, convegni per conoscere e far conoscere quel faticoso percorso individuale e collettivo delle donne verso l’autodeterminazione e la libertà: eredità preziosa per il senso della vita e dello stare insieme che ci consegna, patrimonio in parte rimosso dalla trasmissione e tradizione culturale e politica di donne e uomini del nostro Paese eppure imprescindibile per superare tanta della violenza e dell’ingiustizia che ancora abitano la nostra imperfetta democrazia.
Stando nell’Udi ho incontrato da subito il neofemminismo nato tra la
fine degli anni sessanta e i primi anni settanta che, attraverso la
pratica dell’autocoscienza e una radicale critica al sistema patriarcale
in tutte le sue manifestazioni e i suoi saperi, ha rappresentato senza
dubbio per tante di noi una accelerazione e un potenziamento nel
processo di differenziazione dal maschile in termini di valore. Ma il
neofemminismo non è partito da zero: il patriarcato era già stato
scalfito in più punti da quelle venute prima.
Parlare di diritto
all’istruzione, al lavoro retribuito, al voto, affermare il valore
sociale della maternità, rifiutare la divisione sessuale dei ruoli,
riconoscere per le donne una soggettività degna di una esistenza libera
significava già due secoli prima iniziare a ribaltare, anche se con
alcuni palesi elementi di debolezza, i pilastri del patriarcato. Penso,
solo per fare alcuni esempi, alle donne inglesi del 1600, le
petitioniers, e alla loro pretesa di parlare nelle piazze, inoltrare
petizioni per chiedere pari poteri all’interno della Chiesa; o alle
donne della Rivoluzione americana e francese, del Risorgimento italiano;
infine alle protagoniste della Resistenza che hanno dato inizio, dopo
la parentesi fascista, alla seconda stagione dell’emancipazione.
Per questo quando dico femminismo intendo riferirmi ad un movimento
storico di donne transazionale, plurale e differenziato, con i suoi
conflitti interni e le sue contraddizioni, e patisco la cancellazione e
il disconoscimento da parte di autorevoli esponenti del femminismo
dell’autocoscienza che nelle loro narrazioni ed analisi fanno coincidere
la crisi del patriarcato e l’avvento della libertà femminile con
l’inizio della loro personale esperienza politica, riducendo
l’emancipazione a piatta omologazione al modello maschile. Mi sembrano
infantilmente ancorate ad una insufficiente e imprecisa dimensione
storica.Non è un caso che tra loro le storiche difficilmente fanno questo errore, costrette ad intrecciare emancipazione e libertà come elementi costitutivi dell’esistenza delle donne, ponendosi così al di fuori della logica del pensiero binario che preclude una conoscenza complessa della vita e dei soggetti.
Il mio femminismo si è da sempre posizionato nell’intreccio tra emancipazione e libertà, differenza ed uguaglianza, categorie che subiscono a loro volta i mutamenti che la libertà femminile sta producendo. E’ stato sempre forte in me il bisogno di costruire l’alterità nell’interconnessione, evitare quel rischio di sessismo alla rovescia contiguo a un essenzialismo irreale e inefficace.
Il mio desiderio più profondamente femminista è quello di saper agire i conflitti fuori da quel dualismo contrappositivo su cui il patriarcato, a partire dal rapporto uomo-donna, ha costruito per millenni pensiero, conoscenza, pratiche: mi sembra la strada più giusta per la libertà che è prima di tutto relazionale, nominabile e misurabile solo all’interno di tutte le nostre relazioni pubbliche e private.
Se penso a ciò che sono diventata, la mia gratitudine va a tutte quelle che mi hanno preceduta e arricchita o che mi hanno accompagnata e mi stanno accompagnando in questi lunghi anni segnati da un impegno che ha iniziato a restituire valore al mio genere, ha reso non più credibile la superiorità maschile e mostrato agli uomini una possibile strada per uscire da modelli che mortificano la loro dignità e il loro libero agire nel mondo. Sono grata da un po’ di tempo anche ad alcuni di loro, impegnati in una ricerca di sé al di fuori di modelli identitari tradizionali, poiché mi consentono di verificare l’autenticità della mia libertà in relazione alla loro, nella verità delle reciproche differenze, disagi, desideri.
Oggi, oltre me, vedo con sollievo e speranza tante giovani donne,
dislocate su più fronti, prendere in mano la propria vita e lottare con
passione e con una freschezza che in parte io ho perduto: il valore di
sé in quanto differenti, il diritto all’inviolabilità del corpo e della
mente e ad un lavoro umanamente sostenibile, la libera scelta in materia
di sessualità, orientamento sessuale e maternità. Le vedo costrette a
fare chi più chi meno i conti da un lato con canoni di bellezza e di
consumo insostenibili, dall’altro con un mercato del lavoro sempre più
selvaggio e disumano; tra loro c’è chi si sta misurando con nuove
tecnologie riproduttive che aprono scenari inediti e rischiano di
riconfermare la riduzione del corpo femminile a semplice contenitore,
proprio nel momento in cui la genitorialità viene riformulata non di
rado in termini di reciprocità e di condivisione dell’accudimento e
della cura. Vedo anche purtroppo da più parti nel linguaggio e nei
comportamenti, confusa con la libertà, una imbarazzante omologazione ai
valori maschili, una assenza totale di conoscenza del movimento di
emancipazione e del femminismo.
Sono convinta che noi femministe storiche (nel senso che abbiamo già
fatto insieme un pezzo di storia) dobbiamo imparare a consegnare nei
giusti modi la nostra complessa e plurale eredità lasciandoci
interrogare e contaminare: la nostra esperienza, i nostri saperi sono
nati in altri contesti storici e culturali; al contrario oggi si
impongono analisi, categorie interpretative e risposte adeguate al tempo
presente e ai differenti soggetti che lo abitano. E dobbiamo imparare
ad ascoltare quello che le nuove generazioni hanno da dire sulla loro
esperienza di cui noi non siamo titolari. Dobbiamo, impresa non facile,
provare a leggere insieme il contesto in cui ci è dato vivere se
vogliamo cambiarlo.
Siamo passat* nell’arco di pochi decenni da una
società connotata da una rigida regolamentazione di ruoli e poteri ad
una società tendenzialmente liquida rispetto a modelli, valori, identità
segnata da dati inediti come l’evaporazione del padre e la crisi della
famiglia tradizionale. Alcuni di questi cambiamenti sono l’esito
dell’irrompere nello spazio pubblico di noi donne, altri sono
determinati da un’idea di sviluppo che non siamo state in grado di
governare o da nuove tecnologie sempre più pervasive e condizionanti,
altri ancora sono frutto della reazione maschile alla nostra conquistata
libertà.
Ci accomuna perciò il desiderio di una socialità solidale e senza violenza a partire dalle relazioni di genere, di una società senza ingiustizie e diseguaglianze in un pianeta ogni giorno da salvaguardare e da amare.
Condividiamo in tant* la voglia di essere soggetti di cambiamento; questo richiede politica, una politica capace di governare le differenze, i conflitti, la complessità dentro e fuori di noi rinunciando alle dinamiche del potere come dominio, al narcisismo imperante; una politica orizzontale capace di superare la frammentazione dei tanti piccoli gruppi per un noi più ampio ed efficace, una politica che è in primo luogo costruzione della libertà di ciascun* in un contesto di responsabilità e cura verso gli altri e le altre.
Ci accomuna, infine, il desiderio di amare e di essere amat*, un amore da imparare a riformulare nella sua verità, mai più confuso con la gelosia, la violenza, la sopraffazione.
Sono da tempo convinta che l’amore in ogni sua forma, con la sua retorica fuorviante e i suoi intrecci col potere, rappresenti un luogo con forte valenza politica e resta a mio avviso il nodo più problematico e duro da sciogliere nel linguaggio e nei comportamenti. Abbiamo perciò, se lo vogliamo, una strada difficile da percorrere insieme controvento. Non vi pare?
Rosanna Marcodoppido
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