di Infosex - Esc Atelier
Se le donne di tutto il mondo fanno moltitudine
26 novembre 2016: Roma è tornata a essere bella. Donne di tre
generazioni differenti hanno aperto e attraversato una manifestazione
oceanica, moltitudinaria, di oltre duecentomila corpi sessuati che hanno
rotto e diradato la nebbia della prima mattina, il grigio, l'asfissia e
l'immobilismo che ormai sembravano regola, battito monotono e
irreversibile, del quotidiano. Il sole splende di nuovo, le strade
pulsano di vita, desiderio, gioia, quei corpi si intrecciano,
confondono, compongono: è marea. Non quella evocata per puro esercizio
retorico o strana licenza poetica – slogan spesso tanto più arroganti
quanto più frustrati – ma marea vera, che si riappropria della presa di
parola pubblica, dello spazio comune, impersonale, inappropriabile e,
perciò stesso, profondamente ed eminentemente politico. Del resto si sa,
con le donne non c'è Uno che tenga, che esso sia il Sovrano o il
Popolo. Una moltitudine dunque, ma non indistinta, piuttosto parziale e (orgogliosamente) differenziata,
quella che si è ingrossata e ha preso forma in questi mesi – ma forse
dovremmo dire anni – di lavoro, il più delle volte invisibile, nei
centri e negli sportelli anti-violenza, nei quartieri, negli spazi
sociali, nelle scuole e nelle università, quella che è scesa in piazza
lo scorso sabato per dire basta alla violenza maschile sulle donne.
Ma per leggere e interpretare cosa si è dato il 26 novembre a Roma e
già prima nelle piazze di tutto il mondo occorre allargare lo sguardo e
partire da lontano, ripercorrere lo sviluppo e l'intimo intreccio tra
antiche strutture patriarcali, modi di produzione e governo dei corpi.
Forse il maggiore contributo della critica femminista all'analisi
marxiana della genesi dei modi di produzione capitalistici è stato
quello di ampliare lo schema fondamentale della cosiddetta accumulazione
primitiva. Le recinzioni messe in atto agli albori della modernità non
hanno riguardato primariamente ed esclusivamente le terre, i primi
spossessati non sono stati i contadini, ma i corpi delle donne. Con
essi, i loro saperi e poteri, un modello altro di comunità. Meglio: la
traccia, a mezzo di violenza, di un confine netto tra produzione e
riproduzione, la recinzione delle donne – per dirla con Ivan
Illich – nello spazio chiuso del focolare domestico è stato ciò che ha
reso possibile il lavoro di fabbrica e, quindi, lo sviluppo
capitalistico. Presupposto per troppo tempo non detto delle enclosures è stata la “caccia alla streghe”, questo il grande insegnamento di Silvia Federici e, con lei, di un certo femminismo.
Come è noto la storia non ha un decorso lineare e ascendente, ma
procede per salti e discontinuità, arretramenti e giri a vuoto, arresti e
improvvise accelerazioni. E mai come oggi, in una rinnovata fase di
ristrutturazione capitalistica, non solo l'idea di progresso torna a
mostrare il suo volto propriamente ideologico, ma l'eterogeneità
temporale che caratterizza la produzione contemporanea – quella che
tiene insieme hi-tech e nuove forme di lavoro schiavile –
subisce una radicale intensificazione. Nuova accumulazione originaria
che porta necessariamente con sé processi di rifeudalizzazione,
quindi di inusitata ed efferata combinazione di arcaico e
(post)moderno, brutale ricolonizzazione dei corpi stessi che, ancora una
volta, colpisce in primo luogo le donne.
Bisogna partire da qui se, materialisticamente, si vuol comprendere
il fenomeno della violenza di genere come fenomeno strutturale e non
emergenziale. Bisogna partire da qui per capire e cogliere il senso
profondo che lega le forme specifiche di sfruttamento del lavoro
femminilizzato alle ultime e diverse proposte di legge che ambiscono,
con rinnovata efferatezza, a controllare e catturare la facoltà
riproduttiva delle donne, a distruggere l'accesso all'aborto, a limitare
drasticamente la libertà di scelta. Perché ai processi di nuova
accumulazione primitiva, spossessamento ed espulsione corrispondono
sempre nuove tecniche di disciplinamento e governo dei corpi. Bisogna
perciò, una volta di più, partire da qui per afferrare la
straordinarietà e la centralità delle lotte delle donne che si stanno
dando in tutto il mondo: dall'Argentina alla Polonia, dal Messico alla
Turchia, dal Cile all'Islanda, dal Brasile all'Italia.
Un nuovo movimento femminista globale è nato da queste premesse, lo
abbiamo visto a Rosario, Varsavia, Città del Messico, Istanbul,
Santiago, Reykjavík, Sao Paolo, Roma. Il suo metodo è fatto di
solidarietà, di creazione di nuove forme di mutuo sostegno e
auto-difesa, di traduzione – Ni Una Menos, Non Una Di Meno, Not One Less
–, nella consapevolezza che la partita in gioco ha a che fare con la
riconfigurazione del comando capitalistico che, in quanto tale, si muove
e agisce al di là dei confini nazionali. Un nuovo femminismo che è
finalmente combinazione virtuosa e alleanza reale non solo tra diverse
generazioni, ma anche e soprattutto tra diversi femminismi. Che ha
rimesso al centro l'intersezionalità come pratica per
immaginare forme di resistenza all'altezza dei dispositivi di controllo e
di sfruttamento contemporanei, i quali sollecitano e intensificano la
produzione delle differenze per estrarne valore. Riprendendo e
riattualizzando le suggestioni del Black Feminism, del femminismo
decoloniale e queer, si tratta di andare oltre l'idea di un
ipotetico essenziale femminile, di praticare l'intersezione delle
differenze e delle lotte delle e dei subaltern* del mondo per sovvertire
i meccanismi di sussunzione e cattura e imporre nuove pratiche di
liberazione e autodeterminazione.
In tal senso la marea che è scesa in piazza il 26 è stata (e vuole essere) una marea parziale, di parte
– la “parte dei senza parte”, direbbe Rancière –, che ha intrecciato e
combinato assieme le rivendicazioni delle donne con quelle delle
soggettività transfemministe, delle e dei migranti, delle studentesse e
degli studenti, delle e dei precari. La produzione contemporanea,
infatti, fa leva sulla cosiddetta femminilizzazione del lavoro,
categoria con la quale si intende non solo la generalizzazione a tutta
la forza lavoro di ciò che storicamente ha caratterizzato il lavoro
femminile – intermittenza, supplementarietà, gratuità –, ma anche la
messa a valore delle forme di vita, delle capacità di cura e relazionali
e, quindi, il divenire labile del confine tra produzione e
riproduzione, il divenire immediatamente produttivo della riproduzione.
È dalla materialità delle loro vite che le donne in tutto il mondo si
stanno sollevando, affermando un nuovo ordine del discorso rispetto al
problema della violenza di genere: violenza allora non è solo quella
fisica, il cui ultimo e tragico esito è il femminicidio, ma quella
generata da un sistema complessivo di produzione e sfruttamento che
utilizza strutture arcaiche e patriarcali, di segmentazione e
segregazione sociale. Si articola ed esprime sui luoghi di lavoro,
attraverso le molestie e le discriminazioni, la disparità salariale, i
sotto-compensi, il lavoro gratuito, attraverso l'assenza di un welfare
universale e individualizzato capace di garantire l'indipendenza
economica e quindi una reale possibilità di autodeterminazione, nelle
strutture sanitarie pubbliche, nelle “crociate anti-gender” tra i banchi
di scuola, negli sgomberi e nel definanziamento dei centri
anti-violenza e dei presidi delle donne. Ancora, violenza è quella che
vuole le donne vittime, silenziose e addomesticate, che pretende di
tappare le loro bocche, di oscurarle mediaticamente quando queste
tornano a gridare, ad affermare la propria potenza e libertà.
Ed è da qui, dalla parzialità dei corpi delle donne su cui è
inscritta la coesistenza e l'intreccio di produzione e riproduzione che
può ripartire un movimento radicale, capace di farsi moltitudine, in
grado di opporsi alle più complessive logiche e politiche neoliberali,
all'intensificazione dello sfruttamento, al controllo della vita in
quanto tale.
Fiere di essere incompatibili con questo sistema, le donne si sono
rimesse in movimento: a Roma, lo scorso 27 novembre, la marea si è
raccolta in un'assemblea che ha visto la partecipazione di oltre 1500
persone e ha iniziato il lavoro di scrittura dal basso di un Piano
Femminista contro la violenza che tenga conto della complessità e
dell'ampiezza del discorso al riguardo e, quindi, delle nostre
rivendicazioni su salute, libertà di scelta, lavoro e welfare,
educazione e formazione, nuovi modelli di mutualismo e auto-difesa.
Rivendicazioni che non si inscrivono semplicemente ed esclusivamente
nella cornice delle politiche istituzionali, ma che vogliono farsi – e
già sono – immediatamente strumento di lotta e trasformazione.
Per questo è stato accolto anche a Roma, come ormai in 22 paesi in
tutto il mondo, l'appello delle argentine che lancia lo sciopero globale
delle donne per il prossimo 8 marzo 2017.
Il mondo dovrà fare
esperienza di cosa significa “un giorno senza di noi”, senza le donne,
senza quella parzialità che è diventata paradigma dei modi contemporanei
dello sfruttamento. Si tratterà allora di capire cosa vuol dire oggi
bloccare la produzione e la riproduzione globali, la messa a valore
delle cosiddette soft skill, dei nostri stili di vita, dei
generi che ci vengono imposti, del lavoro invisibile e gratuito. Uno
sciopero sociale e politico, quindi, che sia anche innanzitutto sciopero
dai generi, blocco e sovversione dei meccanismi di cattura e controllo
delle differenze e delle soggettività. Reinventare la pratica dello
sciopero a partire dalla parzialità femminista, questa è la sfida, ricostruire il comune dello sciopero muovendo dal punto di vista di questa moltitudine differenziata,
tornare a far male al capitale, a inceppare l'ingranaggio, con la
tensione di chi vuole e pretende un cambiamento radicale. Da oggi la
marea ritorna in movimento, al grido di “Se la nostra vita non vale,
producete senza di noi!” inonderà le strade di tutte le capitali
globali, bloccherà il mondo.
Chi ha paura della marea, di questa marea, inizi a tremare.
fonte: http://www.dinamopress.it/news/chi-ha-paura-della-marea
fonte: http://www.dinamopress.it/news/chi-ha-paura-della-marea
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