Ora la bimba di 10 anni rischia di essere uccisa
articolo del 23 luglio 2014
scritto da
Monica Ricci Sargentini su LePersoneLaDignità
I fatti
risalgono al maggio scorso ma solo una settimana fa l’episodio è stato
denunciato al New York Times dalle attiviste per i diritti delle donne Women for Afghan Women,
un’organizzazione che si batte per proteggere le cittadine del Paese e
che viene spesso tacciata di americanismo, perché la bambina, che
chiameremo Afia, il 15 luglio è stata riconsegnata dalle autorità alla
sua famiglia nonostante in precedenza i genitori avessero minacciato di
ucciderla per lavare l’onore perduto.
E la donna che più l’aveva protetta la dottoressa Hassina Sarwari (nella foto a sinistra),
la direttrice del casa rifugio dove la bambina era stata accolta dopo
la violenza, è ora costretta a nascondersi dopo ave ricevuto minacce di morte e medita di lasciare il Paese.
E’ una vicenda triste, quella di Afia, di quelle che è difficile
scordare, perché perdono tutti “i buoni”: le autorità che hanno cercato
di perseguire l’imam e che sono state costrette a dimettersi, le
attiviste e naturalmente la vittima. Tuttora il mullah è ancora libero.
I fatti si svolgono ad Alti Gumbad in un villaggio alla periferia di
Kunduz, nel nord dell’Afghanistan.
Dopo lo stupro Afia sanguina così
tanto che rischia di perdere la vita perché non viene
portata subito in ospedale, la violenza è stata così brutale da averle
causato una fistola, cioè una rottura della parete che separa la vagina
dal retto. Nonostante ciò il mullah, Mohammad Amin, interrogato dalla polizia, ammette di aver avuto un rapporto sessuale con la bambina dopo la lezione di Corano ma dice che era consensuale, che pensava che Afia fosse più grande e che aveva risposto alle sue avance. Per riparare al danno fatto si offre di sposare la sua vittima.
Ma la capo dell’ufficio che si occupa delle questioni
femminili, Nederah Geyah, si batte per difendere la piccola. Va in
tribunale e mostra le foto di Afia in ospedale, uno scricciolo di 18 chili che chiaramente non ha ancora raggiunto la pubertà.
In Afghanistan i certificati di nascita sono un lusso per pochi ma i
medici attestano chiaramente che la bimba non ha ancora avuto le
mestruazioni e la madre assicura che ha solo 10 anni.
Tutto questo non piace agli abitanti del villaggio. La rabbia degli
uomini non si riversa contro il colpevole dello stupro ma contro la sua
vittima e le sue protettrici.
Quando la dottoressa Sarwari, che è una
pediatra, si presenta in ospedale per portare via la bambina i vecchi
del villaggio cercano di sbarrarle il passo, tra loro ci sono i
fratelli, il padre e lo zio della ragazzina. Sarwari riesce a parlare
con la zia di Afia che le spiega quello che succedendo: suo marito le
aveva ordinato di entrare in ospedale e prendere la bambina in modo che
potessero ucciderla e buttarla nel fiume.
Il caso è emblematico di come in Afghanistan sia sempre più difficile difendere le vittime di una violenza. Con il ritiro delle truppe internazionali gli attivisti per i diritti umani vedono venire meno risorse e sostegno: “Nessuno finanzia più i programmi per la nascita di una nuova società civile. E penso che tutti i progressi che abbiamo fatto negli ultimi 13 anni piano piano scompariranno” ha detto Geyal in un’intervista prima delle dimissioni.
I delitti d’onore nei casi di stupro sono comuni in Afghanistan e
spesso, per la famiglia della vittima sono più importanti della
punizione nei confronti dello stupratore. Secondo alcune Ong ogni anno
nel Paese 150 donne vengono uccise per questo motivo, probabilmente il dato è sottostimato.
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