IL LATO BICI - È partito a gennaio un corso di bicicletta rivolto a donne provenienti da Paesi in cui l’uso femminile delle due ruote è malvisto o non incoraggiato, retaggio di una visione che lo ritiene sconveniente e provocatorio. E che mi vede nell'inedito ruolo di "maestra". Impegnata a ragionare, gioco forza, sui malefici della sella
Tutto è cominciato dal sellino, il primo intimo punto di contatto tra la bicicletta e i genitali femminili. Non
fosse stato per la relazione pericolosa con la sella, non sarebbero
fiorite, a metà del 1800, le ipotesi di ulcerazioni, malesseri durante
il parto, sterilità, eccitazione sessuale costante che la bicicletta
avrebbe provocato sulle prime ardite cicliste donne. Meglio
sempre consultare “le médecin habituel de la famille” suggeriva un
manuale sull’uso dei velocipedi pubblicato a Tours, nel 1898, prima di
mettere una donna in sella.
Andare in bicicletta era ritenuto poco sano, ma soprattutto immorale. Le gambe delle donne avrebbero dovuto rimanere coperte, unite e immobili.
In bicicletta accadeva esattamente il contrario. Sconveniente era sia
salirci sia cadere scomposte. E solo i calzoni a sbuffo che si
restringevano sul polpaccio per impedire colpi di vento indiscreti, in
inglese chiamati bloomers perché fortemente sostenuti dalla femminista
Amelia Bloomer, arrivarono a salvare le donne dalla forzata immobilità
di gonnelloni e corsetti.
E’ dunque ragionando sul potere malefico attribuito alla sella che ho voluto cominciare le mie “lezioni”
come maestra di bicicletta a un gruppo di 16 donne straniere, per lo
più nordafricane, che incontro ogni martedì, da qualche settimana,
nei corridoi e tra i banchi di una scuola elementare in zona ovest, la
Luigi Cadorna, a Milano. Odori neutri. Cappottini appesi. Alberi dalle
chiome tondeggianti dipinti dai bambini alle pareti. Memorie di scuola
dimenticate. Nessun rimpianto da parte mia di un’infanzia che non è
stata super felice.
In questa scuola, coinvolta dagli amici Federico del Prete ed Ercole Gianmarco di Cyclopride
e da Mamme a scuola Onlus, ci entro con la mia bicicletta. Due piani di
scale e sono in un’aula di donne con gli occhi intensi, per lo più
sorridenti, per lo più coperte da abiti che non lasciano intravedere le
forme del corpo. Alcune con il velo. Donne egiziane, marocchine, eritree, ucraine. Che non hanno mai fatto sport.
Che non sanno cosa significhi spostare il peso del corpo su una sola
gamba e non cadere. Che non sono mai salite su una bicicletta. Nei Paesi
di provenienza è fonte di imbarazzo, di vergogna. Una donna in
bicicletta, nel Maghreb, sfida il comune senso del pudore. Provoca,
ostentando le sue forme. Nega la modestia che l’Islam impone
all’estetica. Corre il rischio di essere colpita o malamente apostrofata.
“Mi chiamo XY e ho 32 anni”, racconta una di loro. “Mi sono iscritta a
questo corso per imparare ad andare in bicicletta. Mi piacerebbe saper
pedalare. In Egitto non abbiamo le biciclette. Nella nostra cultura, gli
uomini godono di libertà, le donne no. Il rischio, per noi, è quello di
incorrere in molestie verbali. Per questo le ragazze hanno paura di
andare in bicicletta: temono di essere apostrofate in modo volgare. Io
son qui per cercare di rompere la regola. Mi piacerebbe fare anche dello
sport, una cosa nuova per me. Vorrei far parte della cultura italiana, imparare e non essere qui semplicemente per mangiare e dormire.
Sono qui per integrarmi. Posso dare, non solo prendere. Da qui posso
poi trasmettere alla mia comunità in Egitto l’idea che l’Occidente non è
poi così male…”.
A questa giovane donna con il velo e alle altre ho chiesto qualche
martedì fa di sedersi su una sella che avevo smontato da una delle mie
bici. Un selllino comodo, largo e da donna, con cui bisognava sciogliere
il ghiaccio. Eppure, non tutte hanno osato provarlo. Imbarazzo,
vergogna, retaggio, esitazione?
Il sellino non va demonizzato, ho detto: è solo il posto dove poggiamo le ossa ischiatiche che sostengono la colonna,
non le parti più delicate del sesso. Ossa di cui sono dotati anche gli
uomini. Che problema c’è a poggiare le ossa su un supporto di pelle e
schiuma? Avreste paura ad appoggiarci un gomito?
All’incontro successivo erano arrivate dalla Sicilia le biciclette Lombardo Bikes,
il costruttore che le ha offerte al progetto Mamme in bici -arriveranno
poi le rastrelliere fornite dal Politecnico, gli antifurti di Abus, le
selle d’artista regalate da Selle Royal e Girolibero da mettere
all’asta-. Le abbiamo montate: sella e reggisella, manubrio e
campanello, usando chiavi e brugole. I pedali lasciati per il momento da parte.
Con Federico e le altre operatrici, studentesse dell’Università
Bicocca, abbiamo chiesto alle future cicliste urbane di camminare:
sedute sul sellino, senza i pedali, per cominciare a prendere velocità,
sollevare di poco le gambe, tenere il manubrio dritto, provare i freni.
Alla fine, erano tutte stanche. Titubanti, arrossate, dubbiose che si
possa manovrare un manubrio senza cadere. Certe solo che il velo non
chiuda l’angolo visuale in curva. “Non sapevo che anche in Europa la
bicicletta fosse un tempo malvista”, mi dice una di loro.
Ignorano
le nostre allieve che le donne cominciarono più agilmente ad andare in
sella solo intorno al 1885 quando le ruote dei primi velocipedi
divennero più piccole, ovvero quando le biciclette si dotarono di catena
a trazione posteriore.
Non sanno che un articolo del New York
World di quegli anni consigliava, nel suo ciclo galateo, di “non urlare
se vedi una mucca in bicicletta, sarà lei a scappare per prima”. O che
l’affermarsi della bici in Europa sia intrecciato a doppio filo con le
rivendicazioni dei movimenti femministi.
In bici diventiamo tutti uguali: liberi nei movimenti, di
riappropriarci del corpo, di andare e venire. In Europa, la percentuale
di donne che va in bicicletta raggiunge il 49% in Germani e il 55% nei
Paesi Bassi.
In Arabia Saudita è consentito alle donne di pedalare a solo scopo ricreativo, in spazi delimitati, parchi e aree di ricreazione,
“only around in circles” ironizzava un titolo del Guardian di qualche
tempo fa, ma non per recarsi in alcun luogo e soprattutto mai da sole.
In Corea del Nord e Iran è reato. In Africa, sulle grandi distanze, la
bici salva vite, regala mobilità, accorcia i tempi di percorrenza tra
villaggi, case, mercati e scuole. Eppure è poco usata perché considerata
pericolosa – la Fédération Routière International stima che il 45%
degli incidenti in Africa coinvolga veicoli non motorizzati-, fonte di
paura, poco agile da inforcare con le tuniche proprie ad alcune culture.
Che ben vengano allora i film come La bicicletta verde di Haifaa al Mansour, i documentari come Mama Agatha sulle lezioni di bici alle donne migranti ad Amsterdam. Che ben escano nelle sale Afghan Cycles di Sarah Menzies che con l’associazione umanitaria Mountain2Mountain dal 2013 ha seguito dagli esordi la prima squadra di cicliste afghane e l’italiano Voglio una ruota sulla bicicletta al femminile che ha destinato al nostro Mamme in bici parte del suo crowdfunding.
La bicicletta come sfida alla regola manifesta e segno di
autoaffermazione? Per ora mi basta pensare che quella donna di 32 anni
che martedì ha imparato a camminare senza i pedali, e che in arabo mi ha
insegnato a dire “faccio la giornalista”, possa andarci a fare la
spesa, farsi un giro in un giorno di sole. Sentire che la sella, fuori e
dentro metafora, non fa poi così male.
fonte: IoDonna
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