Dalle origini dei primi movimenti emancipazionisti al Consiglio
Nazionale delle Donne Italiane, l'universo femminile ha dovuto lottare a
lungo per ottenere il diritto al voto e il pieno godimento dei diritti
civili. Non senza frizioni tra le diverse anime dell'associazionismo e
con numerose battute d'arresto, come la politica di espulsione dal
lavoro extradomestico voluta dal fascismo.
di Stefania Maffeo
In Italia la spinta propulsiva all'associazionismo femminile avvenne
all'indomani dell'Unità. Ma si trattò per lo più di movimenti informali,
nati nei luoghi femminili della storia: il forno per il pane, il
lavatoio, il salotto di casa, più o meno colto che fosse. Le donne hanno
dovuto associarsi per fare lotta comune perché prima della
costituzione delle associazioni in ente collettivo era la personalità
della donna singola illustre ad avere seguito. A cavallo tra XIX e XX
secolo l'associazionismo femminile assunse una maggiore struttura, ma lo
stato sociale era tutto da costruire: nel privato urgeva il cambiamento
della condizione della donna all'interno della famiglia; c'erano poi i
diritti civili che attendevano di essere riconosciuti, come quello
all'istruzione e alle libere professioni; infine, il diritto politico
per eccellenza era il "suffragio femminile". Le associazioni femminili
passarono così da una gestione filantropica al disegno assai più
ambizioso del raggiungimento dei diritti civili e politici. Un salto di
qualità gigantesco.
La presenza del partito socialista sulla scena italiana, la
mobilitazione dei cattolici nella politica sociale e l'accentuarsi del
processo di trasformazione dell'economia e del mercato del lavoro in
generale, videro le donne attive non solo nell'industria, ma anche nelle
prime forme di terziario. Si svilupparono così le condizioni per la
nascita di un movimento di rivendicazione da parte della popolazione
femminile. Nell'ultimo decennio dell'Ottocento crebbe nelle donne la
consapevolezza della propria condizione subordinata. E con essa
l'esigenza di organizzarsi e di riconoscersi in strutture politiche
specifiche.
La prima categoria di donne a organizzarsi fu quella delle maestre: esponenti dell'emergente ceto medio, dotate di buona cultura e di una relativa autonomia di movimento, queste donne ambivano alla parità salariale e, più in generale, a un
maggiore riconoscimento sociale. Molte di loro furono tra le fondatrici e
tra le prime iscritte di associazioni quali l'Unione femminile (nata a
Milano nel 1899 e poi diffusa in altre città italiane; la sezione romana
era presieduta da Anna Celli), l'Associazione magistrale femminile di
Milano e la Federazione romana delle opere di attività femminile,
istituita nel 1900 dalla contessa Lavinia Taverna. Anche impiegate,
contabili, telegrafiste e telefoniste affollavano le leghe di tutela
degli interessi femminili.
Tra il 1892 (anno di nascita del Partito Socialista Italiano) ed il 1902
si assistette alla formazione di sodalizi vicini alle organizzazioni
del movimento operaio. A Bologna, già nel 1890 era attivo un Comitato
per il miglioramento delle condizioni della donna; a Milano, nel 1893,
fu fondata la Lega per la tutela degli interessi femminili, composta da
un comitato di donne emancipazioniste e socialiste. L'associazione aveva
"per principio la causa femminile" e la sua attività si articolava su
un programma minimo di intervento pratico locale, che prevedeva
l'istituzione di una cassa di beneficenza, una campagna per il
miglioramento delle condizioni morali ed economiche delle maestre
d'asilo, delle telegrafiste, delle telefoniste, l'istruzione
professionale per le figlie delle operaie, l'ammissione delle donne ai
consigli di amministrazione delle opere pie e corsi di istruzione e di
aggiornamento, oltre, naturalmente, a proporsi lo "scopo delle
rivendicazioni dei diritti morali e giuridici della donna". Una lega con
scopi affini nacque a Torino nel 1894 per opera di Emilia Mariani e
Irma Scodnik, che l'anno successivo promossero la formazione di
associazioni simili a Venezia, Roma, Napoli e Palermo.
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Maria Montessori |
Nel 1896 queste leghe diedero vita alla rivista "Vita Femminile. Trimestrale della Confederazione delle Leghe Femminili".
Tra i sodalizi di ispirazione socialista e le associazioni "moderate"
c'era in comune l'attuazione di centri di cultura di base o di
aggiornamento, con la formazione di biblioteche, corsi e conferenze. In
questi centri di dibattito culturale, infatti, si discutevano i libri
appena usciti e si leggevano gli scritti di femministe straniere. Il 9
marzo 1901 la Federazione romana di opere di attività femminile
inaugurò, in piazza Nicosia a Roma, una biblioteca e una sala di lettura
per promuovere l'emancipazione socio-culturale delle maestre, che
fungeva anche da sede della stessa Federazione. L'associazione "Per la
donna" (nata nel 1897 a Roma, poi sciolta l'anno seguente e ricostituita
nel 1898 per iniziativa di Maria Montessori, Eva De Vincentiis e
Giacinta Martini Marescotti), cui aderiva Anna Maria Mozzoni, curava
diverse pubblicazioni, tra cui un corposo opuscolo, "L'oppressione
legale della donna", nel quale ogni articolo del diritto vigente era
dettagliatamente preso in esame e commentato perché fosse
strumento di conoscenza e di presa di coscienza per tutte le donne,
soprattutto per quanto riguarda il diritto privato che regolava i
rapporti familiari. All'inizio del Novecento il sodalizio si impegnò
nella creazione di un dormitorio femminile per offrire un rifugio
economico e moralmente sicuro alle lavoratrici nubili della capitale.
Un altro tipo di impegno che caratterizzò queste associazioni fu
l'attività di assistenza ai poveri, agli orfani e ai bambini
abbandonati. Una delle campagne più attive in questo settore fu quella
affrontata dall'Unione femminile, fondata a Milano nel 1899 da Ersilia
Majno Bronzini, con la costituzione di una società anonima cooperativa,
nella quale fu formato un Ufficio indicazioni ed assistenza, che iniziò a
funzionare nel 1901, indagando nei vari quartieri della città sulle
condizioni di vita di coloro che avevano fatto richieste di sussidio e
proponendosi anche, attraverso queste indagini, di compilare una
statistica nazionale dei poveri. L'Unione si impegnava anche nella
campagna contro la prostituzione o la tratta delle bianche ed era
collegata non solo con associazioni femminili italiane, ma anche con
quelle straniere. Aveva anche un suo giornale che uscì a Milano con
periodicità mensile dal 1901 al 1905, diretto dalla stessa presidente
Majno.
Sciolte le leghe femminili da Giuseppe Zanardelli in seguito ai fatti
del 1898, il 2 dicembre 1900 il governo presentò un progetto legislativo
firmato da Paolo Carcano sulla tutela delle lavoratrici. La legge fu
approvata nel giugno del 1902. Entrata in vigore l'anno seguente, non
accolse però le principali richieste avanzate dai movimenti femminili,
limitandosi sostanzialmente a porre il tetto massimo di 12 ore alla
giornata lavorativa delle donne. Diritto all'istruzione e al lavoro,
parità salariale, accesso alle professioni: questi "interessi femminili"
potevano trovare soddisfazione solo se le donne avessero avuto la
possibilità di influenzare le scelte politiche della classe dirigente
italiana.
Nel 1903 si costituiva ufficialmente a Roma il Consiglio Nazionale delle Donne Italiane (CNDI),
composto da tre federazioni: romana (la prima a costituirsi in ordine
di tempo), lombarda, diretta dalla contessa Sabina Parravicino di Revel,
e piemontese, presieduta da Giulia Bernocco Fava Parvis. La sua nascita
era collegata agli sforzi del Consiglio Internazionale delle donne
(CID) di estendersi anche in Europa. L'International Council Women
(ICW), formato dalle rappresentanti dei singoli Comitati Nazionali,
specialmente per impulso di May Wright Sewall, aveva organizzato nel
1888 un'assemblea costituente a Washington durante il Congresso
Femminile Internazionale convocato per celebrare il 40° anniversario
dell'incontro di Seneca Falls, cittadina americana dove nel luglio 1848
quattro signore, Lucretia Mott, Elizabeth Cady Stanton, Martha Wright e
Mary Ann McClintock, avevano elaborato i punti della Dichiarazione dei
sentimenti, il testo canonico della lotta delle donne per i diritto di
cittadinanza e i per diritti civili, un vero e proprio monumento del
femminismo americano.
Nel quinquennio successivo, il progetto associativo stentò a decollare:
solo nel 1893, accettando l'invito del Comitato Femminile
dell'Esposizione Mondiale a Chicago, si tenne la prima assemblea
generale dell'ICW, insieme a un Congresso Femminile Internazionale.
Rappresentanti di trenta paesi ebbero così modo di conoscere
l'organizzazione dell'ICW e molte di esse tornarono nei loro paesi con
il proposito di fondare un Comitato Nazionale. Le italiane non avevano
delegate, ma Fanny Zampini Salazaro, direttrice de "La Rassegna degli
interessi femminili", inviò un memoriale sullo stato del femminismo
italiano. I Comitati Nazionali parteciparono ufficialmente al secondo
Congresso generale, a Londra, nel 1899. Mrs. Chrashay fu delegata dal
Comitato promotore romano, mentre Maria Montessori, nel portare il
saluto delle donne romane, rappresentava ufficialmente anche il governo,
su incarico del Ministro della Pubblica Istruzione Guido Baccelli. Il
compito della Montessori era quello di sostenere la causa delle maestre e
di illustrare gli scopi di una società in via di costituzione, l'Unione
Materna, che si prefiggeva di tutelare le maestre rurali, e di cui
faceva parte il Baccelli stesso. La nomina della Montessori suscitò le
reazioni della Lega Femminile di Torino, la quale, mediante Emilia
Mariani, denunciò la scarsa rappresentatività della Montessori come
"femminista", nella quale le Leghe di Milano e Torino non si
riconoscevano.
In Italia, l'esiguità di un movimento femminile rispondente ai
caratteri e agli intenti del CNDI rese assai complessa la creazione di
un Consiglio Nazionale. Nel 1899 la gentildonna canadese Sofia Sandford
si recò a Roma come delegata del CID per occuparsi della questione.
Espose gli scopi del sodalizio a una assemblea ristretta e fu costituito
un Comitato promotore di cui facevano parte Lavinia Taverna, Giacinta
Martini Marescotti, moglie del letterato Ferdinando Martini e futura
presidente del Comitato Nazionale Pro-Suffragio, Maria Pasolini Ponti e
Teresa di Venosa, tutte di estrazione nobiliare.
Il 4 maggio del 1899 si tenne la prima assemblea generale della Federazione romana delle opere di attività femminile, a cui
parteciparono 36 società, preludio al definitivo Consiglio Nazionale
delle Donne Italiane. La presidente, contessa Taverna, ribadiva la
necessità di portare a conoscenza di tutti la vastità e la varietà delle
opere femminili, per ottenere riforme e vantaggi, creando fra le donne
"una corrente di simpatia e di mutuo intendimento". Un'insistenza
particolare era riservata all'esigenza della concordia fra donne, pena
l'inefficacia di ogni azione sociale. Nello stesso tempo veniva
evidenziato che non si voleva entrare nel merito delle simpatie
personali delle socie verso l'emancipazione femminista, ma precisare che
lo spirito della Federazione non era "spirito di rivolta, ma di
progresso legittimo e morale".
Nel 1901 la Federazione contava quaranta società aderenti, di cui la
maggior parte a carattere assistenziale e filantropico. L'anno
successivo, alla sezione educativa della Federazione se ne aggiunsero
due: lavoro e propaganda. La prima costituì la premessa alla nascita di
una società per azioni, la Cooperativa delle Industrie Femminili
Italiane (da cui nacquero, nel 1903, le Industrie Femminili Italiane),
formata e diretta esclusivamente da donne, con lo scopo di ridare vita a
lavori artigianali e di sottrarre le lavoranti a domicilio a forme
brutali di sfruttamento rendendole azioniste della cooperativa.
Presidente del Consiglio di Amministrazione era la contessa Cora di
Brazzà, vice presidente Lavinia Taverna, e socie Liliah Nathan (figlia
di Ernesto Nathan, futuro sindaco di Roma, e nipote di Sara Nathan), la
marchesa Etta De Viti De Marco e donna Bice Tittoni. Le intenzioni erano
quelle di creare "un vigoroso strumento di economia commerciale che
aprisse vie internazionali ai prodotti femminili italiani, educandole
pazientemente coi consigli dell'arte alle forme più elette, una grande
casa industriale capace di eliminare gl'intermediari che sfruttavano il
timido lavoro delle donne".
Nel 1903 si accelerarono i tempi per la costituzione definitiva del CNDI
in vista del Congresso Internazionale di Berlino del 1904, accogliendo
l'invito di Dora Melegari, la quale aveva proposto di utilizzare le
conoscenze personali su cui le singole socie potevano contare nelle
varie città. Il Congresso di Berlino segnò la nascita dell'International
Woman Suffrage Alliance, progetto a cui le suffragiste lavoravano da
tempo, insoddisfatte del moderatismo del CID. Prese quindi una sua
fisionomia definitiva il Comitato Nazionale italiano, composto non più
dalla sola federazione romana, ma anche da quella lombarda e piemontese e
da numerose società affiliate. Il CNDI dovette fare i conti, fin dagli
inizi, con la sua anima federativa, che lo rendeva forte rispetto alle
associazioni diffuse sul territorio, ma debole per l'inadeguata
ramificazione nazionale e i conflitti tra le componenti associative. Il
Comitato Direttivo era costituito da una presidente, da due o tre vice
presidenti, da due segretarie addette ai verbali e alla corrispondenza,
da una cassiera, da sei consigliere elette dall'assemblea generale e dai
presidenti delle Federazioni regionali e delle sezioni di lavoro.
Spettava al Comitato individuare i settori operativi e proporli
all'assemblea, mentre la presidenza aveva il compito dei contatti con le
Federazioni, vigilando che il loro operato fosse conforme a quello del
CNDI. Le cariche, che in teoria dovevano avere un limite temporale, si
mantennero per molti anni nelle mani delle stesse persone, cosa
frequente in molte associazioni femminili. Fu il caso della contessa
Gabriella Spalletti Rasponi (discendente da Gioacchino Murat e Carolina
Bonaparte), presidente del CNDI dal 1903 fino alla morte, avvenuta nel
1931. Con il suo ruolo poteva intervenire in ogni questione: dirigeva le
assemblee generali e le riunioni del comitato direttivo, interveniva
alle riunioni delle sezioni di lavoro centrali, poteva assistere o farsi
rappresentare a quelle delle Federazioni regionali, aveva facoltà di
formare commissioni di studio su problemi particolari e, infine,
assisteva alle sedute dell'Executive (Comitato Esecutivo del CID, che si
riuniva ogni due anni e del Quinquennale). La Spalletti Rasponi dovette
a più riprese difendersi dalle accuse di una gestione troppo accentrata
e personalistica.
Il I Congresso Nazionale delle Donne Italiane del 1908 fu
preceduto dal convegno delle donne cattoliche tenutosi a Milano
nell'aprile del 1907, a cui aderirono l'Unione Femminile, il CNDI e
alcune esponenti socialiste. Il risultato finale dei lavori fu una
piattaforma che prevedeva la riduzione dell'orario di lavoro e la parità
di retribuzione, la libertà di accesso a tutte le carriere femminili
qualificate, la riforma del Codice, con l'abolizione dell'autorizzazione
maritale, l'introduzione della ricerca di paternità e il voto
amministrativo.
Alcune donne reclamavano da tempo la creazione di un movimento femminile
all'interno delle organizzazioni cattoliche, ma si erano scontrate con
la diffidenza dei gruppi più conservatori.
Nel 1901 erano sorti a Milano il Fascio Femminile Democratico Cristiano
e la Lega Cattolica per la rigenerazione del lavoro, con la richiesta
di una sezione femminile dell'Opera dei Congressi, ma, dopo che questa
fu disciolta nel 1904, il progetto era stato abbandonato. Adelaide Coari
aveva allora fondato la rivista "Pensiero e Azione", organo del Fascio
Femminile Democratico Cristiano di Milano, e, nel 1905, aveva dato vita
alla Federazione Femminile milanese.
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Paolo Carcano |
Nel 1908 si svolsero due congressi: quello del CNDI e quello indetto
dall'Unione Femminile Nazionale, a riprova di un sotterraneo disaccordo
fra le due federazioni. L'Unione Femminile, infatti, non aderì al
Congresso di Roma se non alla seduta indetta dal Comitato Nazionale
Pro-Suffragio. La circolare del CNDI che annunciava l'assise del 1908
indiceva un Congresso "onde poter largamente discutere e studiare alcuni
problemi che sempre più s'impongono a chi sente il dovere di
partecipare al lavoro sociale. Il desiderio dunque di una conoscenza
sempre più profonda e sicura delle questioni così complesse che
riguardano le opere alle quali tante donne oggi dedicano la loro
intelligenza e la loro attività ci ha guidate nella scelta dei temi da
discutere al Congresso nazionale. Sono i seguenti: Educazione e
Istruzione. Assistenza e Presidenza. Condizione Morale e Giuridica della
Donna. Igiene. Arte e Letteratura femminile. Emigrazione". La circolare
era firmata dalla presidenza del Consiglio Nazionale delle Donne
Italiane: Contessa Gabriella Spalletti Rasponi, Contessa Lavinia Taverna
e Dora Melegari, Berta Turin, Beatrice Betts, Giorgia Ponzio Vaglia,
Maria Grassi Koenen. Il Comitato permanente era formato dalla stessa
presidenza del CNDI e dalla contessa Sabina Parravicino di Revel, Giulia
Bernocco Fava Parvis, la baronessa Elena Franch.
La seduta inaugurale avvenne a Roma in Campidoglio nella sala
degli Orazi e Curiazi il 23 aprile alle ore 10,30 di fronte a un
pubblico numerosissimo (oltre 1400 donne), alla presenza di Sua Maestà
la Regina e della principessa Laetitia. A prendere la parola per primo
fu il sindaco Ernesto Nathan, seguito dal Ministro della Pubblica
Istruzione on. Luigi Rava, e, infine, dalla presidente Gabriella
Spalletti Rasponi. Molte le proposte nuove e le analisi acute fatte
dalle relatrici, anche durante le discussioni seguite agli interventi.
Anita Dobelli Zampetti, ad esempio, per favorire una riforma
dell'educazione femminile in Italia propose l'inserimento di una materia
propedeutica a tutte le altre: la storia sociale della donna. Lisa
Noerbel, presidente regionale della Società Amiche della Giovanetta a
Milano, propose che in tutte le scuole femminili secondarie inferiori e
superiori si introducessero esercitazioni di oratoria e discussione, per
abituare le giovani a parlare in pubblico, esperimento già fatto da
molte insegnanti che avevano alternato il componimento scritto con
l'orale.
Gli ordini del giorno votati alla fine dei lavori della sezione
Educazione e Istruzione riguardarono la scuola mista, necessaria alla
preparazione della futura concorrenza professionale. L'istruzione
elementare obbligatoria andava proseguita fino alla sesta classe con un
limite di età non inferiore ai dodici anni. Nella scuola secondaria
dovevano inoltre essere aperte sezioni propedeutiche agli studi
universitari, mentre venivano riservati corsi di preparazione
teorico-pratica all'istruzione primaria. C'era bisogno infine
dell'apertura di scuole professionali sul modello di quelle sorte a
Milano e a Roma, oltre a scuole agrarie e a cattedre ambulanti. La
signora Monteguarnieri osservò che il compito della scuola era anche
quello di far nascere un affiatamento tra donne di varia condizione, per
uno scambio di esperienze destinato a cementare non un'uguaglianza
utopistica, ma una solidarietà capace di giovare collettivamente.
Le relazioni di apertura della sezione Assistenza e Previdenza
analizzarono il sistema della beneficenza, invocando il passaggio a
criteri di gestione più moderni, propri di uno stato assistenziale e non
paternalista. Perno fondamentale era la mutualità. Si concordò che lo
Stato sarebbe diventato contribuente diretto della Cassa Unica
d'Assicurazione Mutua per la Maternità, di cui si era parlato per la
prima volta al primo Congresso Infortuni sul lavoro nel 1894.
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Anna Kuliscioff |
Grande importanza aveva per il CNDI, in un progetto "pedagogico"
di formazione della nuova coscienza femminile, la sezione giuridica, la
quale, complementare a quella educativa, doveva garantire
l'acquisizione, previa una salda coscienza dei propri doveri, di nuovi
diritti, come quelli legati all'esercizio di professioni liberali. La
sezione fu diretta per molti anni da Teresa Labriola, figlia del
filosofo divulgatore del marxismo in Italia ed esclusa dall'esercizio
dell'avvocatura pur avendo già alle spalle anni d'insegnamento universitario come docente di Filosofia del diritto. Il comparto
giuridico promosse inchieste sulle donne laureate, per favorire
l'accesso effettivo a tutte le professioni e per rivendicare il diritto
di voto, se pure dopo adeguato tirocinio alla conoscenza dei meccanismi
della vita politica e sociale.
La Labriola fu portavoce per anni nel Consiglio di istanze sociali
vicine a posizioni socialiste, sulla scia del pensiero paterno.
Progressivamente, allo scoppio del conflitto, la Labriola abbracciò
posizioni accesamente interventiste e, in disaccordo col CNDI, diede le
dimissioni dalla sezione giuridica, venendo sostituita dalla Benetti
Brunelli, che propose l'abrograzione dell'art. 377 del Codice Penale
sull'omicidio per adulterio invitando a reagire energicamente contro
l'acquiescenza verso questo genere di delitti e verso drammi passionali
nei quali quasi sempre la donna è vittima. La sezione giuridica affrontò
anche il problema della violenza carnale e della corruzione delle
minorenni. Il codice fissava "l'età della ragione" delle donne a 12
anni, nel caso specifico della violenza carnale. La sezione propose
un'azione di riforma per portare a 18 anni il termine dell'età. Un altro
punto fondamentale della discussione fu il rifiuto del matrimonio
riparatore e la richiesta di pene più severe per i rei di violenza,
accanto all'introduzione di corsi di "istruzione sessuale" per i
giovani, maschi e femmine, in modo che, conoscendo il proprio corpo,
imparassero a rispettarlo ed a non temerlo.
Nella sezione Igiene l'insegnante di pedagogia Lina Maestrini
parlò della efficacia della Carta Biografica consigliata dal Sergi e
compilata dal maestro in sintonia col medico scolastico e con i principi
della pedagogia scientifica. La Carta si divideva in tre grandi voci:
dati antropologici e fisiologici, dati psichici e dati fisio-psichici.
Moltissime relazioni erano dedicate alla tubercolosi e alla sua
profilassi, nelle scuole, nelle case e nei luoghi pubblici.
Uno dei temi più attuali ed interessanti per la sezione Letteratura ed
Arte era il rapporto fra donne e lavori connessi alla scrittura. Secondo
Alma Dolens, pseudonimo di Teresa Pasini de' Bonfatti, a battaglie come
la ricerca della paternità, la difesa delle minorenni, la guerra alla
tratta delle bianche, la lotta contro la tubercolosi, l'assistenza alle
emigranti, le Casse di Maternità nazionale, gli asili notturni, le
colonie agricole, i ricreatori, i sistemi moderni di assistenza
familiare, le donne impegnate nella stampa avrebbero potuto dare una
diffusione insostituibile. Molto discussa fu la proposta di Luigi di San
Giusto, pseudonimo di Luisa Macina, sulla creazione di una associazione
Femminile di giornaliste per la tutela dei loro interessi, visto che
fino ad allora i giornalisti uomini non riconoscevano le donne come
colleghe, ma come scrittrici. Fu concordato un più largo accesso delle
donne nel giornalismo per una cooperazione nella cronaca, dove la donna
poteva correggere la "tendenza immorale del giornalismo contemporaneo" e
per una equa retribuzione del giornalismo femminile, insieme
all'accesso a cariche speciali nell'associazione della stampa.
Singolare l'intervento di Giuseppina le Maire sui vestiari per le
attrici. Segnalava il caso recente del suicidio di una giovane attrice
piena di talento, ma sprovvista dei mezzi per procurarsi il guardaroba
personale per recitare, a totale carico delle attrici e particolarmente
costoso. Altrettanto interessante la relazione della signora Rosa
Genoni, antesignana del socialismo. Il suo ordine del giorno in favore
di una moda nazionale, e approvato a grande maggioranza, recitava: "Bene
augurando dal prospero risveglio in Italia di tutte le industrie
complementari dell'abbigliamento muliebre e dal continuo sorgere di
scuole professionali femminili: considerato che il senso dell'arte e
della bellezza è tradizionale patrimonio dell'ingegno italiano, tenuto
presente che mai come oggi si delineò nel nostro paese una spiccata
tendenza ad originali ed indipendenti affermazioni estetiche nei vari
rami dell'arte decorativa si fa voti che come già per l'industria del
ricamo e delle trine sorgano in ogni regione d'Italia delle associazioni
tra dame, istituti, artisti, e artefici per la pratica attuazione di
una moda nazionale nell'abbigliamento femminile".
Infine, miniere d'informazione erano le relazioni della sezione
Emigrazione sulla vita delle donne italiane nel mondo. I dati
sull'emigrazione in Brasile, su cui relazionò la Chiaraviglio Giolitti,
tracciarono un quadro impressionante. Negli anni 1871-80 gli emigranti
italiani superavano già di molto nello stato di San Paolo quelli delle
altre nazioni, ma, quando nel 1888 venne soppressa la schiavitù in
Brasile, gli Italiani erano circa 80.000. La coincidenza tra l'aumento
degli emigranti e l'abolizione della schiavitù lasciava capire l'impiego
lavorativo degli Italiani: la sostituzione degli schiavi nelle
piantagioni di caffè.
Il Congresso del 1908 chiuse a suo modo un'epoca nell'associazionismo femminile. La fondazione dell'Unione Donne Cattoliche nel 1910 (UDCI) sancì una sorta di spaccatura nel CNDI. Il CNDI fu infatti eterogeneo e
tendenzialmente centrifugo, quindi lontano dall'avere caratteristiche
unificanti. I suoi legami con gli ideali repubblicani furono evidenti e
testimoniati sia da personalità significative, sia dall'applicazione
pratica di principi socialmente progressisti d'impronta mazziniana. Nel
discorso della presidente, Gabriella Rasponi, si avvertiva chiaramente
un'insistenza di fondo per l'elevazione morale e sociale della donna che
passasse attraverso il richiamo mazziniano alla coscienza dei propri
doveri per poter ottenere dei diritti.
Il CNDI prese sempre le distanze da collegamenti partitici troppo
evidenti, come del resto era sancito nello statuto (secondo l'articolo
17 del regolamento del congresso "spetta a chi dirige le adunanze
regolare l'andamento della discussione onde questa mantenga sempre un
carattere obbiettivo e non degeneri mai in questione politica o di
partito"), anche se alcune battaglie col mondo femminile di area
repubblicano-socialista furono comuni, per esempio quella sulla laicità
della scuola e sul suffragio. La proposta della maestra socialista Linda
Malnati di abolire l'obbligatorietà dell'insegnamento religioso nella
scuola e di un insegnamento comparato della storia delle religioni
produsse quella spaccatura definitiva con una larga parte del mondo
cattolico femminile. Alla terza assemblea generale a sezione riunite,
tenutasi il 28 aprile, fu presentato l'ordine del giorno
all'insegnamento religioso confessionale nelle scuole. Al momento del
voto, per alzata di mano, molti uomini presenti in aula votarono,
nonostante l'espresso divieto a partecipare ai deliberati del congresso.
Altrove la spaccatura fu radicale, come ad esempio sulla questione delle Casse di Maternità.
Il movimento emancipazionista di area socialista premeva per un loro
patrocinio statale; il CNDI e altri settori dell'associazionismo
optavano per una gestione privata delle Casse con contributi privati
delle operaie, senza sovvenzioni statali. La sezione di assistenza
presieduta da Alda Orlando istituì nel 1907 una Cassa di assistenza e
previdenza per la maternità, organizzata e gestita da una commissione di
signore romane guidata dalla contessa Maria Luisa Danieli Camozzi; il
governo e la regina Elena contribuirono con un sussidio, integrato da
azioni emesse dal CNDI. Ogni operaia era tenuta a pagare 25 centesimi al
mese e, dopo dieci mesi di versamenti, aveva diritto a una lira e
quindici dopo il parto. Balli di beneficenza e conferenze contribuirono a
formare il capitale della Cassa, mentre non si prevedevano contributi
né da parte dello Stato, né degli imprenditori. Divergenze ci furono
anche sulla concezione del lavoro femminile. Parecchie, all'interno del
CNDI erano favorevoli ad un lavoro a domicilio bene organizzato, mentre
in vasti settori dell'emancipazionismo stava maturando l'idea che il
diritto della donna al lavoro non era solo un dovere e che esso non
andava difeso solo per gli impieghi qualificati, ma anche in luoghi di
aggregazione come le fabbriche, per il valore fondamentale della presa
di coscienza attraverso la collettivizzazione di esperienze di vita e di
lavoro. Analoghe distanze prese il CNDI dalle iniziative riguardanti le
riforme dell'istituto familiare per quel che concerneva l'equiparazione
degli illegittimi con i legittimi; il Consiglio preferiva insistere
sull'elevazione morale e culturale e sull'educazione ai doveri della
donna, della donna-madre, della donna-lavoratrice.
Sulla questione del voto fu tenuta un'assemblea plenaria,
organizzata dal Comitato Nazionale Pro-Suffragio femminile. Il dibattito
gravitò non tanto sul diritto di voto come difesa degli interessi
economici, civili e sociali della donna e sui vantaggi che sarebbero
potuti derivare, ma su come si poteva influire sul governo e sul
Parlamento per ottenere il suffragio femminile.
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La donna fascista: madre e moglie |
Il voto non sarebbe stato ottenuto fintanto che non si fosse costituita
in Parlamento una maggioranza favorevole a concederlo; pertanto era
necessario formare in ogni collegio elettorale un comitato suffragista
per esercitare una pressione costante sul rappresentante locale, tenendo
presente che era necessario che il gruppo suffragista s'interessasse
alle elezioni in modo da far capire ai deputati quale riserva di voti si
lasciassero sfuggire escludendo le donne. Prima dei rappresentanti del
Parlamento, le donne avrebbero dovuto indurre i partiti a inserire il
suffragio femminile nel loro programma. Non era ancora tempo
per prospettive più ampie e complesse: le donne, infatti, si erano
appena presentate sulla scena politica e sentivano ancora il bisogno di
appoggiarsi a strutture preesistenti. Col passare del tempo si preferì
passare ad altri interventi sul tema del voto in cui, però, ci si
limitava ad enumerare le cause dell'ostilità a questa concessione con
minore o maggiore genericità.
La rivendicazione del suffragio da parte delle emancipazioniste era
stata avanzata già dopo l'Unità e, periodicamente, in Parlamento era
stato presentato senza successo qualche progetto che prevedeva
l'esercizio del voto, anche se limitato ad alcune categorie di donne o
alle consultazioni amministrative. Il tema venne riproposto con vigore
dal movimento nei primi anni del XX secolo. Le donne socialiste si
battevano da tempo per il riconoscimento di questo diritto: fin dal 1897
l'appello lanciato "Alle donne italiane" dal Gruppo milanese
sottolineava come lo Stato considerasse le donne "straniere" nel loro
Paese, escludendole da un diritto riservato dallo statuto a tutti i
cittadini, e rivendicava il voto come strumento per migliorare la
condizione della lavoratrice, per promuovere efficacemente una campagna
antimilitarista e, in generale, per intervenire a modificare la quantità
della vita delle donne e di tutti gli sfruttati.
La proposta dell'on. Mirabelli, dell'Estrema Sinistra, presentata nel
giugno del 1904 per estendere il voto alle donne, rappresentò
l'occasione per una campagna sulla quale si ritrovarono moderate e
radicali, organizzare in diverse associazioni. Dovunque si costituirono
società per il voto femminile, si sviluppò una vasta campagna di stampa
attraverso i giornali emancipazionisti. Intorno al 1906 nacquero "La
Vita" diretto da Olga Lodi, "Eva Moderna" repubblicano, "L'Alleanza"
fondato dalla società Carmela Baricelli. Anche molte donne cattoliche si
organizzarono in leghe in cui si raccoglievano operaie dell'industria e
lavoratrici agricole. Le socialiste avevano partecipato e promosso
comitati pro suffragio: nel 1905 la Lega per la tutela degli interessi
femminili di Milano, ormai sciolta, devolvette il suo fondo cassa
residuo "per le spese necessarie a costituire un comitato nazionale che
prepari le donne all'esercizio cosciente di questo nuovo diritto".
Il periodo più intenso di collaborazione tra emancipazioniste cattoliche, laiche e socialiste
va dalla fine del 1906 al congresso di Roma del 1908. La Kuliscioff fu
costretta a richiamare più volte il partito socialista a una presa di
posizione netta: nella primavera del 1910 si sviluppò sulle pagine di
"Critica Sociale" la "polemica in famiglia", come la definì lei stessa,
amareggiata dall'atteggiamento di Turati, che temporeggiando
sostanzialmente poneva un freno alla conquista del voto femminile. La
solidarietà tattica tra militanti socialiste di base ed emancipazioniste
si ruppe: gli ultimi impegni comuni erano stati la formulazione di un
manifesto per il diritto all'elettorato, presentato da tutte le
associazioni per il voto nel maggio del 1910 ed il pro suffragio
femminile di Torino del maggio del 1911. La lotta subì un contraccolpo
nel 1910 quando la caduta del ministero Sonnino impedì la discussione
della proposta di legge dell'on. Gallini che prevedeva l'estensione a
tutte le donne oltre i 25 anni del diritto di voto nelle elezioni
amministrative, l'abolizione degli articoli del Codice Civile
sull'autorizzazione maritale, il diritto a esercitare qualunque
professione e a concorrere a tutti i pubblici impieghi.
La campagna che preparò la riforma fu sostanzialmente dominata dalle
socialiste, attraverso il giornale "Su Compagne!", nato nel 1906 e
diretto da Angelica Balabanoff, che, nel 1912, si fuse col nuovo
settimanale "La Difesa della Lavoratrice" diretto da Anna Kuliscioff, in
cui il tema del voto, accanto a quello del lavoro e della parità
salariale, fu per un certo periodo prevalente. Quando nella primavera
del 1913 l'on. Martini presentò alla Camera un progetto per il voto
limitato solo alle donne alfabete, progetto sostenuto, come aveva
previsto la Kuliscioff, dalle borghesi, desiderose intanto di far
passare il principio del suffragio sbloccando quanto meno il pregiudizio
di sesso, i socialisti rifiutarono di votarlo e il progetto cadde per
mancanza del numero legale. L'introduzione del suffragio cosiddetto
universale, nel 1913, confermò ancora una volta, l'esclusione delle
donne dal voto e ridimensionò la forza del movimento agli occhi
dell'opinione pubblica.
Il congresso del CNDI diede una dimostrazione della raggiunta maturità
del movimento femminile ma, al tempo stesso, ne segnò il declino, per
la sconfitta sul suffragio, ma ancora prima per le divisioni tra le sue
varie anime riguardo l'appartenenza religiosa e l'atteggiamento di
fronte alla guerra, quella libica prima e quella mondiale poi. Nel
1914-15 l'interventismo femminile fu un fenomeno minoritario,
riguardante soprattutto Roma e Milano, ma, all'indomani dell'entrata in
guerra del Paese, la gran parte dell'universo associativo femminile
diede un contributo fondamentale al sostegno morale e materiale delle
truppe e del "fronte interno".
La guerra però non produsse unicamente un'accentuazione
del tradizionale ruolo "assistenziale" femminile: nel corso del
conflitto saltarono gli equilibri tra i generi e le donne divennero
protagoniste della scena nazionale. Con gli uomini al fronte, la
riorganizzazione produttiva si affidò soprattutto alle donne, che
entrarono in massa nelle fabbriche - in settori sino ad allora preclusi
-, nei servizi e nelle amministrazioni pubbliche. Anche nelle campagne
presero il posto degli uomini. A partire dall'inverno del 1916-17,
furono specialmente le donne a dare vita a episodi di conflittualità
sociale, per chiedere la pace, ma anche aumenti salariali e una più equa
gestione dell'economia di guerra.
Al termine del conflitto, il contributo femminile all'Italia in guerra
fu riconosciuto con l'approvazione, nel luglio 1919, della legge Sacchi
sulla capacità giuridica delle donne, con la quale ottennero il diritto
ad amministrare i propri beni (scompariva l'autorizzazione maritale per
qualsiasi atto pubblico) e a esercitare le professioni. La prima
laureata in legge italiana (1884), Lidia Poët, dopo 35 anni dal diploma
di laurea poteva finalmente vestire la toga (il ministro Biondi, già nel
1874, volle l'apertura di tutte le facoltà universitarie alle donne, ma
il diritto fu teorico perché alla laurea non seguiva l'esercizio della
professione), e con lei le romane Teresa Labriola e Romelia Troise,
quest'ultima una ex telegrafista e poi sindacalista, caso esemplare di
mobilità sociale delle donne prima e dopo la guerra. In Medicina il
campo era aperto alle donne in Ostetricia e ginecologia, ma Anna
Kuliscioff, la compagna di Turati, divenne la "dottora dei poveri"
perché l'ospedale di Milano le negò l'esercizio della professione in
corsia.
Come nel resto d'Europa, nel 1919 si riaprì anche la questione del suffragio femminile,
che trovò Mussolini in principio favorevole, come dimostrò nel 1925 con
la concessione del voto amministrativo ad alcune categorie di donne
"meritevoli". Il provvedimento venne però vanificato l'anno seguente
dalla riforma podestarile con cui si aboliva qualsiasi base elettiva
alle amministrazioni comunali. La legge liberticida del 1924 soppresse
il diritto associativo: un anno dopo l'Associazione per la Donna, non
avendo più un minimo di regole democratiche, si autosciolse; altri
sodalizi vennero soppressi, le associazioni che lottavano per diritti
civili e politici abbandonarono il campo. Resistettero quelle in accordo
con il regime sul tema della cooperazione intellettuale e continuarono
senza problemi la Croce Rossa Italiana e la San Vincenzo de' Paoli. Con
una certa accorta lungimiranza il fascismo creò associazioni "gemelle"
cui le donne furono costrette ad iscriversi, determinando lo
scioglimento di altre. Nel 1926 sorse l'Associazione nazionale fascista
donne artiste e laureate, che faceva seguito all'Associazione nazionale
fascista dottoresse in medicina e chirurgia; nel 1930 fu la volta della
Federazione italiana donne giuriste.
In poco meno di dieci anni, l'associazionismo professionale fascista
soppiantò le vecchie associazioni femminili, ma un simile processo non
significò la promozione sociale del lavoro delle donne, perché il
fascismo perseguiva la restaurazione dei tradizionali ruoli di genere.
La creazione di organismi sindacali femminili di regime faceva piuttosto
parte del generale processo di inquadramento della società italiana,
teso a coniugare controllo sociale e "conquista" del consenso.
Lo stesso anno in cui fu creata l'Associazione fascista delle artiste e
laureate, il regime varò una legge che stabiliva l'esclusione delle
donne dall'insegnamento di italiano, latino, greco, storia e filosofia
dai licei. La politica di espulsione femminile dal lavoro
extradomestico, iniziata nel primo quinquennio fascista, giunse al
culmine nel 1938: una legge stabilì che il personale femminile negli
uffici pubblici e privati non poteva superare il 10% dell'organico,
proibendo inoltre l'assunzione di manodopera femminile nelle aziende con
meno di 10 addetti.
Escluse dalla politica ed emarginate dal mondo del lavoro, nel progetto nazionale fascista
le donne acquisirono un'enorme rilevanza come mogli e come madri. La
campagna demografica e la "battaglia del grano" avevano infatti nella
donna - e nella donna contadina - la loro fondamentale base di successo:
negli anni Trenta vennero prodotti specifici manuali, rivolti alle
colone della pianura pontina, nei quali l'esaltazione dei tradizionali
doveri verso la famiglia trovava compimento nell'educazione ai moderni
principi di economia domestica. Al fine di mobilitare le donne adulte a
sostegno delle proprie parole d'ordine del regime, furono create
apposite organizzazioni quali i Fasci femminili e le Massaie rurali,
entrambe tese alla valorizzazione delle virtù domestiche.
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Donne al voto |
Ma l'organizzazione più importante, nata nel 1925, fu l'Opera nazionale maternità e infanzia
(OMNI), che garantiva l'assistenza ostetrica e pediatrica, aiutando le
madri nubili o prive di una regolare struttura familiare e cercando di
contrastare le pratiche abortive che il Codice Penale, varato dal
ministro Rocco nel 1930, aveva inserito tra i delitti "contro
l'integrità e la sanità della stirpe". Nel 1933 la retorica di regime
trovò compimento nell'istituzione della Giornata della madre, collocata
il 24 dicembre per trovare un fondamento nella tradizione cattolica del
paese.
Capelli corti, corpi magri, vestiti al ginocchio, biciclette,
automobili, sigarette: le città italiane del dopoguerra si erano
riempite di "maschiette", che la stampa cattolica e quella fascista
indicavano come rappresentanti della "sterilità" decadente delle società
occidentali. Il regime oppose loro la "nuova italiana", fisicamente
sana perché irrobustita dall'attività sportiva, votata alla vigorosa
riproduzione della stirpe. Anche le bambine furono coinvolte
nell'inquadramento fascista della gioventù, nelle strutture delle
Piccole Italiane sino a 13 anni, delle Giovani Italiane fino ai 18 e
delle Giovani Fasciste fino ai 21 anni. L'educazione fisica femminile
divenne un fenomeno di massa, esibito in coreografiche manifestazioni
sportive come quella riservata alle Giovani Italiane a Roma nel 1928,
coincidente con la prima Olimpiade aperta alle donne, ad Amsterdam. Più
consapevole, benché mai conflittuale, l'autonomia delle italiane
dell'Unione donne di Azione cattolica, portatrici di valori a volte
convergenti, ma non assimilabili a quelli fascisti. L'unica vera
opposizione attiva al regime venne dalle donne di tradizione socialista e
comunista o aderenti al movimento "Giustizia e Libertà", costrette però
al silenzio o all'emigrazione.
Con la seconda guerra mondiale e il progressivo fallimento del regime
sul fronte militare e dell'assistenza alle popolazioni civili, le donne
italiane si trovarono costrette a una nuova assunzione di
responsabilità verso se stesse e la comunità. Dopo l'8 settembre del
1943 una minoranza partecipò alla Resistenza armata e moltissime furono
presenti nella Resistenza civile, dando ospitalità, cibo, vestiario ai
militari in fuga ed ai resistenti, tentando d'impedire le deportazioni
nei campi di concentramento, costruendo reti di solidarietà nel tessuto
cittadino.
Bisognerà attendere il secondo dopoguerra per la rinascita delle
associazioni femminili. Una nuova, consapevole partecipazione delle
donne alla vita pubblica che costituì finalmente la porta d'accesso alla
cittadinanza politica nell'Italia repubblicana. Nel 1944 nacquero il
Cif, Centro Italiano Femminile, organizzazione di associazioni
d'ispirazione cristiana vicina alla Democrazia Cristiana, e l'Udi,
Unione Donne Italiane, organizzazione collaterale al Partito Comunista
Italiano, che, al suo interno, comprendeva una federazione di
associazioni importanti, come la rinata Fildis (Federazione Italiana
Laureate e Diplomate Istituti Superiori, sorta nel 1922 a Milano e
sciolta nel 1935), la Fidapa (Federazione italiana donne, arti,
professioni e affari), l'Associazione Donne Medico, di tradizione
pacifista, e tutta una serie di sodalizi legati alle professioni, cui si
aggiunsero club di servizio come il Soroptimist e lo Zonta. Nacque
ancora l'Associazione Cattolica di Protezione della Giovane, con una
serie di ramificazioni. Nell'ottobre del 1944 vide la luce a Roma il
Comitato nazionale pro voto alle donne che riuniva le organizzazioni
femminili del Comitato nazionale di liberazione (CNL) e alcune
associazioni d'origine liberale appena ricostituite.
Tutti i sodalizi avevano come collante di base il miglioramento della
condizione femminile su basi culturali, sociali e politiche. Ma la
condizione femminile era talmente arretrata che fu necessario lavorare
ancora a lungo per ottenere la possibilità di entrare in magistratura e
nella carriera diplomatica, una legge sugli asili nido e la tutela delle
donne lavoratrici, la legge sull'aborto e quella per il divorzio. Per
giungere, negli anni Novanta, alla legge contro la violenza sessuale e
quella sulle donne soldato. Tutti traguardi raggiunti sotto pressione
delle associazioni femminili, anche se con diverso impegno, pro o
contro. In tal senso l'associazionismo femminile attraverso gli anni ha
tracciato la storia e la vita democratica della donna.
BIBLIOGRAFIA
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F. Taricone e B. Pisa, Operaie, borghesi contadine nel XIX secolo - Roma, Carucci, 1985.