lunedì 27 gennaio 2014

Libro: Il delitto del Circeo (2a parte)

4. Il processo a Latina

Il delitto ed il processo per i fatti del Circeo rappresentano, per il movimento femminista, un’occasione imperdibile per richiamare l’attenzione dei mezzi di informazione e dell’opinione pubblica sul ruolo che le donne occupano all’interno della società italiana. Un evento così forte, così scioccante rappresenta un’ottima occasione per denunciare il profondo squilibrio di potere esistente nei rapporti uomo-donna, per mettere in evidenza la posizione di inferiorità in cui tutte le donne vivono e sono costrette a vivere dagli uomini, per denunciare l’atavico dominio maschile che tutte le donne subiscono in ogni ambito della vita quotidiana, dentro e fuori casa, un dominio che spesso si trasforma in violenza.

La giornalista e scrittrice radicale Maria Adele Teodori, nel 1977, pubblica un saggio dal titolo molto esplicito "Le violentate", nel quale ricostruisce i casi di stupro e di violenza verificatisi in Italia nell’arco di un anno e mezzo. La reale entità del fenomeno è difficilmente misurabile, a causa della totale assenza di dati e di statistiche ufficiali. Di conseguenza, i casi di cronaca e i processi per stupro rappresentano gli unici elementi concreti a cui poter fare riferimento per avviare un più ampio discorso della condizione femminile nella società.

Per presentare il caso del delitto del Circeo, l’attenzione della giornalista si concentra su ciò che succede in aula, durante il processo, e sulla presenza e sul ruolo giocato dalle femministe:

imponente è lo schieramento degli avvocati, una ventina, sia per gli imputati che per la parte civile, assiepati su due banchi. Ma più imponente
è la partecipazione femminista. L’eco del delitto del Circeo non si è mai spento. Anzi. A parte le polemiche ad alto livello socioantropologico, già nel sit-in del 5 ottobre in piazza Navona, qualche giorno dopo il delitto, le femministe romane avevano definito un crimine politico l’uccisione di Rosaria e l’avevano commemorata in modo inedito, narrando pubblicamente al microfono le loro esperienze quotidiane di violenza (14).

Durante il processo, le femministe si presentano regolarmente in aula, numerose e attente, per seguirne lo svolgimento; sono scatenate, vogliono far sentire la loro voce, urlano e scandiscono slogan, sia per le strade di Latina sia dentro l’aula: ed eccole, alle nove, arrivare in corteo al tribunale di Latina, con cartelli e slogan: “Guido, Izzo, Ghira sono normali, sono il prodotto dei valori patriarcali”, invadere l’aula, scavalcare le transenne. (...) Nella gabbia degli imputati c’è Angelo Izzo. Gianni Guido ha preferito restare in carcere. Il terzo, Andrea Ghira, è latitante. (...) Qualcuna grida “assassino” ed “ergastolo”. Izzo ne approfitta dopo un’ora per chiedere di rientrare in carcere. Non si sente “sicuro”. (...) l’avvocato Rocco Mangia chiede che il processo si celebri in un’altra città, per “l’eccezionale turbamento dell’ambiente... per le inammissibili aggressioni morali e minacce di violenze fisiche... per l’atteggiamento aggressivo del pubblico e della stampa che ha trasferito la piazza in questa sede”, cosicché Angelo Izzo, “ridotto in stato di terrore, è stato costretto ad abbandonare l’aula” (15).

Il clima all’interno dell’aula del tribunale è sicuramente insolito, sconcerta gli avvocati della difesa e gli imputati stessi; gli attacchi nei confronti degli imputati sono continui, al punto che Izzo - unico accusato presente - preferisce uscire dall’aula.
---------------------    
   (14) M.A., TEODORI, "Le violentate", Sugar, Milano 1977, pp. 26-27. 15 Ibidem.
   (15) Ibidem.


È difficile mantenere il silenzio in aula, le femministe urlano, insultano, interrompono spesso, facendo sentire continuamente la loro presenza; sono furiose e determinate a trasformare questo processo in un processo storico, questa vicenda in una vicenda epocale. Il loro obiettivo è riuscire a determinare un radicale cambiamento di mentalità nell’opinione pubblica ed anche riuscire a modificare la legge sulla violenza carnale, considerata dalla legge italiana un delitto contro la morale e non contro la persona.

Gli autori del delitto sono descritti in questo modo:

i seviziatori, quale atteggiamento hanno? Non è mai cambiato dal primo giorno: ironia, sguardi di sfida,  indifferenza. Angelo Izzo parla di una ragazzata, di un atto di cui non hanno saputo valutare le conseguenze
e accusa: “Donatella mente sapendo di mentire” (16).

Dal comportamento che ha e che continua ad avere, appare evidente che Izzo, uno dei responsabili della morte di Rosaria Lopez, dello stupro e delle sevizie ai danni di Donatella Colasanti, non ritiene di essere davvero in pericolo, non crede di rischiare una condanna pesante. Delegittimando la testimonianza della ragazza sopravvissuta, sminuisce i fatti e definisce una ragazzata la orribile serie di azioni violente e brutali, commesse
con spietata crudeltà da lui e dai suoi due compari, con la precisa intenzione di uccidere entrambe le ragazze.

Gli avvocati della difesa e i tre colpevoli sembrano non rendersi conto che questa volta il processo andrà diversamente, che la compiacenza della magistratura, il trattamento di favore nei loro confronti, che in passato c’è stato, in questo caso non ci sarà.
Durante il processo le cose andranno in modo differente perché responsabili e vittime, avvocati della difesa e dell’accusa, giudici e medici legali si trovano nell’occhio del ciclone, sono protagonisti, loro malgrado, di un evento mediatico.
L’attenzione dell’opinione pubblica, dei mezzi di comunicazione di massa e del movimento femminista è ostinatamente puntata su di loro. Non è possibile mettere a tacere gli avvocati   dell’accusa, attenuare i capi d’imputazione, insabbiare il procedimento.

Il delitto del Circeo non è un delitto come gli altri, non lo è mai stato, fin dall’inizio. Questa volta l’indifferenza,
l’arroganza, il disprezzo dei colpevoli verso le vittime non serviranno; questa volta non ci sarà nessuno dalla loro parte, non ci sarà nessuno disposto a prendere esplicitamente le loro difese.

Come è già stato fatto in processi analoghi, gli avvocati della difesa utilizzano questo tipo di argomentazioni: “Donatella non vi dico che è stata incauta ad andare con degli sconosciuti, non vi diremo che tutto questo non sarebbe avvenuto se la famiglia l’avesse tenuta un po’ più a freno...”(17) nel tentativo di addossare parte della colpa alle ragazze, colpevoli perché, invece di starsene tranquille a casa, vanno in giro in cerca di avventure e accettano inviti dagli sconosciuti.
Questa volta, in aula, non ci sono solo Izzo, Guido e Ghira da una parte e Donatella e Rosaria dall’altra; questa volta non si tratta solo di giudicare e condannare tre ragazzi ricchi e violenti, protagonisti di un festino dall’esito tragico, si tratta, piuttosto, di lanciare un segnale chiaro e privo di ambiguità a favore di un cambiamento, di un nuovo modo di considerare casi come questo.

Ecco le parole degli avvocati di parte civile:

questo è un delitto di gruppo con la sola filosofia della violenza come valore su cui costruire un ordine nuovo. È l’ideologia del pestaggio come mezzo di persuasione violenta. La violenza è l’attacco alla persona, alla dignità. (...) Noi siamo qui per Donatella, ma anche per qualcosa di più. È la società che ci interroga e vuol vedere come si chiude questo capitolo... Vi chiediamo nell’interesse di Donatella e di tutto il paese, in nome della cultura, di tutte le donne e dei cittadini di tutte le classi, di giudicarli rifiuti del genere umano (18).

Viene richiesta una condanna non solo penale nei confronti dei colpevoli ma anche e soprattutto una condanna morale, un giudizio severo e senz’appello: i tre assassini devono essere considerati come rifiuti del genere umano e come tali devono essere giudicati. Questa presa di posizione della giustizia italiana riguarda non solo il caso particolare di Donatella e Rosaria ma anche tutti i casi che vedono una donna vittima della violenza maschile. Il movimento femminista e le donne italiane di tutte le classi sociali, di tutte le età, di tutte le città, accomunate dal semplice fatto di essere donne, attendono l’esito finale di questo processo e si aspettano una condanna esemplare. La decisione che il giudice deve prendere riguardo ai tre pariolini neri rappresenta, per le femministe e per l’opinione pubblica, una tappa fondamentale di un lungo cammino verso un cambiamento nel modo di considerare la violenza esercitata degli uomini contro le donne.

L’arringa finale del pubblico ministero, Vito Giampietro, dura più di tre ore; la pena richiesta è l’ergastolo, per tutti e tre gli imputati:

basta leggere le cinquanta pagine delle perizie e degli interrogatori per accorgersi che questo processo abbia una sola soluzione netta e precisa: l’ergastolo (...) non vi è follia negli imputati; il delitto è lucido, freddo, attuato per un fine ben predeterminato, con una violenza scatenata, gratuita, irrefrenabile (19).

Dopo il processo, il giornalista Giuseppe Marrazzo intervista il Pm Giampietro:

“Lei non ha avuto esitazioni a chiedere l’ergastolo?”,
 il Pm: “Assolutamente”,
 Marrazzo: “Non le è passato per la mente neanche per un momento il bisogno di una perizia psichiatrica di tre giovani che uccidono in quel modo?”,
 il Pm: “Assolutamente no”,
 Marrazzo: “Perché?”,
 il Pm: “Perché li ritengo del tutto sani di mente” (20).

Secondo l’accusa, non è la follia la chiave interpretativa del delitto, non è la pazzia che può spiegare tutto quello che è successo. I tre ragazzi, responsabili della morte di Rosaria, non sono malati di mente perché hanno agito con freddezza e lucidità; erano consapevoli delle loro azioni e delle conseguenze a cui avrebbero portato.
La morte di entrambe le ragazze era l’obiettivo finale a cui volevano giungere, al termine della serata. I tre pregiudicati dovevano eliminarle perché soltanto la loro morte poteva garantirgli di non essere nuovamente accusati per reati di questo genere.
Dopo aver chiuso i due corpi nel bagagliaio della Fiat 127 e averli riportati a Roma, i tre assassini , con l’aiuto di altri complici, li avrebbero fatti sparire; le due ragazze sarebbero scomparse nel nulla. Non c’è follia, non c’è raptus omicida, anzi, al contrario, il piano è stato studiato, organizzato e attuato con estrema precisione. Tutto quello che è avvenuto, durante le lunghe ore trascorse dall’incontro a Roma fino al ritorno in città, non è altro che la fredda esecuzione di un piano escogitato in precedenza, che prevedeva un macabro obiettivo finale da raggiungere.
--------------
   (16) Ivi, pag. 28.
   (17) Ivi, pag. 30.
   (18) Ivi, pp. 28-30.
   (19) Ivi, pag. 28.
   (20) Queste dichiarazioni sono tratte dal sito www.lastoriasiamonoi.rai.it, 1975: Il massacro del Circeo, l’omicidio Pasolini.



Prosegue così l’arringa finale del pubblico ministero:

È una manifestazione anomala di esercizio del potere: vero, effettivo, reale. Non di quello scritto e codificato, ma di quello del forte sul debole, dell’armato sull’inerme, del ricco sul povero, del maschio sulla femmina, del maschio dei Parioli sulle ragazze delle borgate. Rosaria e Donatella non sono per loro veri e propri esseri umani, sono un qualcosa di meno, a metà tra il paria e l’oggetto. Qualcosa con cui giocare e poi gettare, eliminare. Da questo solco scaturisce il fatto scatenante. Uccisero solo per assicurarsi l’impunità.
Non si trattava di ammazzare due simili, non avrebbero tenuto lo stesso comportamento con ragazze del loro ceto e quanto vi è in loro di brutale e di bestiale s’indirizza sulla sottospecie (21).
Non solo il delitto è stato organizzato bene ma, soprattutto, le vittime sono state scelte con cura, con una attenzione particolare. Non potevano essere prese due ragazze appartenenti alla stessa classe sociale dei tre assassini; per divertirsi, per sfogarsi, per picchiare e uccidere era necessario andare a caccia di due borgatare, non proprio due esseri umani ma qualcosa di meno, come afferma il Pm. Prendere, usare ed eliminare, questo è lo schema che intendevano seguire, ed hanno seguito, i tre pariolini. Il fatto che Donatella sia sopravvissuta è l’imprevisto che li ha incastrati, perché anche lei, come Rosaria, doveva morire.

Nell’arringa finale, il Pm amplia l’interpretazione data dalla stampa ovvero richiama i concetti, abbondantemente ripetuti dai giornalisti, della ricchezza e della provenienza sociale degli assassini ma mette in evidenza anche le convinzioni che i tre hanno nei confronti delle ragazze: sono povere, sono borgatare e, per questo, diverse, inferiori a loro; nei confronti delle due ragazze, metà donne e metà oggetto, si esercita il potere dell’uomo forte, ricco, armato, che gioca, usa e abusa di loro a proprio piacimento. Terminato il gioco, non resta che disfarsi dei giocattoli, gettarli via.
I capi d’imputazione nei confronti degli accusati sono: omicidio volontario, tentato omicidio, ratto a fine di libidine, violenza carnale continuata, detenzione di arma da fuoco.
La sentenza del 29 luglio 1976 conferma la richiesta di ergastolo per Angelo Izzo, Gianni Guido e Andrea Ghira, ancora latitante.
Al momento della lettura della condanna, in un aula stracolma, la reazione delle femministe è di gioia incontenibile, applausi irrefrenabili, urla entusiaste. Per le strade di Latina risuona il grido: “per le donne morte non basta il lutto, pagherete caro, pagherete tutto”. Il movimento femminista - la sua lotta contro il potere maschile e le leggi maschiliste - esce vittorioso e rafforzato dall’aula del tribunale di Latina ed è pronto a dare battaglia in altre aule di tribunale, nelle università, nelle fabbriche, per le strade, in ogni luogo pubblico.

La vicenda giudiziaria e umana dei tre assassini e di Donatella Colasanti, la ragazza superstite, merita di essere raccontata.
Ne riprenderò il resoconto più avanti, nel terzo capitolo.
------------------

   (21) M.A. TEODORI, op. cit., pp. 28-29.



5. L’onda lunga del delitto del Circeo

A partire dagli anni Sessanta, all’estero, in particolare negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, il fenomeno delle donne maltrattate (battered women) viene studiato da sociologi, psicologi e giuristi; nel corso degli anni Settanta e Ottanta gli studi, le riviste accademiche e l’attenzione dell’opinione pubblica verso questo tema aumentano continuamente. Le istituzioni pubbliche finanziano centri di ricerca, che svolgono regolarmente la raccolta di dati statistici e studiano l’evoluzione del fenomeno, ed aprono diversi servizi di ascolto e di assistenza rivolti alle vittime di violenza. Ad oggi, la letteratura scientifica disponibile in inglese su questo tema è vastissima e le esperienze attive sul territorio, in Europa e non solo, sono molteplici e innovative.

In Italia, a partire dal delitto del Circeo e dal processo svoltosi nel 1976, soltanto i gruppi femministi ed alcune giornaliste “impegnate” politicamente iniziano a parlare di violenza contro le donne e gettano un po’ di luce su un fenomeno molto diffuso ma, al tempo stesso, nascosto e taciuto. A loro va riconosciuto il merito di aver attirato l’attenzione dell’opinione pubblica italiana su una realtà scomoda, del tutto ignorata dagli studiosi e dagli accademici, dai mass media e dalle istituzioni.

In Italia un tema come questo viene considerato “femminile” e, di conseguenza, viene trattato esclusivamente da donne: scrittrici, giornaliste, avvocate, esponenti e militanti politiche.
Continuo, quindi, ad utilizzare articoli, interventi e saggi non-accademici, dato che, in italiano, non viene pubblicato nulla di scientifico e di specifico sulla violenza contro le donne praticamente fino agli inizi degli anni Novanta.
Premessa l’assenza di studi accademici e di saggi firmati da uomini, a parte rarissime eccezioni, analizzo altri materiali dell’epoca caratterizzati da due tratti immancabili: chi scrive è una donna ed è schierata politicamente a sinistra. Restando in ambito italiano, si tratta di una scelta obbligata.

In una lettera pubblicata su “Il Manifesto”, pochi giorni dopo il massacro del Circeo, intitolata La violenza dell’uomo sulla donna è, di per sé, un fatto politico (22) , il Collettivo Femminista di via Cherubini di Milano sostiene una tesi simile a quella di Pasolini: la particolare attenzione suscitata dal delitto del Circeo e l’ampio spazio che ha trovato sulla stampa italiana non sono dipesi dalla particolare crudeltà e spettacolarità dell’accaduto ma, piuttosto, dalla provenienza sociale degli assassini, figli della ricca borghesia romana, e dalla loro appartenenza ai gruppi fascisti.
I giornalisti hanno interpretato questo episodio di violenza carnale sulle donne come un “fatto politico”, condannando la violenza fascista.
Il Collettivo Femminista non accetta questa interpretazione dei fatti e, così come ha denunciato anche Dacia Maraini, sostiene che: molti fatti simili di violenza carnale sulle donne accadono ogni giorno ma vengono confinati nella cronaca nera.

La stampa italiana non ritiene degni di nota e di interesse gli stupri che le donne subiscono con preoccupante regolarità. Oltre alla mancanza di attenzione nei confronti del fenomeno della violenza carnale, il Collettivo Femminista critica la spiegazione, superficiale e riduttiva, che di solito viene data:

L’uccisione di una donna, le aggressioni che le donne subiscono quotidianamente restano quasi sempre “fatti privati” dove agisce il “caso” (“è toccato a lei ma poteva accadere a chiunque”) o gli “imprevisti” di una società che ha le sue disfunzioni (il solito maniaco, un disadattato, ecc.).
È opinione comune, è risaputo che ci sono uomini pericolosi in giro, maniaci sessuali o disadattati, che scelgono a caso una donna tra le tante, la aggrediscono e la stuprano. Sono cose che succedono e le donne farebbero bene a stare più attente quando vanno in giro da sole, magari la sera, perché lo fanno a loro rischio e pericolo.

Se questa è la lettura della realtà, di conseguenza, la società italiana non ritiene di trovarsi di fronte ad un fenomeno preoccupante, che costituisce un problema di ordine pubblico e che merita di essere considerato e valutato nella sua gravità perché danneggia tutti i cittadini. L’opinione pubblica e le istituzioni sembrano, piuttosto, accettare tutto questo come qualcosa di abituale, di inevitabile, che fa parte della quotidianità. Nelle pagine di cronaca nera, la stampa si limita a registrare il susseguirsi di singoli episodi violenti, così come registra gli incidenti stradali o i furti in appartamento, senza stupirsi o interrogarsi.
Definendo la violenza carnale un fatto privato, il Collettivo Femminista vuole sottolineare la profonda distanza che esiste tra ciò che si verifica sulla scena pubblica ed è noto all’opinione pubblica e ciò che, al contrario, avviene ai margini dell’ambito pubblico e tra le mura domestiche e che, quindi, non merita attenzione, rimanendo nascosto, celato. Le violenze inflitte alle donne sono vicende private, che riguardano le persone direttamente coinvolte, l’uomo aggressore, che solitamente resta impunito, e la donna stuprata, che non denuncia la violenza subita, ed anche, in ambito domestico, il marito brutale e la moglie picchiata.
-----------------------

   (22) Collettivo femminista di Via Cherubini, "La violenza dell’uomo sulla donna è, di per sé, un fatto politico", in “Il Manifesto”, 12 ottobre 1975.



Il quartiere e la città in cui si verificano gli stupri e i maltrattamenti in famiglia e, più in generale, la società civile ed il governo italiano non si sentono chiamati in causa, anzi sono del tutto indifferenti verso la sofferenza delle vittime e l’impunità dei responsabili.
Dato il disinteresse della società, dei partiti politici e delle istituzioni pubbliche verso le donne che subiscono violenza, il movimento femminista avverte l’esigenza di far emergere dal silenzio, di portare alla luce del sole vicende intime e personali che hanno e devono avere un peso e una rilevanza per tutta la società italiana. Non si tratta di prestare attenzione ad un singolo caso ma, al contrario, si tratta di denunciare l’ingiustizia su cui si fondano i rapporti tra gli uomini e le donne, di svelare lo squilibrio di potere che caratterizza la società italiana e che porta, come conseguenza, all’agire violento dell’uomo contro la donna. Di seguito, le tesi sostenute dal Collettivo Femminista:

Noi diciamo:

- Che la violenza carnale è solo l’aspetto più vistoso di una violenza che le donne subiscono quotidianamente.
- Che questa violenza nasce dal dominio che l’uomo ha consolidato storicamente nei suoi rapporti con la donna.
- Che si tratta di un rapporto di potere che consente possibilità di esprimersi e affermarsi a un sesso solo, con conseguente cancellazione, o comunque limitazione, dei bisogni dell’altro sesso.

Il rapporto tra uomini e donne è profondamente segnato dalla violenza; la struttura gerarchica, che regola i rapporti tra loro, si fonda sulla superiorità e sul dominio dell’uomo nei confronti della donna. Le relazioni tra i sessi sono caratterizzate da un antico e radicato squilibrio di potere:
da sempre l’uomo esercita il proprio potere sulla donna, ricorrendo anche alla violenza fisica;

da sempre la condizione della donna è una condizione di inferiorità e di sottomissione.

Inoltre, nella società italiana il potere maschile è esclusivo:

soltanto agli uomini è data la possibilità di esprimersi, di affermarsi, di essere protagonisti sulla scena pubblica; alle donne spetta un ruolo secondario, subalterno, vivono confinate in casa e subiscono una forte limitazione nella possibilità di affermarsi e di realizzarsi. I bisogni maschili devono essere sempre considerati e soddisfatti, i bisogni femminili sono inascoltati, insoddisfatti o addirittura cancellati. La società italiana è una società costruita esclusivamente a misura d’uomo, in cui la presenza della donna è considerata marginale, se non irrilevante.

Continuando nell’analisi della contrapposizione tra ambito pubblico e ambito privato, il Collettivo Femminista afferma che la violenza che nasce dal dominio dell’uomo sulla donna è di “per se stessa” un fatto politico.
In questa affermazione, l’aggettivo “privato” viene utilizzato come contrario dell’aggettivo “politico” e politico equivale a pubblico.

Come abbiamo visto in precedenza, la stampa italiana utilizza l’aggettivo “politico” come sinonimo di “ideologico”, facendo riferimento ad una ideologia fascista per descrivere gli assassini ed il loro comportamento.
Ora ci troviamo di fronte ad un uso diverso degli stessi termini; per capire meglio il punto di vista femminista, riportiamo le affermazioni del movimento femminista romano:

(rifiutiamo) di accettare la divisione fra il sociale e il privato operato dalla società maschile per ghettizzare le donne. Una politica ben precisa che viene esercitata sia a livello ideologico di massa per cui il matrimonio, la sessualità, i rapporti interpersonali, il lavoro domestico non sono problemi politici, sia a livello individuale, per cui lo stupro e la violenza di cui siamo oggetto vengono minimizzati e tollerati (23).

Il matrimonio, la sessualità, il lavoro domestico – temi che approfondirò in seguito - fanno parte della vita privata, sono elementi della vita individuale di mariti e mogli ma non hanno un peso politico, così come lo stupro e la violenza rientrano tra i possibili comportamenti di un marito geloso verso una moglie disobbediente e non vengono criticati o condannati.
Nella società italiana, le vicende familiari, domestiche si svolgono lontano da occhi indiscreti, lontano dalla strada, insomma nel chiuso della quattro mura di casa e fuori dalla scena pubblica, sociale. I rapporti tra i coniugi, che siano sereni e affettuosi oppure burrascosi e violenti, riguardano i coniugi stessi e nessun altro. Non sono ammesse interferenze esterne. Paura e vergogna impediscono alle donne di confidarsi, di raccontare ad altri le difficoltà che hanno nel rapporto di coppia; inoltre, in base al vecchio adagio “tra moglie e marito non mettere il dito”, chi conosce la coppia (parenti, amici, vicini di casa, colleghi, ecc.) evita di esprimere giudizi o di dare consigli. Salvare le apparenze, fingere che vada tutto bene è un atteggiamento molto diffuso, basato sull’ipocrisia e sulla mancanza di comunicazione.

Per opporsi a questo stato di cose, un celebre slogan femminista recita: “il personale è politico”, tutto ciò che è privato deve essere anche pubblico; il movimento femminista ritiene cruciale abolire la separazione tra personale e politico, tra privato e pubblico: tutto ciò che avviene nella vita privata delle persone deve diventare tema di interesse pubblico, politico, non deve rimanere chiuso tra le mura domestiche ma deve, al contrario, entrare a far parte della discussione pubblica ed essere preso seriamente in considerazione dalla società, dai cittadini e dai partiti politici.
--------------------

   (23) AA.VV., Donnità. Cronache del movimento femminista romano, Centro di documentazione del Movimento Femminista Romano, Roma 1976, p. 6.



È necessario, quindi, suscitare un dibattito e dare vita a discussioni in piazza, nelle scuole e nelle università, nelle fabbriche, in tutti i luoghi pubblici, per sottrarre al silenzio e all’oblio temi privati, legati alla vita personale delle donne, al fine di renderli di rilevanza pubblica, temi come, ad esempio, il lavoro domestico, il divorzio, l’aborto, ed anche la violenza contro le donne. La separazione tra sfera privata e sfera pubblica deve essere messa in  dscussione:

la privata oppressione subita da ogni donna diventa oggetto centrale di riflessione, assume il significato e il senso di una grande questione collettiva. (...) La “rivoluzione copernicana” consisteva dunque nell’assumere come momento essenziale il dato soggettivo, personale del vissuto femminile (24).
Le donne devono uscire dalle loro case, dove sono state tenute prigioniere per secoli, devono organizzarsi in gruppi e appropriarsi dello spazio pubblico, delle piazze, delle strade, da cui gli uomini le hanno sempre escluse; devono unirsi e farsi sentire, devono condividere le proprie esperienze individuali con altre donne, prima di tutto per rendersi conto che esistono problemi specifici, comuni a tutte loro e poi per trasformarli in temi di interesse collettivo. Spetta alle donne, quindi, porre domande a se stesse ed anche alla società e ai partiti politici; raggiunta la consapevolezza dei bisogni e delle esigenze femminili, è fondamentale che le donne facciano sentire la propria voce - a partire dalla famiglia in cui vivono fino ai vertici del governo italiano - e pretendano risposte adeguate alle loro richieste.
Non è più ammissibile che venga ignorata metà della popolazione italiana: i problemi delle donne sono problemi che toccano le vite private delle singole donne e che, al tempo stesso, riguardano l’intera società.

La condizione della donna in Italia, così come viene denunciata dal Collettivo Femminista, è questa:

le donne sono “quotidianamente” uccise, picchiate, insultate, costrette a prostituirsi, messe in condizione di soggezione e di paura e quindi segregate nelle case. Le donne vivono nella paura e nella soggezione, sono al servizio di uomini che dispongono di loro, dei loro corpi, delle loro vite e che usano la violenza come strumento di controllo e di dominio, come mezzo per sottometterle e per costringerle all’obbedienza. Le donne devono obbedire, sempre, agli uomini altrimenti sono guai. Non si tratta della vita sfortunata di una ristretta minoranza, povera e disadattata, svantaggiata
ed emarginata, al contrario, questa è la realtà esistenziale di tutte le donne italiane, indipendentemente dall’età, dall’estrazione sociale, dalla provenienza, dal livello culturale; la condizione di inferiorità rispetto agli uomini riguarda tutte le donne, senza distinzioni.
Di conseguenza:

La presa di coscienza di questo sfruttamento, che ci riguarda direttamente in quanto donna, ma che è presente in tutte le situazioni sociali (famiglie, fabbrica, scuola, ecc.) ha fatto nascere il movimento delle donne.
A noi donne interessa oggi una lotta che non salti più la violenza che passa sui nostri corpi.
L’impegno del movimento femminista è sia politico sia pratico; in altre parole, oltre a denunciare pubblicamente l’esistenza del fenomeno della violenza, i gruppi femministi si fanno carico del problema concretamente, vogliono offrire aiuto alle vittime e decidono, quindi, di creare sportelli di assistenza legale, di aprire case delle donne e centri anti-violenza, nelle principali città italiane, per aiutare chi ha subito uno stupro e per accogliere le mogli che fuggono da mariti pericolosi ed hanno bisogno di un rifugio.
-----------------------

   (24) G. CRAINZ, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Donzelli, Roma 2005, pp. 509-510.


Come già detto, in Italia sono esclusivamente le donne ad occuparsi di donne. Di fronte al disinteresse delle istituzioni pubbliche e dei partiti politici e in seguito all’ennesimo caso di stupro, il movimento femminista si organizza e reagisce; in particolare, il Movimento di Liberazione della Donna (MLD) apre degli sportelli antiviolenza, dei punti di ascolto e di assistenza a Roma, Torino e Milano.

Di seguito, riporto parte del comunicato che annuncia l’apertura di uno sportello anti-violenza a Roma, nel 1976, dopo il diciassettesimo caso di stupro avvenuto nella capitale:

Siamo sicure che questo numero è una minima parte delle donne violentate, perché moltissime vogliono evitare con il silenzio le altre infinite violenze che subirebbero denunciando il fatto: la violenza degli interrogatori e delle visite ginecologiche quando si presentano al commissariato. Infatti, per la mentalità e l’atteggiamento maschilista i cosiddetti tutori della legge e della giustizia mirano solo a scoprire se la donna ha provato anche un solo attimo di piacere, per scagionare il violentatore.
Quando poi “i fatti” vengono riportati dai giornali, subiamo l’ennesima violenza della distorsione scandalistica che troppo spesso mette in risalto particolari assolutamente irrilevanti che non servono a mettere in giusta luce la violenza subita o a ritrovare lo stupratore, bensì a rendere la donna, ancora una volta, oggetto sessuale.
Infine, dopo che avvengono questi tristi fatti abbiamo “bellissime” indagini sociologiche da parte degli intellettuali di sinistra, che ci spiegano per l’ennesima volta da dove ha origine la violenza della nostra società e perché sono le donne che la subiscono. Non vediamo però mai un gesto per risolvere il problema, oltre quello della denuncia.
L’MLD denuncia l’immobilità di tutta la sinistra a partire dai grossi partiti storici per finire agli stessi extraparlamentari (...)
Il Movimento di Liberazione della Donna ha formato un collettivo di donne “contro la violenza carnale”; invitiamo quindi tutte coloro che sono state stuprate, picchiate e violentate anche dagli stessi mariti a rivolgersi all’MLD, via del Governo Vecchio 36, ogni mercoledì pomeriggio.
Offriamo assistenza gratuita legale: con le donne dalla parte delle donne (25).

È importante, in questo comunicato, prendere in considerazione lo slogan finale - con le donne dalla parte delle donne - perché permette di leggere l’intero comunicato in una precisa e specifica prospettiva: il MLD propone una nuova visione del mondo, che si basa sulla teoria della differenza sessuale.
Essa è il principio teorico fondamentale che permette al movimento femminista di interpretare la realtà circostante: esistono due sessi, il maschile e il femminile, distinti e differenti; nella società italiana gli uomini detengono il potere politico, economico, culturale e sociale ed esercitano, quotidianamente e ovunque, il loro dominio sulle donne.
--------------------

   (25) M.A. TEODORI, op. cit., pp. 183-184.

È da questa visione del mondo che deriva la spiegazione che le femministe danno al fenomeno della violenza contro le donne:

gli uomini esercitano quotidianamente il loro tradizionale potere nei confronti delle donne e l’esercizio di questo potere include anche l’uso della violenza.
Il movimento femminista critica questa struttura sociale, che prevede una distribuzione del potere nettamente a sfavore delle donne, e si mobilita per l’emancipazione femminile, per ottenere il riconoscimento dei diritti civili delle donne.
Al tempo stesso, data la totale mancanza di servizi rivolti alle vittime, il MDL ritiene necessario un proprio intervento attivo per fornire assistenza legale e per offrire una concreta via di fuga dalla violenza alle donne in difficoltà.

Le case di accoglienza e i centri antiviolenza, creati e gestiti da gruppi femministi alla fine degli anni Settanta e nel corso degli anni Ottanta in varie città italiane, sono considerati lo strumento veramente utile, il mezzo indispensabile per assistere tutte coloro che hanno bisogno di un aiuto pratico e immediato.
I centri antiviolenza sono organizzati in base al principio delle differenza sessuale: in una società dominata dagli uomini, occorre creare dei luoghi femminili pensati e organizzati esclusivamente da donne e destinati ad accogliere altre donne. Gli uomini non possono entrare in questi spazi, a loro è vietato l’accesso. Escludere gli uomini è considerato un atto necessario, per dare vita ad un posto diverso dagli altri, caratterizzato dalla totale assenza maschile e dalla esplicita presenza femminile ovvero un posto gestito in modo autonomo da un gruppo di donne, senza alcun intervento maschile. Solo a queste condizioni sia coloro che lavorano nel centro che coloro che vi vengono accolte possono esprimersi in modo libero e autentico.

Nei centri antiviolenza, il metodo di intervento si basa principalmente sul contatto e sulla relazione tra donne: le operatrici del centro si occupano e si prendono cura delle vittime di violenza. È fondamentale, per una donna che telefona, che chiede consiglio, che arriva al centro antiviolenza, trovarsi di fronte ad un’altra donna che sia in grado di ascoltarla, di comprenderla e di sostenerla, evitando di esprimere giudizi. La relazione da donna a donna permette di instaurare un rapporto positivo, di fiducia e di rispetto, decisivo per affrontare il difficile percorso di uscita da una situazione di violenza e di maltrattamento.

Alla ricerca delle cause

Negli anni Settanta, in Italia, non esistono ricerche o statistiche che prendono in considerazione i casi di stupro che si verificano annualmente, mancano completamente dati e analisi specifiche. Tuttavia, la cronaca quotidiana registra numerosi casi di violenza carnale, soprattutto nelle grandi città e a Roma in particolare.
Secondo la giornalista radicale Maria Adele Teodori, nel 1975 i casi di stupro in Italia sono stati 11.000, uno ogni 40 minuti. Il dato, però, non è attendibile a causa della mancata denuncia del reato; sono pochissime, infatti, come è già stato detto, le donne che trovano il coraggio di recarsi al commissariato per denunciare la violenza subita.
Lo stupro, da intendersi come l’aggressione e la violenza carnale subiti da una donna ad opera di uno sconosciuto in un luogo pubblico, è considerato un “reato minore” da un dirigente della Buoncostume di Roma (ricordiamo che la Buoncostume è il reparto della pubblica sicurezza addetto alla sorveglianza e alla repressione dei reati contro la pubblica morale) ed è un reato minore anche secondo i procuratori generali che per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, nel loro discorso stracolmo di cifre e delitti come un catalogo ben confezionato, non hanno mai menzionato lo stupro (26).
Oltre all’incerto dato quantitativo, oltre alla frequenza dei casi, elevata ma difficile da quantificare, occorre iniziare ad ipotizzare i motivi alla base del fenomeno.
------------------

  (26) Ivi, p. 61.

Nessun commento:

Posta un commento