Il saldo delle imprese femminili nell’ultimo anno è stato di 5
mila in più. Sono aumentate anche le cooperative con titolare donna e
soprattutto le società di capitali a conduzione femminile: 9 mila in più
Rapporto Censis: chi sta salvando l’Italia sono le donne
di Dario Di Vico su 27esimaora
Anche il Censis sceglie di scommettere sulle donne. Superando un certo scetticismo degli anni passati il 47simo rapporto
sulla situazione sociale del Paese stavolta parla esplicitamente di
loro “come nuovo ceto borghese produttivo”. Dopo cinque anni di pesante
crisi non solo il protagonismo femminile non è stato asfaltato
ma addirittura si propone in chiave di rifondazione dal basso della
classe dirigente. Già da qualche anno i sociologi avevano
cominciato a individuare una sorta di effetto elastico: le risorse rosa
erano rimaste troppo a lungo compresse nella società italiana per una
serie infinita di vincoli, una volta preso però l’abbrivio avrebbero
riguadagnato posizioni in maniera molto veloce. Ed è quanto è avvenuto
in questi anni “controvento” – ovvero in un contesto recessivo che in
linea di principio non aiuta certo ad aprire le società – grazie a un
sovrappiù di motivazioni.
I numeri lo attestano: il saldo delle imprese femminili nell’ultimo anno è stato di 5 mila in più, sono aumentate anche le cooperative con titolare donna e soprattutto le società di capitali a conduzione femminile (9 mila in più). Ma al di là dei freddi dati la novità sta proprio nel giudizio straordinariamente caldo del Censis, che riconosce alle donne «capacità di resistenza ma anche di innovazione, di adattamento difensivo e persino di rilancio e cambiamento».
La società italiana nella fotografia scattata da Giuseppe De Rita è
“sciapa e malcontenta” e proprio per questo è meritoria una ricognizione
che punta a identificare i soggetti che si muovono in controtendenza.
Le metafore a cui ricorre – come d’abitudine – il Censis per indicare
l’alto valore aggiunto di questi sforzi quest’anno sono due, “energie
affioranti” e “sale alchemico”, e servono a indicare fenomeni capaci di
andare oltre la mera sopravvivenza alla crisi. E qui accanto
alla “borghesia rosa” il Rapporto scommette sulla «faticata soggettività
degli stranieri che vivono in Italia», sia in termini imprenditoriali
sia di partecipazione sociale. E ancora De Rita sottolinea “l’importanza
crescente” delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o
lavorano all’estero e che un giorno possono essere richiamati «a fare
un’Italia orizzontalmente operante nella grande platea della
globalizzazione». Infine il Censis rinnova la sua fiducia sulle
forze di territorio, almeno quelle che si stanno affrancando dal
localismo e stanno mostrando una carica di immedesimazione tra la vita
della comunità e le imprese. «Cosa che una volta valeva solo per
l’Olivetti» e oggi invece si registra in buona parte del Nord.
Sul piano lessicale, terreno di impegno tutt’altro che secondario del
deritismo militante, la proposta del Rapporto è di sostituire la
vecchia espressione di “coesione sociale” con “connettività”.
Non stiamo parlando della banale connessione tecnico-digitale –
avvertono gli estensori – ma addirittura del filo rosso del nuovo
sviluppo. E chi meglio delle donne ha dimostrato la capacità di
fare rete, di costruire “nuova civiltà collettiva” partendo dalle
esperienze orizzontali e non dalle agende fitte di priorità individuate a
tavolino? Il Censis continua a credere nella spontaneità dei processi
sociali e nella loro lenta maturazione, spera che si connettano
generando ulteriore valore aggiunto, pensa che in fondo sia questo il
vero argine al populismo e se i tempi della politica non sono quelli
della società, beh .. pazienza.
Scrive De Rita: «Non si costruisce nessuna classe dirigente con
annunci di catastrofe emessi a ritmo continuo, con continue chiamate
all’affanno, con continue affannose proposte di rigore, con un continuo
atteggiamento pedagogico cui è sotto inteso un moralistico pregiudizio
nei confronti delle qualità civili della gente». Forse mai come
quest’anno il Rapporto aveva dedicato così poco spazio al quadro
politico: sette paginette, tabelle incluse, in un librone che ne conta
540. Il titolo del capitolo contiene già un giudizio piuttosto netto
(“avvitamento della politica”) e il testo si appunta criticamente sul
ritorno del decisionismo testimoniato dai 664 provvedimenti emanati dai
governi Monti e Letta, di cui però sono stati realmente adottati solo
225, pari al 33,9%.
È risaputo che il governo dei tecnici prima e quello delle larghe
intese dopo non abbiano entusiasmato De Rita che in quest’occasione ha
voluto soprattutto sottolinearne il paradosso tra una produzione legislativa poderosa e la cronica incapacità di implementazione delle novità.
Quanto alle virtù salvifiche dei riti delle primarie o delle nuove
leadership il Rapporto non ne parla: preferisce riporre le speranze,
come da tradizione, sulle trasformazioni collettive di lungo periodo.
Anche per questo inneggia alle donne.
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