La strage di Montréal: un ‘femminicidio’ di vent’anni fa (6 dicembre 1989).
di Valentina Fulginiti
Oggi è il 6 dicembre 2013. Sono passati esattamente 24 anni dal Montreal Massacre,
quando il 25enne Marc Lépine (un canadese di origini franco-algerine)
irruppe nelle sale del Polytechnique e aprì il fuoco su una massa di
aspiranti ingegneri. A differenza dei molti stragisti di questo tipo,
però, Lepine era selettivo. Il suo obiettivo era colpire quante più
studentesse possibili. Donne. Colpevoli di essersi iscritte a ingegneria
e di aver voluto occupare un territorio “maschile.” Per questo,
nell’aula universitaria, separò i maschi dalle femmine prima di aprire
il fuoco, selettivamente, su queste ultime.
“Voi siete
femministe, e io odio le femministe,” spiegò prima di toccare il
grilletto. E poco valsero le parole con cui Natalie Provost, una delle
studentesse lì presenti, cercò di salvare se stessa e le proprie
compagne di classe: “Non siamo femministe.”
Delle 27 donne colpite dal fuoco, 14 persero la vita. Si chiamavano
Genevieve Bergeron, Nathalie Croteau, Anne-Marie Edward, Maryse
Laganiere, Anne-Marie Lemay, Michele Richard, Annie Turcotte, Helene
Colgan, Barbara Daigneaul, Maud Haviernick, Maryse LeClair, Sonia
Pelletier, Annie St-Arneault e Barbara Klucznik-Widajewicz. Altre, come
la stessa Natalie Provost (cui il Toronto Star dedica un interessante articolo
in occasione del 20º anniversario della strage, tre anni fa),
proseguirono la propria carriera, contribuendo a combattere stereotipi e
ineguaglianze con il loro esempio.
La storia della strage di Montreal non è molto conosciuta in Italia,
dove di femminicidio si parla molto, e spesso a sproposito. Sicuramente
Marc Lépine sarebbe un caso da manuale. Chissà se i vari “esperti”
italiani, pronti a negare valore alla categoria in nome del preteso
universalismo dell’essere umano, riuscirebbero a negare lo status di
‘femminicidio’ anche a un massacro come quello. Nella sua psiche minata
da abusi infantili e traumi (dico questo per comprendere, non per
giustificare), le donne erano diventate responsabili dei suoi fallimenti
personali. Nella nota suicida si dichiarava fieramente anti-femminista,
e nel suo “Annex” (allegato) arrivava a stilare una lista di 19 donne,
colpevoli, col loro successo, di aver ‘derubato’ gli uomini del loro
legittimo rango. La sua nota suicida, pubblicata pochi giorni dopo la
strage su La Gazette e successivamente ristampata molte volte, è illuminante:
“Dato che, scienza a parte, sono un retrogrado per natura, le femministe hanno sempre avuto un talento speciale nel farmi infuriare. Pretendono di mantenere i vantaggi che derivano dall’essere donne (come assicurazioni più economiche, o il diritto a una lunga maternità preceduta da una lunga aspettativa) mentre cercano di arraffare anche quelli degli uomini. Per esempio, è auto-evidente che se si eliminasse la distinzione maschile/femminile alle Olimpiadi, non ci sarebbero più donne, salvo che negli eventi decorativi. Perciò le femministe si guardano bene dal cercare di rimuovere quella barriera. Sono talmente opportuniste che non vogliono nemmeno trarre vantaggio dalla conoscenza accumulate dagli uomini attraverso i secoli. E cercano sempre di rappresentarli negativamente, ogni volta che ne hanno l’opportunità.”
Il punto è che, come Breivik, Lépine non era un folle isolato. Lo scrive lui stesso:
“Anche se i media mi attribuiranno la qualifica di ‘Folle Omicida’, io mi considero una persona razionale ed erudita, che solo la Morte [Grim Reaper] ha costretto a intraprendere atti estremi.”
E mentre la società piangeva il lutto di una strage senza precedenti,
il movimento femminista tentò di indicare il vero mostro, riconoscendo
nell’episodio una forma estrema, ma non isolata, di violenza contro le
donne – anche attirandosi altre accuse di opportunismo, nel voler
‘politicizzare’ una tragedia.
Come scriveva, in un articolo di 3 anni fa, la militante Judy Repin:
Come scriveva, in un articolo di 3 anni fa, la militante Judy Repin:
“Noi non fummo sorprese. Conoscevamo benissimo quella rabbia. Le femministe ne parlavano da decenni. La violenza contro le donne era un’epidemia in corso: ma fu solo il 6 dicembre 1989 che il velo sulla misoginia fu sollevato, e con un atto di tale odio e furia da rendere impossibile qualsiasi altra spiegazione. Quel tremendo atto di violenza premise a molti di noi di ricordare, o di ammettere la verità con noi stesse, o di parlare finalmente ad altri della violenza subita per mano maschile.”
Contrariamente ai desideri di Marc Lepine, negli anni successivi al
suo massacro l’iscrizione femminile alle facoltà di Ingegneria è
cresciuta dal 13% al 19% (ma ora i tassi sono nuovamente in calo). Nel
1991 venne lanciato un movimento contro la violenza di genere (White Ribbon,
dai nastri bianchi che lo simboleggiavano), ma ci sono voluti vent’anni
perché fosse istituito un registro delle armi da fuoco, allo scopo di
controllarne la circolazione e prevenire stragi come quella di Montreal
(l’opposizione dei conservatori è venuta meno solo in tempi
recentissimi). La strada da fare è ancora lunga, e non solo in Canada.
Fonti citate:
[en] Judy Repin sulla strage di Montreal (Rabble.ca)
[en] La nota suicida di Marc Lepine (City TV)
[en] Lezioni a vent’anni dal Montreal Massacre (Toronto Star)
[en] La nota suicida di Marc Lepine (City TV)
[en] Lezioni a vent’anni dal Montreal Massacre (Toronto Star)
Tutte le traduzioni dall’inglese sono di Valentina Fulginiti.
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