domenica 31 agosto 2014

La brigata di donne curde "Pronte a morire per la libertà"

BIRITANE, il profilo armonioso e la voce d’usignolo, a poco più di vent’anni manovra un monumentale fucile automatico sopra le montagne rocciose del Kurdistan siriano attorno a Ras Al-Ayn, il valico di frontiera con l’Iraq. Arruolata nei ranghi dell’Ypg, la Forza di difesa del popolo, è a capo di una delle brigate decentrate della milizia curda. Assieme ad altri 40 mila soldati, si batte in prima linea contro i jihadisti dell’Is, in Siria e in Iraq. Come lei, qualcosa come 16 mila altre donne compongono il 40 per cento della forza curda siriana.
 
Biritane intona un canto in un prezioso momento di pausa nelle sanguinose battaglie di questi giorni per bloccare l’avanzata dell’Is. Si direbbe una canzone d’amore, tanto è dolce la melodia, registrata da Hamid Mesud, un collaboratore di France24. E invece lei sta celebrando, dice, la memoria delle sue compagne cadute sul campo, e lo fa per sollevare il morale delle altre accucciate lì intorno. «Abbiamo scelto di morire in nome della libertà delle donne», racconta. «No, noi non ci sposiamo: non possiamo mettere su famiglia, perché potremmo morire ad ogni istante».

Bisognerebbe parlare della soave Biritane al passato, infatti lei è morta proprio pochi giorni fa. Quella volta aveva aggiunto: «Il campo di battaglia per me è qualcosa di divino, mi ricorda le amiche uccise. Loro erano al mio fianco nella stessa trincea. Siamo state costrette a prendere le armi perché gli islamisti vogliono riportarci indietro al Medio Evo, ridurre le donne in schiavitù».

Le peshmerga non sono una novità nella storia dei curdi, fieri guerrieri delle montagne. Dall’altra parte del confine siriano, in Iraq, queste sono organizzate in un reggimento femminile, che conta quattro battaglioni con un comandante per ogni brigata. È dal 1996 che il reggimento si addestra assieme, e come, i maschi nel governatorato di Sulaymaniyah, nel Nord Est del Paese. All’inizio si era trattato di combattere contro le Guardie repubblicane di Saddam Hussein nella guerra civile che insanguinava il Kurdistan tra le fazioni rivali di Barzani (attuale presidente del Kurdistan iracheno) e Talabani (presidente dell’Iraq fino al 24 luglio scorso). Poi, riferisce alla stampa Lamiah Mohammed Qadir col suo grado di colonnello, «le peshmerga hanno continuato ad accumulare esperienza sul campo di battaglia».

Lei ricorda la grande «battaglia di liberazione dell’Iraq nel 2003», quando le forze americane martellavano Bagdad, e «i combattimenti contro gli islamisti di Ansar al-Sunna a Halabja». Oggi la minaccia che richiama le donne al fronte è la stessa su entrambi i versanti del vasto altipiano del Kurdistan a cavallo fra Tigri e Eufrate. È la violenza estrema dell’armata fondamentalista riversatasi in Iraq dai deserti orientali della Siria come dal Medio Evo sotto la bandiera nera dell’Is: predoni barbuti islamisti intenti a massacrare sommariamente gli "infedeli" e a saccheggiare lungo la loro marcia. Ovunque controllino il territorio, «hanno imposto alle donne il niqab, le hanno costrette a sposarsi contro la propria volontà, le hanno vendute come schiave», dice un’altra leader di brigata, Chelan Shakhwan nelle retrovie di Jalawla, 150 chilometri da Baquba in Iraq. La cronaca di ieri aggiunge nuove conferme: almeno 100 vedove e orfane della minoranza yazidita di Kocho sono state portate all’asta a un mercato jihadista. Questo dopo che i terroristi hanno separato le femmine, chiuse in una scuola, e ucciso tutti i maschi al di sopra dei 12 anni.

Jiane, giovane comandante di un’unità curda sul versante siriano, tutto questo lo sa bene per averlo già visto negli anni passati in Siria. Perciò dice a proposito della sua determinazione: «Impediremo all’Is di stabilirsi in queste terre a ogni costo. Noi la chiamiamo "la battaglia di Ras Al-Ayn" (il varco di frontiera vicino alla Turchia). Centinaia di islamisti sono passati da quell’accesso per combatterci. A tratti ci siamo dovute ritirare. Però, abbiamo tenuto». Poco lontana da lei, Biritane, prima d’essere uccisa in combattimento, annuiva: «Noi confidiamo in noi stesse. Vogliamo soltanto difenderci. Siamo obbligate a uccidere per salvare la vita dei nostri cari e dei nostri bambini».


FONTE: http://www.parieuguali.it/peu.asp?p=943

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