BIRITANE,
il profilo armonioso e la voce d’usignolo, a poco più di vent’anni
manovra un monumentale fucile automatico sopra le montagne rocciose
del Kurdistan siriano attorno a Ras Al-Ayn, il valico di frontiera
con l’Iraq. Arruolata nei ranghi dell’Ypg, la Forza di difesa del
popolo, è a capo di una delle brigate decentrate della milizia curda.
Assieme ad altri 40 mila soldati, si batte in prima linea contro i
jihadisti dell’Is, in Siria e in Iraq. Come lei, qualcosa come 16 mila
altre donne compongono il 40 per cento della forza curda siriana.
Biritane
intona un canto in un prezioso momento di pausa nelle sanguinose
battaglie di questi giorni per bloccare l’avanzata dell’Is. Si direbbe
una canzone d’amore, tanto è dolce la melodia, registrata da Hamid
Mesud, un collaboratore di France24. E invece lei sta celebrando,
dice, la memoria delle sue compagne cadute sul campo, e lo fa per
sollevare il morale delle altre accucciate lì intorno. «Abbiamo scelto
di morire in nome della libertà delle donne», racconta. «No, noi non
ci sposiamo: non possiamo mettere su famiglia, perché potremmo
morire ad ogni istante».
Bisognerebbe
parlare della soave Biritane al passato, infatti lei è morta proprio
pochi giorni fa. Quella volta aveva aggiunto: «Il campo di battaglia
per me è qualcosa di divino, mi ricorda le amiche uccise. Loro erano
al mio fianco nella stessa trincea. Siamo state costrette a prendere
le armi perché gli islamisti vogliono riportarci indietro al Medio
Evo, ridurre le donne in schiavitù».
Le
peshmerga non sono una novità nella storia dei curdi, fieri guerrieri
delle montagne. Dall’altra parte del confine siriano, in Iraq, queste
sono organizzate in un reggimento femminile, che conta quattro
battaglioni con un comandante per ogni brigata. È dal 1996 che il
reggimento si addestra assieme, e come, i maschi nel governatorato di
Sulaymaniyah, nel Nord Est del Paese. All’inizio si era trattato di
combattere contro le Guardie repubblicane di Saddam Hussein nella
guerra civile che insanguinava il Kurdistan tra le fazioni rivali di
Barzani (attuale presidente del Kurdistan iracheno) e Talabani
(presidente dell’Iraq fino al 24 luglio scorso). Poi, riferisce alla
stampa Lamiah Mohammed Qadir col suo grado di colonnello, «le
peshmerga hanno continuato ad accumulare esperienza sul campo di
battaglia».
Lei ricorda la grande «battaglia di liberazione dell’Iraq
nel 2003», quando le forze americane martellavano Bagdad, e «i
combattimenti contro gli islamisti di Ansar al-Sunna a Halabja». Oggi
la minaccia che richiama le donne al fronte è la stessa su entrambi i
versanti del vasto altipiano del Kurdistan a cavallo fra Tigri e
Eufrate. È la violenza estrema dell’armata fondamentalista riversatasi
in Iraq dai deserti orientali della Siria come dal Medio Evo sotto la
bandiera nera dell’Is: predoni barbuti islamisti intenti a
massacrare sommariamente gli "infedeli" e a saccheggiare lungo la loro
marcia. Ovunque controllino il territorio, «hanno imposto alle donne
il niqab, le hanno costrette a sposarsi contro la propria volontà,
le hanno vendute come schiave», dice un’altra leader di brigata,
Chelan Shakhwan nelle retrovie di Jalawla, 150 chilometri da Baquba
in Iraq. La cronaca di ieri aggiunge nuove conferme: almeno 100 vedove
e orfane della minoranza yazidita di Kocho sono state portate
all’asta a un mercato jihadista. Questo dopo che i terroristi hanno
separato le femmine, chiuse in una scuola, e ucciso tutti i maschi al
di sopra dei 12 anni.
Jiane,
giovane comandante di un’unità curda sul versante siriano, tutto
questo lo sa bene per averlo già visto negli anni passati in Siria.
Perciò dice a proposito della sua determinazione: «Impediremo all’Is
di stabilirsi in queste terre a ogni costo. Noi la chiamiamo "la
battaglia di Ras Al-Ayn" (il varco di frontiera vicino alla Turchia).
Centinaia di islamisti sono passati da quell’accesso per
combatterci. A tratti ci siamo dovute ritirare. Però, abbiamo tenuto».
Poco lontana da lei, Biritane, prima d’essere uccisa in
combattimento, annuiva: «Noi confidiamo in noi stesse. Vogliamo
soltanto difenderci. Siamo obbligate a uccidere per salvare la vita
dei nostri cari e dei nostri bambini».
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