domenica 31 agosto 2014

Le Yazide rapite dimenticate

Iraq. “Il grido delle Yazide[1] rapite: ora vogliamo solo morire”
Intervista alla parlamentare Vian Dakhil: "Seicento le giovani prigioniere dei jihadisti[2]. Stuprate tutti i giorni, preferirebbero morire sotto le bombe". "Sui monti Sinjar ancora centinaia di persone dimenticate da tutti".
 
 
Vian Dakhil, ancora convalescente dopo l’incidente di un paio di settimane fa ERBIL (Iraq): "Sulle montagne di Sinjar ci sono ancora cinquecento persone, per lo più anziani, disabili o donne incinte, e sono tutte troppo stanche per affrontare l’impervio sentiero che li porterebbe a valle e da lì verso i campi profughi nel nord del Kurdistan".

 E’ ancora la quarantenne Vian Dakhil a richiamare l’attenzione sulle sofferenze del suo popolo, la deputata yazida che il 5 agosto scorso, in un accorato intervento al Parlamento di Bagdad, denunciò al mondo lo sterminio dei suoi per mano dei fondamentalisti islamici. La settimana successiva, la Dakhil salì su uno dei primi elicotteri che portavano soccorsi ai 40mila yazidi fuggiti in montagna per scampare ai massacri. Ma l’elicottero, forse troppo carico, cadde e lei si ruppe due costole e si spappolò la gamba destra. La deputata fu immediatamente trasportata a Istanbul, dove ha subito due lunghe operazioni. Da pochi giorni è tornata a Erbil, nella casa dei genitori, dove l’incontriamo ancora allettata. Dice, ignorando la nostra domanda sul suo stato di salute: "Quelle persone stanno male, perché dimenticate da tutti. Ormai gli sforzi sono tutti destinati ai campi profughi. Ma lassù c’è ancora bisogno di aiuto".

Signora Dakhil, che cosa sa delle donne e delle ragazze yazide rapite le scorse settimane dai soldati dello Stato islamico?
"Siamo in contatto con molte di loro. Ci chiamano appena possono di nascosto dagli islamisti e ci raccontano l’orrore di cui sono vittime. Saranno sei o settecento, e ogni volta ci chiedono di far bombardare il luogo dove sono rinchiuse. Preferiscono morire che essere stuprate tutte le sere dalle bande del califfato".

Ha un’idea di quanti yazidi siano stati trucidati finora?
"E’ difficile stabilirlo, perché di molti yazidi non abbiamo più notizie, ma non sappiamo se sono stati uccisi o solamente fatti prigionieri. Ma dopo l’eccidio di Dokho, i morti ammazzati dovrebbero essere circa duemila".

Come spiega tanto odio da parte degli islamisti nei confronti degli yazidi?
"Fa parte del loro credo odiarci, perché ci vedono come "apostati". E perché sono i loro imam a incitarli all’odio nei nostri confronti. Lo fanno con le loro fatwa, che diffondono in rete. Sono loro che li autorizzano a ucciderci, a depredarci, a stuprare le nostre donne e a rapire i nostri bambini per farne dei "musulmani". Giustificano i loro orrori con il loro Dio".

Ma vi aspettavate di essere aggrediti con tale violenza, quando le truppe islamiste hanno cominciato a occupare le vostre terre?
"No, perché pensavamo che il loro solo obiettivo fosse rovesciare il governo di Al Maliki e conquistare Bagdad. Eravamo certi che avessero solo mire politiche. Non credevamo che se la sarebbero presa anche con noi o con i cristiani nelle regioni che andavano via via conquistando. Soprattutto, non immaginavamo che avrebbero fatto la guerra anche ai curdi".

Ci sono yadizi che accusano i peshmerga[3] di non averli protetti contro gli islamisti. Lei è tra questi?
"I peshmerga hanno combattuto a Sinjar contro gli islamisti che ci attaccavano, ma allora non erano ancora stati riforniti di armi statunitensi. E con i loro vecchi kalashnikov poco hanno potuto di fronte alle armi moderne dei jihadisti. Non mi sento di criticare i combattenti curdi, perché per noi hanno fatto molto".

Che cosa si aspetta ora dalla comunità internazionale?
"Deve fare di più. Molto di più. La mia gente è scampata a un genocidio e ha perso tutto. Anzitutto ci serve protezione".

Adesso è la città di Amerli, a maggioranza turcomanna, sotto assedio degli islamisti. Può accadere anche lì quanto è successo a Sinjar?
"Sì, se non intervengono gli americani o chi per loro, anche lì ci saranno molto presto degli orrendi massacri. E’ questione di giorni, forse di ore". 

Il 5 agosto scorso, quando lei si è rivolta con passione al Parlamento di Bagdad, come hanno reagito i suoi colleghi deputati?
"Di solito, quando intervengo al Parlamento iracheno scateno reazioni violente da parte degli altri deputati. Ma quel giorno, per la prima volta si sono alzati tutti in piedi, e mi hanno ascoltato, in religioso silenzio. Forse hanno capito che la stessa sorte che è capitata agli yazidi potrà presto abbattersi anche sulle loro comunità". 

Crede che il premier iracheno incaricato di formare un nuovo governo, Haider al Abadi, sarà in grado di cambiare le carte in tavola, e di riappacificare sciiti e sunniti?
"All’inizio si darà da fare, per dimostrare che gli americani e gli iraniani hanno fatto bene a nominarlo. Poi, però, la situazione tornerà tale a quale a prima. La sola soluzione credo che sia creare tre Stati in Iraq: uno sciita, uno sunnita e uno curdo. Ci vorrà ancora qualche anno, ma non vedo alternative. E’ illusorio credere che un giorno riusciremo a convivere in pace nello stesso Iraq".

 

[1] Lo Yazidismo (in curdo ئێزیدی, Ēzidī, Īzidī, in arabo: ﻳﺰﻳﺪﻱ, Yazīdī, in turco Cyrāǵ Sândëren, prop. "spegnitori di lampade", in persiano Shaiôān peresht, "adoratori del diavolo) è una religione monoteista sincretica praticata da popolazioni curde. Erroneo, malgrado un corrivo suo uso giornalistico, è trattare il termine "yazidi" come un etnonimo, mentre esso va riferito a una specifica fede religiosa.
La religione yazidi è una combinazione sincretistica di zoroastrismo, manicheismo, ebraismo e cristianesimo nestoriano sui quali sono stati successivamente aggiunti elementi islamici sciiti e sufi. Fanno parte della religione yazidi il battesimo, il divieto di mangiare certi cibi, la circoncisione, il digiuno, il pellegrinaggio devozionale, l’interpretazione dei sogni, e la trasmigrazione delle anime. Gli yazidi sono monogami, anche se, in alcuni rari casi, ai loro capi è concesso avere più di una moglie. I bambini vengono "battezzati" alla nascita; la circoncisione è una pratica diffusa ma non obbligatoria, come nell’Islam del resto. Subito dopo la morte i defunti sono deposti con le mani giunte in tombe di forma conica.

[2] Jihād, parola araba, (ğihād in arabo: جهاد) che deriva dalla radice <"ğ-h-d> che significa "esercitare il massimo sforzo". La parola connota un ampio spettro di significati, dalla lotta interiore spirituale per attingere una perfetta fede fino alla guerra santa. Il termine fa riferimento ad una delle istituzioni fondamentali dell’Islam.
Oggi il termine è usato in numerosi circoli come se avesse una dimensione esclusivamente militare. Per quanto questa sia l’interpretazione più comune di jihād, è degno di nota che la parola non è usata strettamente in questo senso nel Corano, il testo sacro dell’Islam. È anche vero, tuttavia, che la parola è usata in numerosi hadīth sia in contesti militari che non militari.

[3] La parola Peshmerga in curdo indica letteralmente un combattente guerrigliero che intende battersi fino alla morte.
 
 
 

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