Iraq. “Il grido delle Yazide[1]
rapite: ora vogliamo solo
morire”
Intervista alla parlamentare
Vian Dakhil: "Seicento le
giovani prigioniere dei
jihadisti[2].
Stuprate tutti i giorni,
preferirebbero morire sotto le
bombe". "Sui monti Sinjar ancora
centinaia di persone dimenticate
da tutti".
Vian Dakhil, ancora
convalescente dopo l’incidente
di un paio di settimane fa ERBIL
(Iraq):
"Sulle montagne di Sinjar ci
sono ancora cinquecento persone,
per lo più anziani, disabili o
donne incinte, e sono tutte
troppo stanche per affrontare
l’impervio sentiero che li
porterebbe a valle e da lì verso
i campi profughi nel nord del
Kurdistan".
E’ ancora la
quarantenne Vian Dakhil a
richiamare l’attenzione sulle
sofferenze del suo popolo, la
deputata yazida che il 5 agosto
scorso, in un accorato
intervento al Parlamento di
Bagdad, denunciò al mondo lo
sterminio dei suoi per mano dei
fondamentalisti islamici. La
settimana successiva, la Dakhil
salì su uno dei primi elicotteri
che portavano soccorsi ai 40mila
yazidi fuggiti in montagna per
scampare ai massacri. Ma
l’elicottero, forse troppo
carico, cadde e lei
si ruppe due costole e
si spappolò la gamba destra. La
deputata fu immediatamente
trasportata a Istanbul, dove ha
subito due lunghe operazioni. Da
pochi giorni è tornata a Erbil,
nella casa dei genitori, dove
l’incontriamo ancora allettata.
Dice, ignorando la nostra
domanda sul suo stato di salute:
"Quelle persone stanno male,
perché dimenticate da tutti.
Ormai gli sforzi sono tutti
destinati ai campi profughi. Ma
lassù c’è ancora bisogno di
aiuto".
Signora Dakhil, che cosa sa
delle donne e delle ragazze
yazide rapite le scorse
settimane dai soldati dello
Stato islamico?
"Siamo in contatto con molte di
loro. Ci chiamano appena possono
di nascosto dagli islamisti e ci
raccontano l’orrore di cui sono
vittime. Saranno sei o
settecento, e ogni volta ci
chiedono di far bombardare il
luogo dove sono rinchiuse.
Preferiscono morire che essere
stuprate tutte le sere dalle
bande del califfato".
Ha un’idea di quanti yazidi
siano stati trucidati finora?
"E’ difficile stabilirlo, perché
di molti yazidi non abbiamo più
notizie, ma non sappiamo se sono
stati uccisi o solamente fatti
prigionieri. Ma dopo l’eccidio
di Dokho, i morti ammazzati
dovrebbero essere circa
duemila".
Come spiega tanto odio da parte
degli islamisti nei confronti
degli yazidi?
"Fa parte del loro credo
odiarci, perché ci vedono come
"apostati". E perché sono i loro
imam a incitarli all’odio nei
nostri confronti. Lo fanno con
le loro fatwa, che diffondono in
rete. Sono loro che li
autorizzano a ucciderci, a
depredarci, a stuprare le nostre
donne e a rapire i nostri
bambini per farne dei
"musulmani". Giustificano i loro
orrori con il loro Dio".
Ma vi aspettavate di essere
aggrediti con tale violenza,
quando le truppe islamiste hanno
cominciato a occupare le vostre
terre?
"No, perché pensavamo che il
loro solo obiettivo fosse
rovesciare il governo di Al
Maliki e conquistare Bagdad.
Eravamo certi che avessero solo
mire politiche. Non credevamo
che se la sarebbero presa anche
con noi o con i cristiani nelle
regioni che andavano via via
conquistando. Soprattutto, non
immaginavamo che avrebbero fatto
la guerra anche ai curdi".
Ci sono yadizi che accusano i
peshmerga[3]
di non averli protetti contro
gli islamisti. Lei è tra questi?
"I peshmerga hanno combattuto a
Sinjar contro gli islamisti che
ci attaccavano, ma allora non
erano ancora stati riforniti di
armi statunitensi. E con i loro
vecchi kalashnikov poco hanno
potuto di fronte alle armi
moderne dei jihadisti. Non mi
sento di criticare i combattenti
curdi, perché per noi hanno
fatto molto".
Che cosa si aspetta ora dalla
comunità internazionale?
"Deve fare di più. Molto di più.
La mia gente è scampata a un
genocidio e ha perso tutto.
Anzitutto ci serve protezione".
Adesso è la città di Amerli, a
maggioranza turcomanna, sotto
assedio degli islamisti. Può
accadere anche lì quanto è
successo a Sinjar?
"Sì, se non intervengono gli
americani o chi per loro, anche
lì ci saranno molto presto degli
orrendi massacri. E’ questione
di giorni, forse di ore".
Il 5 agosto scorso, quando lei
si è rivolta con passione al
Parlamento di Bagdad, come hanno
reagito i suoi colleghi
deputati?
"Di solito, quando intervengo al
Parlamento iracheno scateno
reazioni violente da parte degli
altri deputati. Ma quel giorno,
per la prima volta si sono
alzati tutti in piedi, e mi
hanno ascoltato, in religioso
silenzio. Forse hanno capito che
la stessa sorte che è capitata
agli yazidi potrà presto
abbattersi anche sulle loro
comunità".
Crede che il premier iracheno
incaricato di formare un nuovo
governo, Haider al Abadi, sarà
in grado di cambiare le carte in
tavola, e di riappacificare
sciiti e sunniti?
"All’inizio si darà da fare, per
dimostrare che gli americani e
gli iraniani hanno fatto bene a
nominarlo. Poi, però, la
situazione tornerà tale a quale
a prima. La sola soluzione credo
che sia creare tre Stati in
Iraq: uno sciita, uno sunnita e
uno curdo. Ci vorrà ancora
qualche anno, ma non vedo
alternative. E’ illusorio
credere che un giorno riusciremo
a convivere in pace nello stesso
Iraq".
[1]
Lo Yazidismo (in
curdo
ئێزیدی,
Ēzidī, Īzidī,
in arabo:
ﻳﺰﻳﺪﻱ,
Yazīdī, in turco
Cyrāǵ
Sândëren,
prop. "spegnitori di
lampade", in persiano
Shaiôān peresht,
"adoratori del diavolo) è
una religione monoteista
sincretica praticata da
popolazioni curde. Erroneo,
malgrado un corrivo suo uso
giornalistico, è trattare il
termine "yazidi" come un
etnonimo, mentre esso va
riferito a una specifica
fede religiosa.
La religione yazidi è una
combinazione sincretistica
di
zoroastrismo,
manicheismo,
ebraismo e
cristianesimo nestoriano
sui quali sono stati
successivamente aggiunti
elementi islamici
sciiti e
sufi. Fanno parte
della religione yazidi il
battesimo, il
divieto di mangiare certi
cibi, la circoncisione, il
digiuno, il
pellegrinaggio
devozionale,
l’interpretazione dei
sogni, e la
trasmigrazione delle anime.
Gli yazidi sono monogami,
anche se, in alcuni rari
casi, ai loro capi è
concesso avere più di una
moglie. I bambini vengono
"battezzati" alla nascita;
la circoncisione è una
pratica diffusa ma non
obbligatoria, come
nell’Islam del resto. Subito
dopo la morte i defunti sono
deposti con le mani giunte
in tombe di forma conica.
[2]
Jihād, parola araba, (ğihād
in arabo:
جهاد)
che deriva dalla radice
<"ğ-h-d> che significa
"esercitare il massimo
sforzo". La parola connota
un ampio spettro di
significati, dalla lotta
interiore spirituale per
attingere una perfetta fede
fino alla guerra santa. Il
termine fa riferimento ad
una delle istituzioni
fondamentali dell’Islam.
Oggi il termine è usato in
numerosi circoli come se
avesse una dimensione
esclusivamente militare. Per
quanto questa sia
l’interpretazione più comune
di jihād, è degno di nota
che la parola non è usata
strettamente in questo senso
nel Corano, il testo sacro
dell’Islam. È anche vero,
tuttavia, che la parola è
usata in numerosi hadīth sia
in contesti militari che non
militari.
[3] La
parola Peshmerga in
curdo indica letteralmente
un combattente guerrigliero
che intende battersi fino
alla morte.
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