Una ragazza del Bangladesh è stata
aggredita a Mestre da un gruppo di connazionali. Le sue colpe? Studia e
veste all'occidentale. Attendiamo l'indignazione delle anime belle e dei
musulmani "moderati"...
Una studentessa del Bangladesh, musulmana, di 21 anni, a Mestre
è stata aggredita da un gruppo di uomini, per strada, mentre rincasava.
È riuscita a scappare, a rifugiarsi nell’appartamento che condivide con
un’altra studentessa dell’Università di Venezia e a chiamare la
polizia. Tuttavia non ha avuto il coraggio di far nomi, né tantomeno di
denunciare gli aggressori, perché teme rappresaglie alla sua famiglia.
Sarebbe un fatto di cronaca come un altro, riportato solo dalla stampa locale (la fonte è il Gazzettino di Venezia-Mestre), se non fosse che:
a) la ragazza è musulmana,
b) i suoi aggressori sono correligionari che lei conosceva,
c) il motivo dell’aggressione è ideologico e religioso.
Infatti l’hanno attaccata, prima di tutto, perché studiava, poi perché vestiva all’occidentale.
La polizia ha capito che non fosse il caso di andare oltre con le
domande, anche perché, in casi come questi, la rappresaglia sulla
famiglia della ragazza arriva veramente. Ora si confida che le forze
dell’ordine, che hanno allertato la Digos, seguano
veramente il suo caso e la proteggano, che non aspettino di trovarsi con
una studentessa morta prima di indagare sui colpevoli.
A questa ragazza
del Bangladesh è andata relativamente bene. Una sua coetanea originaria
del Pakistan, Hina Saleem, a Brescia è stata
decapitata per volere della famiglia nel 2006. Anche lei è stata uccisa
perché si comportava come una ragazza occidentale: lavorava in una
pizzeria e frequentava il fidanzato italiano. In quel caso la giustizia è
stata abbastanza rapida. Il processo, con rito abbreviato, si è
concluso nel novembre del 2007 con la condanna del padre e dei due
cognati a trent’anni di carcere per “omicidio volontario
(aggravato dalla premeditazione e dai motivi abietti) e distruzione di
cadavere”, mentre lo zio, che ha ammesso di aver partecipato alla
sepoltura ma non al delitto, ha avuto una condanna molto più lieve (2
anni e 8 mesi), ed è stato già scarcerato.
Il caso di Hina Saleem è passato alla
storia, molti altri no. Chi scrive ha assistito al processo a Brescia e
in quella occasione, Dounia Ettaib, di Acmid (Associazione Comunità
Marocchine delle Donne in Italia) aveva dichiarato «Dal 1997 al 2004
sono state uccise cinque donne: una solo perché voleva lavorare, una perché non voleva portare il velo, una perché voleva sposare un italiano, una perché voleva continuare gli studi,
una perché non voleva sposare un uomo scelto dal padre.
Ci sentiamo
sempre dire che sono “vittime del maschilismo” come ha affermato il
ministro Pollastrini proprio per il caso di Hina. Ma non prendiamoci in
giro: sono vittime del terrorismo, di un’ideologia che
predica un Islam sbagliato. Io posso essere vittima del maschilismo se
subisco una violenza sessuale, se vengo discriminata sul lavoro, se mi
viene negato il diritto di vivere come gli uomini, ma quando una donna
viene ammazzata perché si è rifiutata di obbedire alle regole della legge islamica, allora è una vittima del terrorismo islamico».
A questo punto, quante vittime del
terrorismo islamico, di questo “Islam sbagliato” si nascondono dietro ai
femminicidi, di cui veniamo a conoscenza tutte le sante
settimane?
L’aspetto inquietante di questo fenomeno è la nascita
spontanea di ghetti con proprie leggi e di polizie
private, privatissime e familiari che le implementano nel modo più
atroce possibile. Impedire a una ragazza di studiare o di lavorare è una
cosa che sentiamo alla televisione, quando si parla di Boko Haram
(letteralmente: “l’istruzione occidentale è peccato”) in Nigeria o dei Talebani in Afghanistan, o dell’Isis
in Iraq e Siria. Stentiamo a credere che qualcuno ragioni allo stesso
modo anche in un quartiere di Venezia o Brescia. E soprattutto stentiamo
a credere che qualcuno possa applicare, con la forza, una legge che
prevede anche la pena di morte, in un Paese, come l’Italia, che la pena
capitale l’ha abolita da quasi 70 anni. Certo, possiamo dire di esserci
abituati, visto che negli anni ’70 c’erano le Brigate Rosse che
applicavano in Italia la legge dell’Unione Sovietica, con tanto di
tribunali del popolo ed esecuzioni capitali. Ma non è un’attenuante:
proprio perché ci siamo passati dovremmo capire come reagire.
Se anche
in Italia dovesse nascere una polizia islamica, come avviene in altre città europee, i primi a lasciarci la pelle sarebbero proprio i musulmani, quelli giudicati troppo occidentalizzati, laici, o “apostati” (anche se non hanno mai cambiato religione), o scismatici
nel caso siano parte della minoranza sciita. Per fare un altro
parallelo con le Br: le loro vittime erano soprattutto socialisti e
sindacalisti, gente di sinistra, insomma, colpevole di “tradimento”
della causa rivoluzionaria. Così come la sinistra più ragionevole è
stata fondamentale per affrontare e sconfiggere il brigatismo, anche i
musulmani laici (dire “moderati” può trarre in inganno) sono
fondamentali per denunciare i soprusi di chi vuole instaurare la legge
coranica. La polizia non può tollerare la nascita di istituzioni parallele,
può intervenire se qualcuno si mette il corpetto della Shariah Police e
inizia a pattugliare le strade.
Il sistema educativo dovrebbe (ma non
lo fa) aiutare i musulmani a emanciparsi dalle imposizioni degli
jihadisti nostrani. Ma questo è, ed è destinato a rimanere, soprattutto
un conflitto tutto interno all’islam e alle comunità di musulmani
italiani. Che i moderati si sveglino. Prima che sia troppo tardi.
Nessun commento:
Posta un commento