lunedì 22 settembre 2014

Prove di sharia a casa nostra?

 
Una ragazza del Bangladesh è stata aggredita a Mestre da un gruppo di connazionali. Le sue colpe? Studia e veste all'occidentale. Attendiamo l'indignazione delle anime belle e dei musulmani "moderati"...
 
Mideast Saudi ArabiaUna studentessa del Bangladesh, musulmana, di 21 anni, a Mestre è stata aggredita da un gruppo di uomini, per strada, mentre rincasava. È riuscita a scappare, a rifugiarsi nell’appartamento che condivide con un’altra studentessa dell’Università di Venezia e a chiamare la polizia. Tuttavia non ha avuto il coraggio di far nomi, né tantomeno di denunciare gli aggressori, perché teme rappresaglie alla sua famiglia.

Sarebbe un fatto di cronaca come un altro, riportato solo dalla stampa locale (la fonte è il Gazzettino di Venezia-Mestre), se non fosse che:
 a) la ragazza è musulmana,
 b) i suoi aggressori sono correligionari che lei conosceva,
 c) il motivo dell’aggressione è ideologico e religioso.
Infatti l’hanno attaccata, prima di tutto, perché studiava, poi perché vestiva all’occidentale.

La polizia ha capito che non fosse il caso di andare oltre con le domande, anche perché, in casi come questi, la rappresaglia sulla famiglia della ragazza arriva veramente. Ora si confida che le forze dell’ordine, che hanno allertato la Digos, seguano veramente il suo caso e la proteggano, che non aspettino di trovarsi con una studentessa morta prima di indagare sui colpevoli.
A questa ragazza del Bangladesh è andata relativamente bene. Una sua coetanea originaria del Pakistan, Hina Saleem, a Brescia è stata decapitata per volere della famiglia nel 2006. Anche lei è stata uccisa perché si comportava come una ragazza occidentale: lavorava in una pizzeria e frequentava il fidanzato italiano. In quel caso la giustizia è stata abbastanza rapida. Il processo, con rito abbreviato, si è concluso nel novembre del 2007 con la condanna del padre e dei due cognati a trent’anni di carcere per “omicidio volontario (aggravato dalla premeditazione e dai motivi abietti) e distruzione di cadavere”, mentre lo zio, che ha ammesso di aver partecipato alla sepoltura ma non al delitto, ha avuto una condanna molto più lieve (2 anni e 8 mesi), ed è stato già scarcerato.

Il caso di Hina Saleem è passato alla storia, molti altri no. Chi scrive ha assistito al processo a Brescia e in quella occasione, Dounia Ettaib, di Acmid (Associazione Comunità Marocchine delle Donne in Italia) aveva dichiarato «Dal 1997 al 2004 sono state uccise cinque donne: una solo perché voleva lavorare, una perché non voleva portare il velo, una perché voleva sposare un italiano, una perché voleva continuare gli studi, una perché non voleva sposare un uomo scelto dal padre.
Ci sentiamo sempre dire che sono “vittime del maschilismo” come ha affermato il ministro Pollastrini proprio per il caso di Hina. Ma non prendiamoci in giro: sono vittime del terrorismo, di un’ideologia che predica un Islam sbagliato. Io posso essere vittima del maschilismo se subisco una violenza sessuale, se vengo discriminata sul lavoro, se mi viene negato il diritto di vivere come gli uomini, ma quando una donna viene ammazzata perché si è rifiutata di obbedire alle regole della legge islamica, allora è una vittima del terrorismo islamico».

A questo punto, quante vittime del terrorismo islamico, di questo “Islam sbagliato” si nascondono dietro ai femminicidi, di cui veniamo a conoscenza tutte le sante settimane?
L’aspetto inquietante di questo fenomeno è la nascita spontanea di ghetti con proprie leggi e di polizie private, privatissime e familiari che le implementano nel modo più atroce possibile. Impedire a una ragazza di studiare o di lavorare è una cosa che sentiamo alla televisione, quando si parla di Boko Haram (letteralmente: “l’istruzione occidentale è peccato”) in Nigeria o dei Talebani in Afghanistan, o dell’Isis in Iraq e Siria. Stentiamo a credere che qualcuno ragioni allo stesso modo anche in un quartiere di Venezia o Brescia. E soprattutto stentiamo a credere che qualcuno possa applicare, con la forza, una legge che prevede anche la pena di morte, in un Paese, come l’Italia, che la pena capitale l’ha abolita da quasi 70 anni. Certo, possiamo dire di esserci abituati, visto che negli anni ’70 c’erano le Brigate Rosse che applicavano in Italia la legge dell’Unione Sovietica, con tanto di tribunali del popolo ed esecuzioni capitali. Ma non è un’attenuante: proprio perché ci siamo passati dovremmo capire come reagire.

Se anche in Italia dovesse nascere una polizia islamica, come avviene in altre città europee, i primi a lasciarci la pelle sarebbero proprio i musulmani, quelli giudicati troppo occidentalizzati, laici, o “apostati” (anche se non hanno mai cambiato religione), o scismatici nel caso siano parte della minoranza sciita. Per fare un altro parallelo con le Br: le loro vittime erano soprattutto socialisti e sindacalisti, gente di sinistra, insomma, colpevole di “tradimento” della causa rivoluzionaria. Così come la sinistra più ragionevole è stata fondamentale per affrontare e sconfiggere il brigatismo, anche i musulmani laici (dire “moderati” può trarre in inganno) sono fondamentali per denunciare i soprusi di chi vuole instaurare la legge coranica. La polizia non può tollerare la nascita di istituzioni parallele, può intervenire se qualcuno si mette il corpetto della Shariah Police e inizia a pattugliare le strade.
Il sistema educativo dovrebbe (ma non lo fa) aiutare i musulmani a emanciparsi dalle imposizioni degli jihadisti nostrani. Ma questo è, ed è destinato a rimanere, soprattutto un conflitto tutto interno all’islam e alle comunità di musulmani italiani. Che i moderati si sveglino. Prima che sia troppo tardi.

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