Tra il dire e il fare
Il
governo portoghese ha elaborato un piano per contrastare la crisi
demografica senza precedenti che il paese attraversa. Ma in mente ha un
modello di famiglia che nella realtà non esiste, e cerca le cause dei
problemi nei luoghi sbagliati. Ecco perché la proposta non passa la
"prova del genere"
L'attuale
governo portoghese, una coalizione tra partito socialdemocratico e
partito cristiano democratico al potere dal 2011, ha espresso
pubblicamente preoccupazione per il crollo delle nascite. Come
conseguenza a febbraio ha nominato una commissione multidisciplinare con
l'incarico di proporre misure per aumentare il tasso di fecondità.
Dopo
pochi mesi la commissione ha presentato un rapporto in cui propone
alcune misure positive: un piano nazionale per promuovere a livello
politico e sociale la fertilità, la riduzione delle tasse per famiglie
con bambini, agevolazioni fiscali per i nonni che contribuiscono
all'educazione e il benessere dei loro nipoti, flessibilità di orario
dei servizi all'infanzia, l'esenzione dai costi di sicurezza sociale per
le imprese che assumono donne incinta o con figli minori di tre anni, e
la copertura statale dei costi per le cure contro l'infertilità.
Eppure
non è tutt'oro quel che luccica, una lettura di genere del rapporto ne
rivela l'impianto di stampo conservatore basato su un'idea di
genitorialità e cura che è ben lontana dal promuovere la parità tra
uomini e donne.
In Portogallo il tasso di fecondità è declinato
costantemente dagli anni '80 in poi fino ad arrivare a 1,28 figli per
donna nel 2012, posizionando il paese in coda alla classifica europea.
Questo dato, già di per se preoccupante, ha subito un ulteriore
peggioramento nell'ultimo anno, arrivando a 1,21 nel 2013. La mia tesi è
che se in un primo momento il calo della natalità è stato un riflesso
positivo della modernizzazione del paese e dell'emancipazione delle
donne, oggi questa lettura non regge più. I dati odierni vanno
interpretati alla luce di varie costrizioni e contraddizioni. Le recenti
indagini sulla fertilità ci dicono che se uomini e donne potessero
realizzare i loro desideri di genitorialità il numero di figli per ogni
donna salirebbe a 2,31.
Dopo la rivoluzione democratica del 1974,
l'uguaglianza tra donne e uomini è stata finalmente inclusa nella
costituzione portoghese e, nel 1976, le donne hanno acquisito gli stessi
diritti degli uomini. I consultori per la pianificazione familiare
vengono costituiti come parte integrante del servizio pubblico
sanitario, e le donne divengono progressivamente più consapevoli
dell'importanza di esercitare il controllo sulla propria vita sessuale e
riproduttiva.
Nel 1978 il nuovo codice civile elimina il principio di
potere del marito sulla moglie, implicando uno status paritario tra
uomini e donne nelle relazioni private.
Dalla rivoluzione in poi le
donne hanno investito sempre di più nella loro formazione, nel 1970-71
erano un terzo delle persone laureate, negli anni '80 la percentuale si
alza fino a raggiungere il 40 per cento, e, secondo gli ultimi dati
disponibili (2010-2011), ad oggi sono il 60%.
Durante la dittatura
innumerevoli famiglie vivevano in condizione di estrema povertà, la
rivoluzione democratica ha aperto nuove prospettive sia materiali che
sociali tanto agli uomini quanto alle donne. Questo processo di
modernizzazione ha avuto impulso anche dall'ingresso nella Comunità
economica europea nel 1986.
Eppure, per la maggior parte dei
lavoratori e le lavoratrici i salari sono rimasti relativamente bassi, i
modelli dominanti di produzione e organizzazione sono rimasti allineati
ai valori tradizionali, gli indicatori sul lavoro precario, povertà e
disuguaglianza sociale sono rimasti ben al di sotto della media europea e
nello sviluppo dello stato sociale si riflette la posizione
semiperiferica del paese.
In Portogallo il contributo delle donne
al reddito familiare è fondamentale per arrivare a fine mese. Il tasso
di occupazione femminile è stato a lungo relativamente alto (sopra la
media Ue), le donne lavorano principalmente a tempo pieno e hanno
percorsi lavorativi continuativi. Tuttavia il pieno coinvolgimento nel
mercato del lavoro retribuito non le ha preservate dal farsi carico del
grosso del lavoro domestico e di cura.
In primo luogo voglio
quindi evidenziare come nel rapporto della commissione governativa siano
totalmente assenti le misure per favorire la ridistribuzione del lavoro
di cura tra uomini e donne, che sarebbe fondamentale per conciliare il
tempo di vita e di lavoro e il desiderio di fertilità.
Nonostante
l'investimento in servizi di cura pubblici, la verità è che le
infrastrutture esistenti sono ben al di sotto dei bisogni delle
famiglie. Vale la pena notare come, comunque, il quadro politico di
riferimento si sia evoluto per consentire una maggiore condivisione dei
congedi genitoriali e permettere agli uomini di vivere una paternità più
attiva, in particolar modo dopo la nascita di un figlio. C'è un congedo
pienamente retribuito e obbligatorio di dieci giorni a cui si aggiunge
il "bonus di 30 giorni da condividere" un congedo facoltativo concesso
solo se condiviso tra uomini e donne, anche questo pienamente
retribuito.
Eppure, le costrizioni ideologiche (rappresentazioni
tradizionali dei ruoli di genere), i pregiudizi contro i papà attivi e
gli atteggiamenti ostili sul luogo di lavoro, fanno sì che meno di un
quarto dei papà utilizzi il bonus condiviso. E, contro la legge, circa
un terzo fa a meno del congedo retribuito obbligatorio. A ciò si
aggiunga la dimostrata discriminazione delle donne in termini di
opportunità di carriera frutto di una cultura organizzativa ostile e di
approcci manageriali tradizionalisti.
Ma gli stereotipi su
maternità e paternità sono solo una parte degli ostacoli alla
fecondità. Trovo, infatti, che siano le politiche che questo governo
mette in campo a rivelare l'aperta contraddizione con qualunque
preoccupazione per la bassa natalità, sfiorando il limite del paradosso.
Nel 2013 le ore settimanali di lavoro per i dipendenti pubblici sono
aumentate da 35 a 40. Questa misura ha avuto un impatto negativo sulla
conciliazione vita-lavoro dei dipendenti pubblici e contemporaneamente
ha disincentivato il settore pubblico dal ridurre il tempo di lavoro.
La
commissione del governo, afferma, cosa discutibilissima, che una delle
raccomandazioni chiave per l'innalzamento della fertilità è quella di
dare la possibilità alle donne di lavorare part-time per un anno dopo il
congedo di maternità. La commissione propone che questa misura venga
coperta finanziariamente al 50% dal datore di lavoro e dallo stato per
il restante 50%, rimpiazzando le lavoratrici in part-time forzato con
persone iscritte al collocamento.
Numerosi studi hanno dimostrato come i
lavoratori part-time abbiano molte meno possibilità sia di formazione
che di carriera e siano più precari. Soprattutto, questa raccomandazione
confligge con qualunque intento di parità di genere, cosi come con il
progresso/modernizzazione delle relazioni di genere, rinforzando la
posizione di subordinazione e dipendenza delle donne e l'ideologia della
donna "angelo del focolare". Le inchieste tra i lavoratori dimostrano
come sia donne che uomini preferirebbero lavorare di meno, ma non in
part-time. I dati inoltre ci dicono che la maggioranza delle donne che
lavorano in part-time spesso non lo fanno su una base volontaria.
Infine,
è necessario contestualizzare tutte queste riflessioni nel più ampio
scenario dell'attuale crisi economica e sociale dominato dal fiscal
compact, le misure di austerità, la riforma del mercato del lavoro che
ha creato non solo esclusione sociale ma anche una vera e propria
emorragia di giovani. Il numero di emigranti degli ultimi anni è
paragonabile a quello del paese allo stremo degli anni '60. È il
ritratto di un paese disperato. Senza le condizioni oggettive e
soggettive di fiducia nel futuro la società portoghese non è
sostenibile. È così difficile da capire?(1)
(1)Il
dibattito in Portogallo è ancora in corso, dalla data in cui questo
articolo è stato scritto sono state rilasciate nuove e ulteriori
dichiarazioni che non alterano però il senso dell'articolo.
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