Siamo certi che sia stato fatto tutto quello che si poteva
fare? In Senato abbiamo presentato il disegno di legge affinché la
risposta sia politica
Un bicamerale sul femminicidio ed educazione di genere a scuola
di Valeria Fedeli
La ratifica della Convenzione di Istanbul,
riconoscendo la violenza sulle donne e domestica come violazione dei
diritti umani, sancendo il principio secondo cui ogni persona ha il
diritto di vivere libera dalla violenza, ponendo agli Stati il vincolo
concreto del raggiungimento dell’uguaglianza tra i sessi de jure e de facto, è stata un passo fondamentale, ma un primo passo, per adeguare la nostra normativa agli standard internazionali più avanzati.
Ora dobbiamo implementare ancora il corpus normativo. Per questo abbiamo proposto l’istituzione di una Commissione bicamerale che risponda al dovere istituzionale di domandarsi se è stato fatto tutto quello che si poteva fare o se occorre un cambiamento più strutturale nelle azioni di contrasto alla violenza sulle donne.
La risposta deve, infatti, essere politica, sia nel senso che deve riguardare la ricostruzione di un patto sociale tra donne e istituzioni dello Stato,
sia nel senso che deve coinvolgere attivamente i decisori politici
perché, se è vero che nel Rapporto tematico dell’ONU si afferma che «in
Italia sono stati fatti sforzi da parte del Governo, attraverso
l’adozione di leggi e politiche», si aggiunge anche che
«questi atti non hanno però portato a una diminuzione dei femmicidi e non sono stati tradotti in un miglioramento della condizione di vita delle donne e delle bambine».
La Commissione sarà composta da dieci senatori e dieci deputati,
nominati entro venti giorni dall’inizio di ogni legislatura,
rispettivamente, dal Presidente del Senato della Repubblica e dal
Presidente della Camera dei deputati, in proporzione al numero dei
componenti dei gruppi parlamentari, garantendo comunque l’equilibrata
rappresentanza dei generi. Infatti, nella composizione della Commissione
stessa, abbiamo previsto che oltre al criterio di rappresentanza dei
gruppi parlamentari, sia anche rispettata una misura antidiscriminatoria rispetto al genere.
La Commissione lavorerà seguendo un approccio di tipo olistico rispetto alle cause strutturali di discriminazione, oppressione e marginalizzazione delle donne, elaborando una relazione annuale in cui, oltre a riportare dati istituzionali di misurazione del fenomeno della violenza nei confronti delle donne – e questo relazionandosi con quelle realtà, associazioni e media, che già operano in questo senso a partire anche dal lavoro che da due anni viene svolto dalla 27esima ora -
dovranno essere indicate misure e azioni sul piano politico, operativo,
giuridico e amministrativo che, in linea con gli standard
internazionali, siano volte a porre fine alle uccisioni di donne in quanto donne (femmicidi),
ma anche a prevenire e tutelare le donne da pratiche sociali violente
fisicamente o psicologicamente, che attentano all’integrità, allo
sviluppo psicofisico, alla salute, alla libertà o alla vita delle donne,
col fine di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico e/o psicologico (femminicidi).
La violenza femmicida è un fenomeno fortemente legato agli
stereotipi, alle rappresentazioni culturali, alle abitudini e mentalità
chiuse e maschiliste che resistono forti in alcuni Paesi e alcuni
retaggi sociali.
Costruire politiche di contrasto alla violenza nei confronti delle
donne significa intraprendere un percorso lungo e complesso, che renda
le violenze sulle donne sempre meno accettabili socialmente.
Occorre da subito lavorare su tre punti: stereotipi, linguaggio, educazione.
Un dato infatti è chiaro: anche al netto del grado di sviluppo
economico dei Paesi, gli abusi fisici e sessuali sono più diffusi là
dove, per affermare l’autorità maschile all’interno della coppia, le
norme culturali tendono a giustificare il ricorso alla forza e le
risposte delle Istituzioni sono viste deboli e poco efficaci.
Quando uno Stato fallisce nel perseguire femmicidio e violenze, l’impunità non solo intensifica la subordinazione e l’impotenza di colei a cui le violenze sono indirizzate, ma manda anche un messaggio alla società, che la violenza nei confronti delle donne è accettabile.
La conseguenza di un approccio inadeguato delle Istituzioni è la normalizzazione
dei comportamenti violenti nei confronti delle donne, in coerenza con
stereotipi discriminatori. Gli stereotipi sono semplificazioni rigide
che usiamo come «scorciatoie» rispetto alla complessità del mondo, sono
costruzioni sociali che si radicano poco a poco, fino a divenire idee
stabili che si tramandano tra generazioni, nelle famiglie, nelle scuole.
L’uso degli stereotipi di genere produce una rappresentazione
rigida e distorta della realtà, che si basa su ciò che ci aspettiamo
dalle donne e dagli uomini. Sono aspettative consolidate, che
non vengono messe in discussione perché apparentemente fondate su
differenze biologiche. Quelle aspettative invece sono rappresentazioni
culturali, che derivano dalle esperienze accumulate nel tempo.
Gli stereotipi non hanno nulla di naturale, ma presentano il vantaggio di rendere semplice ciò che è complesso. Sono una forzatura cognitiva, che elimina profondità e differenze. Dobbiamo invece sfidare quelle rappresentazioni che scelgono di semplificare e conservare, che diventano stereotipi e producono discriminazioni.
In sostanza, la sfida che ci dobbiamo porre è quella di cambiare il Paese sul piano delle relazioni tra i generi e, per farlo, è necessario ripartire dall’educazione.
La scuola e i libri di testo, infatti, sono spesso, sebbene in modo
inconsapevole, sessisti: trasmettono stereotipi e comportamenti che
favoriscono le «gabbie comportamentali di genere». Sappiamo però che
ogni intervento in ambito educativo ha senso ed efficacia, soprattutto
nel lungo periodo e in profondità, se riguarda per intero e dall’interno
l’impianto complessivo della scuola, soprattutto nel ciclo primario.
Interventi puntuali, estemporanei, «esterni» seppur importanti, non sono
efficaci e rischiano di essere vanificati nel tempo.
Secondo questa prospettiva abbiamo presentato un atto di sindacato ispettivo alla Ministra dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, chiedendole di sapere, da un lato, se e come intenda procedere al fine di introdurre la cultura del rispetto e della consapevolezza delle identità di genere e il superamento degli stereotipi sessisti tra gli obiettivi nazionali dell’insegnamento e nelle linee generali dei curricoli scolastici; dall’altro, se non ritenga necessario ed urgente agire affinché i libri di testo in ambito scolastico rispettino le indicazioni contenute nel codice di autoregolamentazione POLITE (esplicitate operativamente nei due vademecum allegati al codice), attraverso una dichiarazione di adesione al medesimo codice.
Tra le azioni possibili in ambito scolastico, e sono tante, ne
abbiamo scelte due che avessero i caratteri dell’incisività e
dell’economicità per lo Stato; entrambe sono a costo zero e vogliono
costituire il primo passo di un cammino verso la cultura del rispetto
consapevole tra i generi e della non violenza: sono due azioni che
agiscono in modo strutturale e continuo in campo educativo e scolastico e
non in modo estemporaneo «esterno».
Porre tra gli obiettivi nazionali dell’insegnamento nella
scuola italiana la promozione del rispetto delle identità di genere e il
superamento degli stereotipi sessisti – in ogni ciclo di
scuola, in ogni disciplina – vuol dire, tra l’altro, avvicinarsi
all’Europa politica e recepire le indicazioni contenute nell’obiettivo
strategico B4, «Formazione a una cultura della differenza di genere»,
per cui è necessario introdurre «nell’ambito delle proposte di riforma
della scuola, dell’università, della didattica, i saperi innovativi
delle donne, nel promuovere l’approfondimento culturale e l’educazione
al rispetto della differenza di genere».
Dobbiamo agire quindi con un piano complesso di azioni, sia di
conoscenza, analisi, sensibilizzazione e individuazione di risposte –
come negli obiettivi della Commissione parlamentare bicamerale e nel
lavoro educativo – sia di intervento immediato ed urgente – come il
finanziamento dei centri antiviolenza. Occorre rilevare in maniera adeguata le dimensioni del femminicidio in Italia,
i fattori di discriminazione strutturale correlati e l’efficacia della
risposta istituzionale a tutte le forme di violenza che lo precedono.
Serve poi individuare misure e azioni per sradicare ogni forma di discriminazione e violenza di genere
e per superare gli ostacoli al raggiungimento dell’uguaglianza
sostanziale delle donne come prevista dall’articolo 3 della
Costituzione, evitando prospettive falsamente neutrali che non sono vera
parità, ma anzi accrescono le discriminazioni.
Serve infine modificare la cultura del Paese,
superare la resistenza di un potere maschile e maschilista, prevenire
discriminazioni e sessismi prima che degenerino in meccanismi
patologici. È un lavoro lungo, la ratifica della Convenzione di Istanbul
è un passo incoraggiante, la determinazione delle donne e degli uomini delle Istituzioni deve ora essere pari alla responsabilità che abbiamo.
Una responsabilità che dobbiamo e possiamo onorare.
L’IMMAGINE
«Come tu mi vuoi», la bambola creata da Patrizia Fratus. È di dimensioni umane, in abiti succinti e ed è volutamente invertebrata e alle apparenze un po’ sciocca. Un “Articolo per signori”, come scritto sulla scatola che la contiene. Ne sono state create dieci. Con la loro “adozione” si sta finanziando la Dimora, la casa rifugio per donne maltrattate di Brescia. Un’iniziativa “privata”.
«Come tu mi vuoi», la bambola creata da Patrizia Fratus. È di dimensioni umane, in abiti succinti e ed è volutamente invertebrata e alle apparenze un po’ sciocca. Un “Articolo per signori”, come scritto sulla scatola che la contiene. Ne sono state create dieci. Con la loro “adozione” si sta finanziando la Dimora, la casa rifugio per donne maltrattate di Brescia. Un’iniziativa “privata”.
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