sabato 29 giugno 2013

Stupri in guerra

Bosnia, la guerra sul corpo delle donne: Script riflessioni - i campi della soggettività - Rivista Online N. 14 - Gennaio 2008

UN VASTO CAMPO (psicologia e società)

Di Luca Leone

L’articolo di Luca Leone, costruito sull’intervista alla psicologa bosniaca Marijan Senjak, tratta di un evento tragico, nel senso letterale del termine, cioè della comparsa di una catastrofe che si abbatte su un’esistenza individuale, familiare o collettiva.

Le guerre nei territori della ex Jugoslavja (è curioso come sia entrato nell’uso definire la trasformazione politica di un territorio con l’assetto precedente, quasi ci fosse una resistenza ad accoglierne le trasformazioni, anche se si tratta soltanto di un aspetto giornalistico e non riflettente la realtà sono state caratterizzate da atrocità che hanno perpetrato) le modalità belliche comparse con la seconda guerra mondiale, cioè il coinvolgimento della popolazione civile, quella che allora (come ora) ha subito i maggiori lutti.

Una parola tribale (e del tutto insignificante in un territorio di frontiera ricco di notevoli stratificazioni di molteplici aspetti culturali)ha determinato comportamenti aberranti: la parola è etnia, che ha determinato un fatto conseguente come la così detta pulizia etnica (come se ci fosse qualcosa di sporco nella convivenza fra serbi, croati, bosniaci, macedoni, kosovari, montenegrini e quanti altri nel ricco mosaico di popoli del mondo slavo del sud, prodotto della storia e non di una pretesa differenza generica).

La pulizia etnica è una operazione che ha a che fare con la disinfestazione, l’allontanamento e l’eliminazione di elementi estranei e nocivi da un corpo sano.

La Serbia, la Croazia e la Bosnia, dopo le guerre conseguenti allo smembramento della Federazione Jugoslava, sono un immenso cimitero. A volte i luoghi di sepoltura sono ancora presenti all’interno dei centri abitati, nei giardini o nelle zone verdi, data l’impossibilità di seppellire i morti, a suo tempo, nei cimiteri, a causa dell’assedio alle città.

Ogni popolo ha avuto i suoi lutti, ogni efferatezza è stata compiuta da ciascuna delle parti, come se un immenso cataclisma di sadismo avesse investito la totalità dell’area.
Rimangono le vittime, la maggior parte delle quali non ha avuto nemmeno sepoltura, disperse come sono in fosse comuni, la cui scoperta caratterizzerà ancora molti anni a venire.

Ma ci sono altre offese, ancora più brucianti, come gli “stupri etnici”, forme di tortura e di rapina dell’identità del corpo delle donne, costrette non soltanto a subire questa violenza, ma anche ad avere come conseguenza la gravidanza di un essere “appartenente al nemico” (tale era la volontà degli stupratori).

Ci troviamo di fronte ad un sovvertimento totale dei valori caratterizzanti la specie umana, avvenuto a due passi da casa nostra.
Tutti siamo nati da donne, anche gli stupratori, che avranno avuto senz’altro madri, sorelle e mogli.
Soltanto una propaganda nazionalistica criminale che istilla artificialmente l’odio può ridurre le vite delle donne a corpi inerti da profanare, soltanto l’indifferenza emozionale può costruire l’altro come non umano e quindi passibile di ogni crudeltà.
Rimangono le vittime, vive, col loro dolore, col loro futuro spezzato, con una vergogna da portare con sé (il paradosso della vittima è che tende a venire esclusa anziché accolta).

L’articolo che segue è sembrato significativo perché parla di un difficile e complesso intervento psicologico nel “vasto campo” della sofferenza umana con decisi connotati collettivi.
Questa scelta vuole essere un modesto omaggio a Zejneba,una donna bosniaco-musulmana conosciuta a Srebrenica nel 2002, quando aveva cinquantacinque anni. Zejneba aveva perduto il marito nell’eccidio di Potocari, perpetrato dai serbo-bosniaci sugli abitanti di Srebrenica, bosniaci di fede musulmana. Zejneba aveva dato vita ad un’associazione di donne senza alcuna distinzione di religione o di stato politico, per il ritrovamento dei resti delle vittime e per l’istituzione di una zona di ricordo di tutti i morti del conflitto degli anni 1992-1995. Non ha potuto vedere il risultato della sua dolorosa fatica, perché è morta in un incidente stradale nel 2003.
Giovanni Lancellotti

(A distanza di 15 anni, la violenza e l’orrore della guerra balcanica sono ancora vivi e presenti sui corpi delle vittime della violenza sessuale. Il racconto della psicologa Marijana Senjak).

Settembre 1993. Una donna e i suoi due figli piccoli percorrono a piedi centotrenta chilometri di strada attraverso la Bosnia centrale. Superano in qualche modo i posti di blocco; sono affamati, terrorizzati: Miracolosamente riescono a raggiungere la città di Zenica, distante circa cento chilometri da Sarajevo. E’, quello di Zenica, un vecchio centro industriale, con i suoi palazzoni grigi altissimi, e, sulla montagna, il più grande carcere di massima sicurezza dell’intero Paese.
La fuggiasca e i suoi piccini riescono a raggiungere la sede dell’Associazione “Medica”, piccola “filiale” bosniaca, nata cinque mesi prima (aprile 1993), come costola dell’omonima organizzazione non governativa tedesca, fondata dalla ginecologa e attivista per i diritti delle donne Monika Hauser. 
La donna incontra Marijana Senjak (psicologa che, dieci anni dopo, sarebbe stata proposta per ricevere il Premio Nobel per la pace) e racconta la sua storia. 
Lei e i suoi figli sono musulmani. Il marito è scomparso. Dopo tre mesi di umiliazioni, sono riusciti a fuggire da un campo di prigionia croato (all’inizio del 1993, in Bosnia era esplosa la guerra nella guerra, con cattolici e musulmani che avevano rotto l’alleanza per fronteggiare l’aggressione serbo-bosniaca e ora si massacravano l’un l’altro). Hanno vissuto in condizioni sanitarie impossibili, trattati peggio di animali. Riferisce delle sevizie e delle violenze sessuali subite mentre, nella stanza accanto, i suoi due bambini la sentivano urlare e piangevano. Ogni giorno. 
“Una donna mi ha detto di essere stata violentata centocinquanta volte”, fa sapere al personale di “Medica”, attonito. Con i suoi bambini, viene accolta tra le pazienti del Centro, come centinaia di altre donne come lei.

Storie di violenza. Storie di guerra. Alexandra Stilgmayer ne ha raccolte centinaia e le ha pubblicate in un’enciclopedia dell’orrore, intitolata semplicemente “Mass Rape”, stupro di massa. Un lavoro simile ha condotto il Centro per l’indagine e la documentazione dell’Associazione degli ex prigionieri di guerra nei campi della Bosnia Erzegovina. I due libri sono disponibili soltanto in inglese. 
Vi si racconta di atrocità commesse durante la guerra in Bosnia (1992-1995) contro donne di ogni componente nazionale, anche se quella musulmana è stata la più colpita. 
Si narra di padri costretti a violentare le figlie con la minaccia di un coltello alla gola, di bambine e anziane obbligate a subire e a guardare orrori disumani di donne stuprate con la canna dei fucili e poi ammazzate. 
D’altronde, anche nel compound di Potocari i caschi blu olandesi non nascondevano simili istinti sessuali nei confronti delle donne musulmane di Srebrenica, che avrebbero dovuto proteggere e che invece insidiavano. 
Una delle immagini più famose della camera nera del museo del genocidido di Potocari non è forse il disegno fatto da un soldato olandese dell’ONU, che ha immaginato una ragazza violentata dal cannone di un carro armato? 
Un altro graffito, però, se possibile è ancora più offensivo e cattivo. C’è scritto: “Puzza come una capra, è sdentata, ha i baffi: è una ragazza musulmana”. 

Facile fare apprezzamenti avendo la pancia piena su chi da tre anni non mangia quasi nulla - se non sporadiche scatolette di cibo conservato, scadute anche trent’anni prima, lanciate dal cielo (in Bosnia è successo anche questo) - e non può lavarsi. Per non parlare dei soldati canadesi, colti in flagrante ad abusare di donne bosniache nel dopoguerra o delle abitudini sessuali di non pochi militari e civili della forza di pace internazionale.

Questi racconti dell’orrore ben spiegano che cosa accada durante un conflitto agli oggetti d’elezione della violenza patriarcale in ogni società: le donne e i bambini. 
Racconti che, per quanto scioccanti, non possono e non devono essere rimossi: sarebbe come chiudere una volta di più gli occhi di fronte agli effetti socialmente devastanti di un conflitto per il quale l’Europa ha avuto e ha gravi e profonde responsabilità. E sbattere la porta in faccia alle vittime, che dopo quindici anni restano ancora tali.

Monikam Hauser ha visitato dodicimila donne bosniache che, durante la guerra, hanno subito violenza sessuale. Si tratta di meno della metà del numero di donne stuprate: trentamila vittime della bestialità, di ogni età, estrazione sociale, nazionalità, fede. Donne internate, in alcuni casi, nei trecento campi di prigionia (diciannove dei quali sorgevano sul territorio dell’allora Serbia-Montenegro), nei quali sono transitate quasi duecentomila persone: un numero imprecisato di questi prigionieri (tra i venti e i trentamila) ne sono usciti morti: veri campi di sterminio. In altri casi le donne sono state abusate in seguito ad attacchi contro villaggi o nei campi profughi o in mille altri contesti. Nessuno ha mai pagato per questi crimini, che vanno annoverati tra quelli contro l’umanità. Crimini tollerati, come del resto i campi di sterminio, dall’Europa e dal mondo. Tollerati e negati dai governi di Zagabria, Belgrado e forse anche Sarajevo (solo “timidamente” il presidente bosniaco Alija Izetbegovic ne fece cenno all’ex capo di Stato francese François Mitterand, in visita a Sarajevo nel 1993, senza tornare sulla questione). 
Meno di mezzo secolo dopo la barbarie hitleriana, la guerra di Bosnia ha insegnato che le donne continuano ad essere considerate dalla truppa e dai generali nulla più di un “premio di guerra”. 

Nel caso della Bosnia, ad esempio, i gerarchi serbo-bosniaci, agli ordini dei genocidi Ratko Mladic e Radovan Karadzic, sono andati persino oltre, utilizzando lo stupro etnico come strategia per cancellare un popolo, fecondando con seme “serbo” donne “musulmane”, umiliando così, attraverso il genere femminile, una collettività umana, costringendo le donne a mettere al mondo figli appartenenti ad “altro”, nel caso specifico alla presunta “etnia dominante” (per la cerchia di biologi, psichiatri e psicologi deliranti e razzisti, di cui si era circondato Karadzic). Nazismo. Ma la storia umana affonda le sue radici, persino culturali, nella violazione della donna, “oggetto di guerra”: che dire della celebrazione romana del Ratto delle Sabine? O del possesso feroce della donna, presente in quadri di maestri come Goya o Picasso? Non è facile vincere i luoghi comuni.

Gli effetti psicologici dello stupro sulle donne bosniache sono stati devastanti, e, negli anni, sono stati resi ancora più pesanti dalla mancanza di assistenza psicologica e materiale di cui si è macchiato uno Stato sociale che ha fatto parecchi passi indietro rispetto ai tempi della Federazione Jugoslava. Oggi soltanto realtà private come “Medica” continuano ad aiutare le donne vittime dello stupro di guerra e, al contempo, andando a rastrellare i pochi soldi disponibili all’estero, si concentrano sulla nuove e crescenti forme di violenza sociale, come è tipico di un dopoguerra come quello bosniaco, più vicino a un conflitto che a una pacificazione definitiva. 

Migliaia di matrimoni si stanno oggi spaccando e sempre più donne fuggono dalla violenza domestica, cercando riparo presso chi gestisce centri di accoglienza. Alcolismo, traumi da trincea, depressione: in un Paese da sempre fortemente maschilista, la (solo) presunta parte “forte” della società bosniaca, l’uomo, sta crollando, e le sue macerie stanno schiacciando chi invece la forza interiore e fisica l’ha davvero conservata, le donne.

In tutto questo, poi, permane un mistero: “Che fine hanno fatto i bambini nati dallo stupro etnico?” si chiede da anni un ricercatore serio come Angelo Lallo. Risposta difficile. Molte donne violate sono state costrette ad abortire dalle famiglie o hanno fatto loro stesse questa scelta. Poi ci fu il caso di suore cattoliche stuprate dai serbo-bosniaci, che ricevettero da Giovanni Paolo II il clamoroso permesso di abortire, nonostante l’ostilità vaticana verso il solo concetto di aborto. Altri bambini sono nati: alcuni non sanno neppure di essere figli di una violenza, altri lo hanno intuito o è stato loro sbattuto in faccia. Ma, su tutto, prevalgono vergogna e rimozione collettiva: cifre non ne vengono fatte e un riserbo, a volte persino sospetto, copre la vicenda. 

La sede di “Medica” sorge tra alti e grigi palazzoni. Marijana Senjak, la “padrone di casa”, donna d’incredibile determinazione e profonda dolcezza, con calma ha cercato di spiegare la complessità dell’universo femminile bosniaco e gli effetti della violenza su di esso: “Fondamentalmente i traumi della violenza sessuale sulle vittime determinano tre grandi gruppi di sintomi - chiarisce con la sua voce forte e ferma. 
- Abbiamo vittime che soffrono d’insonnia, disordini del sonno, della memoria e della concentrazione, di stati di tensione, reazioni aggressive o esplosive, perché rivivono continuamente i pericoli del passato e vivono sempre in una condizione di allarme. 
- Al secondo gruppo di sintomi appartengono quelli detti “intrusivi”, che si concretizzano nel ricordo ossessivo dell’evento traumatico: le vittime rivivono, in questo caso, gli avvenimenti traumatizzanti di cui sono state oggetto attraverso incubi notturni. 
- Infine, ci sono le persone affette da sintomi di fuga, che evitano nuovi contatti, qualsiasi nuova attività, non riescono a progettare il futuro, non vedono nulla di positivo; inoltre, evitano di tornare nei luoghi oggetto della loro esperienza traumatica, si rifiutano d’incontrare persone coinvolte in quegli eventi, restringono la loro vita”.

Non basta. Perché, oltre a soffrire di questi sintomi conseguenti al trauma riportato, le vittime di abusi sessuali manifestano anche una visione disturbata del loro corpo:
“Queste donne - spiega Marijana Senjak - non amano il loro corpo e, anzi, molte volte lo accusano di averle tradite o di essere stato la causa della violenza subita. Spesso si lavano ossessivamente e sviluppano sintomi di terrore: le donne bosniache che anno subito abusi, molto spesso, hanno paura degli uomini con la barba, delle uniformi, del buio. 
Le conseguenze di lungo periodo dello stupro sono seri disordini nelle relazioni sessuali con il partner o anche l’incapacità di avviare, persino dodici anni dopo la fine della guerra, relazioni affettive più strette e intense con uomini. In definitiva le vittime della violenza sessuale spesso hanno disturbi psicologici così gravi da sfiorare o addirittura sfociare in patologie psichiatriche, che lacerano la loro personalità e provocano seri disturbi del comportamento. Per questo hanno bisogno di sostegno psicologico e pedagogico, per cercare di stabilizzare il loro comportamenti. E per questa ragione abbiamo deciso, come associazione, di non limitare il nostro aiuto alle vittime degli stupri e delle violenze di guerra”.

Finito il conflitto, dunque, sono rimaste da curare le profonde ferite psicologiche inferte a decine di migliaia di donne, ma al contempo è esplosa una nuova contesa, combattuta su un fronte inedito, quello della famiglia. I due fenomeni non sono affatto scollegati e rendono ancora più problematica la convivenza sociale in un Paese profondamente spaccato. 

“L’aumento della violenza domestica - prosegue la psicologa - è individuabile in ogni Pese che, come la Bosnia, abbia subito un conflitto bellico come, del resto, anche la violenza sociale e gli stupri. All’inizio dell’attività di “Medica”, venivano a chiederci aiuto, oltre alle donne vittime di violenza sessuale e di stupro etnico, quelle che erano state recluse in campi di concentramento o che erano state costrette a lasciare le loro case,oppure donne come quelle di Srebrenica che, oltre ad essere state costrette a sfollare, avevano perso molti loro familiari. Le problematiche dominanti, insomma, erano quelle belliche. 
Dal 1996, il numero delle donne con questo genere di problemi si è andato riducendo - nel senso che non ne arrivavano di nuove - e sono invece aumentate quelle che denunciano di subire violenza domestica. 
Non esistono statistiche sulla violenza familiare prima della guerra, da comparare con la situazione attuale, ma in ogni società postbellica ci sono almeno due cause alla base di quest’incrementi: innanzitutto, dopo un prolungato periodo guerresco la ferocia è diventata il modello ideale, quasi normale, per risolvere ogni conflitto; secondo poi, in nessuna società, dopo la contesa, vengono approntati programmi di recupero psicologico degli uomini traumatizzati. Di solito, anzi, nelle società postbelliche gli uomini che hanno combattuto al fronte vengono smobilitati e marginalizzati, perdono la posizione di rilievo che avevano raggiunto durante la guerra e non ne trovano una nuova nella società in pace. Monta allora, in questi individui, il senso di frustrazione, oltre al rancore e al disagio, che sfogano su mogli e figli, nel chiuso della famiglia. Per questo sarebbe fondamentale, in ogni società che esce da un conflitto, ideare e attuare programmi per il recupero psicologico di reduci e prigionieri di guerra, e creare strutture per aiutare anche gli uomini a recuperare un equilibrio e tornare a vivere in una società ora in pace”.

In Bosnia, tuttavia, a parte la clinica di Kocevo a Sarajevo, non sono stati creati o adibiti altri centri medici per curare gli uomini dal disturbo dello stress postraumatico (ptsd).
“Se soltanto ci fosse più attenzione per queste problematiche - chiarisce Marijana - è probabile che la violenza sociale e familiare diminuirebbe e sarebbe più facilmente controllabile”.

Altro capitolo doloroso è quello relativo all’impunità di chi, durante la guerra, e non di rado oggi, si è macchiato di crimini a sfondo sessuale, e non ha scontato un solo giorno di galera. Ma nella Bosnia del dopoguerra la giustizia spesso ha rappresentato un aspetto marginale di una ricostruzione sociale e materiale ancora incompleta. Così, nella latitanza delle istituzioni, che sanno solo litigare,sono associazioni come “Medica” a doversi rimboccare le maniche : “Nei tredici anni compresi dall’aprile 1993 al dicembre 2005, a livello individuale abbiamo fornito novantunmila visite mediche generiche e ginecologiche, sia nei nostri centri che grazie agli spostamenti della nostra clinica mobile; abbiamo inoltre erogato più di diecimila servizi psicologici.
Complessivamente abbiamo dato riparo e aiuto medico e psicologico a più di milleduecento donne e bambini. A livello di comunità, spesso sembriamo più vigili del fuoco che operatori sociali: ci ritroviamo così a dover di volta in volta estinguere focolai di disagio attraverso interventi psicologici. Per questo stiamo cercando di lavorare sui gruppi, sensibilizzando e formando poliziotti, operatori sanitari e sociali, dando loto strumenti per comprendere il disagio e intervenire. 
Abbiamo sviluppato un programma che finora ha coinvolto circa settecentocinquanta professionisti e sessantacinque municipalità della Bosnia Erzegovina: obiettivo degli interventi è moltiplicare la conoscenza di questi fenomeni, rendendo i partecipanti alle nostre iniziative di formazione dei veicoli di informazione e di sensibilizzazione a più ampio livello per prevenire la violenza sociale”.

Luca Leone. Da “Liberazione della domenica”, inserto del quotidiano “Liberazione”, 9 settembre 2007.


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