Bosnia, la guerra sul corpo delle donne: Script riflessioni - i campi della soggettività - Rivista Online N. 14 - Gennaio 2008
UN VASTO CAMPO (psicologia e società)
Di Luca Leone
L’articolo
di Luca Leone, costruito sull’intervista alla psicologa bosniaca
Marijan Senjak, tratta di un evento tragico, nel senso letterale del
termine, cioè della comparsa di una catastrofe che si abbatte su
un’esistenza individuale, familiare o collettiva.
Le
guerre nei territori della ex Jugoslavja (è curioso come sia entrato
nell’uso definire la trasformazione politica di un territorio con
l’assetto precedente, quasi ci fosse una resistenza ad accoglierne le
trasformazioni, anche se si tratta soltanto di un aspetto giornalistico e
non riflettente la realtà sono state caratterizzate da atrocità che
hanno perpetrato) le modalità belliche comparse con la seconda guerra
mondiale, cioè il coinvolgimento della popolazione civile, quella che
allora (come ora) ha subito i maggiori lutti.
Una parola
tribale (e del tutto insignificante in un territorio di frontiera ricco
di notevoli stratificazioni di molteplici aspetti culturali)ha
determinato comportamenti aberranti: la parola è etnia, che ha
determinato un fatto conseguente come la così detta pulizia etnica (come
se ci fosse qualcosa di sporco nella convivenza fra serbi, croati,
bosniaci, macedoni, kosovari, montenegrini e quanti altri nel ricco
mosaico di popoli del mondo slavo del sud, prodotto della storia e non
di una pretesa differenza generica).
La pulizia etnica è
una operazione che ha a che fare con la disinfestazione, l’allontanamento
e l’eliminazione di elementi estranei e nocivi da un corpo sano.
La
Serbia, la Croazia e la Bosnia, dopo le guerre conseguenti allo
smembramento della Federazione Jugoslava, sono un immenso cimitero. A
volte i luoghi di sepoltura sono ancora presenti all’interno dei centri
abitati, nei giardini o nelle zone verdi, data l’impossibilità di
seppellire i morti, a suo tempo, nei cimiteri, a causa dell’assedio alle
città.
Ogni popolo ha avuto i suoi lutti, ogni
efferatezza è stata compiuta da ciascuna delle parti, come se un immenso
cataclisma di sadismo avesse investito la totalità dell’area.
Rimangono
le vittime, la maggior parte delle quali non ha avuto nemmeno
sepoltura, disperse come sono in fosse comuni, la cui scoperta
caratterizzerà ancora molti anni a venire.
Ma ci sono
altre offese, ancora più brucianti, come gli “stupri etnici”, forme di
tortura e di rapina dell’identità del corpo delle donne, costrette non
soltanto a subire questa violenza, ma anche ad avere come conseguenza la
gravidanza di un essere “appartenente al nemico” (tale era la volontà
degli stupratori).
Ci troviamo di fronte ad un
sovvertimento totale dei valori caratterizzanti la specie umana,
avvenuto a due passi da casa nostra.
Tutti siamo nati da donne, anche gli stupratori, che avranno avuto senz’altro madri, sorelle e mogli.
Soltanto
una propaganda nazionalistica criminale che istilla artificialmente
l’odio può ridurre le vite delle donne a corpi inerti da profanare,
soltanto l’indifferenza emozionale può costruire l’altro come non umano e
quindi passibile di ogni crudeltà.
Rimangono le vittime,
vive, col loro dolore, col loro futuro spezzato, con una vergogna da
portare con sé (il paradosso della vittima è che tende a venire esclusa
anziché accolta).
L’articolo che segue è sembrato
significativo perché parla di un difficile e complesso intervento
psicologico nel “vasto campo” della sofferenza umana con decisi
connotati collettivi.
Questa scelta vuole essere un modesto
omaggio a Zejneba,una donna bosniaco-musulmana conosciuta a Srebrenica
nel 2002, quando aveva cinquantacinque anni. Zejneba aveva perduto il
marito nell’eccidio di Potocari, perpetrato dai serbo-bosniaci sugli
abitanti di Srebrenica, bosniaci di fede musulmana. Zejneba aveva dato
vita ad un’associazione di donne senza alcuna distinzione di religione o
di stato politico, per il ritrovamento dei resti delle vittime e per
l’istituzione di una zona di ricordo di tutti i morti del conflitto
degli anni 1992-1995. Non ha potuto vedere il risultato della sua
dolorosa fatica, perché è morta in un incidente stradale nel 2003.
Giovanni Lancellotti
(A
distanza di 15 anni, la violenza e l’orrore della guerra balcanica sono
ancora vivi e presenti sui corpi delle vittime della violenza sessuale.
Il racconto della psicologa Marijana Senjak).
Settembre
1993. Una donna e i suoi due figli piccoli percorrono a piedi
centotrenta chilometri di strada attraverso la Bosnia centrale. Superano
in qualche modo i posti di blocco; sono affamati, terrorizzati:
Miracolosamente riescono a raggiungere la città di Zenica, distante
circa cento chilometri da Sarajevo. E’, quello di Zenica, un vecchio
centro industriale, con i suoi palazzoni grigi altissimi, e, sulla
montagna, il più grande carcere di massima sicurezza dell’intero Paese.
La
fuggiasca e i suoi piccini riescono a raggiungere la sede
dell’Associazione “Medica”, piccola “filiale” bosniaca, nata cinque mesi
prima (aprile 1993), come costola dell’omonima organizzazione non
governativa tedesca, fondata dalla ginecologa e attivista per i diritti
delle donne Monika Hauser.
La donna incontra Marijana Senjak
(psicologa che, dieci anni dopo, sarebbe stata proposta per ricevere il
Premio Nobel per la pace) e racconta la sua storia.
Lei e i suoi figli
sono musulmani. Il marito è scomparso. Dopo tre mesi di umiliazioni,
sono riusciti a fuggire da un campo di prigionia croato (all’inizio del
1993, in Bosnia era esplosa la guerra nella guerra, con cattolici e
musulmani che avevano rotto l’alleanza per fronteggiare l’aggressione
serbo-bosniaca e ora si massacravano l’un l’altro). Hanno vissuto in
condizioni sanitarie impossibili, trattati peggio di animali. Riferisce
delle sevizie e delle violenze sessuali subite mentre, nella stanza
accanto, i suoi due bambini la sentivano urlare e piangevano. Ogni
giorno.
“Una donna mi ha detto di essere stata violentata centocinquanta
volte”, fa sapere al personale di “Medica”, attonito. Con i suoi
bambini, viene accolta tra le pazienti del Centro, come centinaia di
altre donne come lei.
Storie di violenza. Storie di guerra.
Alexandra Stilgmayer ne ha raccolte centinaia e le ha pubblicate in
un’enciclopedia dell’orrore, intitolata semplicemente “Mass Rape”,
stupro di massa. Un lavoro simile ha condotto il Centro per l’indagine e
la documentazione dell’Associazione degli ex prigionieri di guerra nei
campi della Bosnia Erzegovina. I due libri sono disponibili soltanto in
inglese.
Vi si racconta di atrocità commesse durante la guerra in Bosnia
(1992-1995) contro donne di ogni componente nazionale, anche se quella
musulmana è stata la più colpita.
Si narra di padri costretti a
violentare le figlie con la minaccia di un coltello alla gola, di
bambine e anziane obbligate a subire e a guardare orrori
disumani di donne stuprate con la canna dei fucili e poi ammazzate.
D’altronde, anche nel compound di Potocari i caschi blu olandesi non
nascondevano simili istinti sessuali nei confronti delle donne musulmane
di Srebrenica, che avrebbero dovuto proteggere e che invece
insidiavano.
Una delle immagini più famose della camera nera del museo
del genocidido di Potocari non è forse il disegno fatto da un soldato
olandese dell’ONU, che ha immaginato una ragazza violentata dal cannone
di un carro armato?
Un altro graffito, però, se possibile è ancora più
offensivo e cattivo. C’è scritto: “Puzza come una capra, è sdentata, ha i
baffi: è una ragazza musulmana”.
Facile fare apprezzamenti avendo la
pancia piena su chi da tre anni non mangia quasi nulla - se non
sporadiche scatolette di cibo conservato, scadute anche trent’anni
prima, lanciate dal cielo (in Bosnia è successo anche questo) - e non
può lavarsi. Per non parlare dei soldati canadesi, colti in flagrante ad
abusare di donne bosniache nel dopoguerra o delle abitudini sessuali di
non pochi militari e civili della forza di pace internazionale.
Questi
racconti dell’orrore ben spiegano che cosa accada durante un conflitto
agli oggetti d’elezione della violenza patriarcale in ogni società: le
donne e i bambini.
Racconti che, per quanto scioccanti, non possono e
non devono essere rimossi: sarebbe come chiudere una volta di più gli
occhi di fronte agli effetti socialmente devastanti di un conflitto per
il quale l’Europa ha avuto e ha gravi e profonde responsabilità. E
sbattere la porta in faccia alle vittime, che dopo quindici anni restano
ancora tali.
Monikam Hauser ha visitato dodicimila donne
bosniache che, durante la guerra, hanno subito violenza sessuale. Si
tratta di meno della metà del numero di donne stuprate: trentamila
vittime della bestialità, di ogni età, estrazione sociale, nazionalità,
fede. Donne internate, in alcuni casi, nei trecento campi di prigionia
(diciannove dei quali sorgevano sul territorio dell’allora
Serbia-Montenegro), nei quali sono transitate quasi duecentomila
persone: un numero imprecisato di questi prigionieri (tra i venti e i
trentamila) ne sono usciti morti: veri campi di sterminio. In altri casi
le donne sono state abusate in seguito ad attacchi contro villaggi o
nei campi profughi o in mille altri contesti. Nessuno ha mai pagato per
questi crimini, che vanno annoverati tra quelli contro l’umanità.
Crimini tollerati, come del resto i campi di sterminio, dall’Europa e
dal mondo. Tollerati e negati dai governi di Zagabria, Belgrado e forse
anche Sarajevo (solo “timidamente” il presidente bosniaco Alija
Izetbegovic ne fece cenno all’ex capo di Stato francese François
Mitterand, in visita a Sarajevo nel 1993, senza tornare sulla
questione).
Meno di mezzo secolo dopo la barbarie hitleriana, la
guerra di Bosnia ha insegnato che le donne continuano ad essere
considerate dalla truppa e dai generali nulla più di un “premio di
guerra”.
Nel caso della Bosnia, ad esempio, i gerarchi
serbo-bosniaci, agli ordini dei genocidi Ratko Mladic e Radovan
Karadzic, sono andati persino oltre, utilizzando lo stupro etnico come
strategia per cancellare un popolo, fecondando con seme “serbo” donne
“musulmane”, umiliando così, attraverso il genere femminile, una
collettività umana, costringendo le donne a mettere al mondo figli
appartenenti ad “altro”, nel caso specifico alla presunta “etnia
dominante” (per la cerchia di biologi, psichiatri e psicologi deliranti e
razzisti, di cui si era circondato Karadzic). Nazismo. Ma la storia
umana affonda le sue radici, persino culturali, nella violazione della
donna, “oggetto di guerra”: che dire della celebrazione romana del Ratto
delle Sabine? O del possesso feroce della donna, presente in quadri di
maestri come Goya o Picasso? Non è facile vincere i luoghi comuni.
Gli
effetti psicologici dello stupro sulle donne bosniache sono stati
devastanti, e, negli anni, sono stati resi ancora più pesanti dalla
mancanza di assistenza psicologica e materiale di cui si è macchiato uno
Stato sociale che ha fatto parecchi passi indietro rispetto ai tempi
della Federazione Jugoslava. Oggi soltanto realtà private come “Medica”
continuano ad aiutare le donne vittime dello stupro di guerra e, al
contempo, andando a rastrellare i pochi soldi disponibili all’estero, si
concentrano sulla nuove e crescenti forme di violenza sociale, come è
tipico di un dopoguerra come quello bosniaco, più vicino a un conflitto
che a una pacificazione definitiva.
Migliaia di matrimoni si
stanno oggi spaccando e sempre più donne fuggono dalla violenza
domestica, cercando riparo presso chi gestisce centri di accoglienza.
Alcolismo, traumi da trincea, depressione: in un Paese da sempre
fortemente maschilista, la (solo) presunta parte “forte” della società
bosniaca, l’uomo, sta crollando, e le sue macerie stanno schiacciando
chi invece la forza interiore e fisica l’ha davvero conservata, le
donne.
In tutto questo, poi, permane un mistero: “Che fine hanno
fatto i bambini nati dallo stupro etnico?” si chiede da anni un
ricercatore serio come Angelo Lallo. Risposta difficile. Molte donne
violate sono state costrette ad abortire dalle famiglie o hanno fatto
loro stesse questa scelta. Poi ci fu il caso di suore cattoliche
stuprate dai serbo-bosniaci, che ricevettero da Giovanni Paolo II il
clamoroso permesso di abortire, nonostante l’ostilità vaticana verso il
solo concetto di aborto. Altri bambini sono nati: alcuni non sanno
neppure di essere figli di una violenza, altri lo hanno intuito o è
stato loro sbattuto in faccia. Ma, su tutto, prevalgono vergogna e
rimozione collettiva: cifre non ne vengono fatte e un riserbo, a volte
persino sospetto, copre la vicenda.
La sede di “Medica” sorge tra
alti e grigi palazzoni. Marijana Senjak, la “padrone di casa”, donna
d’incredibile determinazione e profonda dolcezza, con calma ha cercato
di spiegare la complessità dell’universo femminile bosniaco e gli
effetti della violenza su di esso: “Fondamentalmente i traumi della
violenza sessuale sulle vittime determinano tre grandi gruppi di sintomi
- chiarisce con la sua voce forte e ferma.
- Abbiamo vittime che soffrono
d’insonnia, disordini del sonno, della memoria e della concentrazione,
di stati di tensione, reazioni aggressive o esplosive, perché rivivono
continuamente i pericoli del passato e vivono sempre in una condizione
di allarme.
- Al secondo gruppo di sintomi appartengono quelli detti “intrusivi”,
che si concretizzano nel ricordo ossessivo dell’evento traumatico: le
vittime rivivono, in questo caso, gli avvenimenti traumatizzanti di cui
sono state oggetto attraverso incubi notturni.
- Infine, ci sono le
persone affette da sintomi di fuga, che evitano nuovi contatti,
qualsiasi nuova attività, non riescono a progettare il futuro, non
vedono nulla di positivo; inoltre, evitano di tornare nei luoghi oggetto
della loro esperienza traumatica, si rifiutano d’incontrare persone
coinvolte in quegli eventi, restringono la loro vita”.
Non basta.
Perché, oltre a soffrire di questi sintomi conseguenti al trauma
riportato, le vittime di abusi sessuali manifestano anche una visione
disturbata del loro corpo:
“Queste donne - spiega Marijana Senjak -
non amano il loro corpo e, anzi, molte volte lo accusano di averle
tradite o di essere stato la causa della violenza subita. Spesso si
lavano ossessivamente e sviluppano sintomi di terrore: le donne
bosniache che anno subito abusi, molto spesso, hanno paura degli uomini
con la barba, delle uniformi, del buio.
Le conseguenze di lungo periodo
dello stupro sono seri disordini nelle relazioni sessuali con il partner
o anche l’incapacità di avviare, persino dodici anni dopo la fine della
guerra, relazioni affettive più strette e intense con uomini. In
definitiva le vittime della violenza sessuale spesso hanno disturbi
psicologici così gravi da sfiorare o addirittura sfociare in patologie
psichiatriche, che lacerano la loro personalità e provocano seri
disturbi del comportamento. Per questo hanno bisogno di sostegno
psicologico e pedagogico, per cercare di stabilizzare il loro
comportamenti. E per questa ragione abbiamo deciso, come associazione,
di non limitare il nostro aiuto alle vittime degli stupri e delle
violenze di guerra”.
Finito il conflitto, dunque, sono rimaste da
curare le profonde ferite psicologiche inferte a decine di migliaia di
donne, ma al contempo è esplosa una nuova contesa, combattuta su un
fronte inedito, quello della famiglia. I due fenomeni non sono affatto
scollegati e rendono ancora più problematica la convivenza sociale in un
Paese profondamente spaccato.
“L’aumento della violenza
domestica - prosegue la psicologa - è individuabile in ogni Pese che,
come la Bosnia, abbia subito un conflitto bellico come, del resto, anche
la violenza sociale e gli stupri. All’inizio dell’attività di “Medica”,
venivano a chiederci aiuto, oltre alle donne vittime di violenza
sessuale e di stupro etnico, quelle che erano state recluse in campi di
concentramento o che erano state costrette a lasciare le loro
case,oppure donne come quelle di Srebrenica che, oltre ad essere state
costrette a sfollare, avevano perso molti loro familiari. Le
problematiche dominanti, insomma, erano quelle belliche.
Dal 1996, il
numero delle donne con questo genere di problemi si è andato riducendo -
nel senso che non ne arrivavano di nuove - e sono invece aumentate
quelle che denunciano di subire violenza domestica.
Non esistono
statistiche sulla violenza familiare prima della guerra, da comparare
con la situazione attuale, ma in ogni società postbellica ci sono almeno
due cause alla base di quest’incrementi: innanzitutto, dopo un
prolungato periodo guerresco la ferocia è diventata il modello ideale,
quasi normale, per risolvere ogni conflitto; secondo poi, in nessuna
società, dopo la contesa, vengono approntati programmi di recupero
psicologico degli uomini traumatizzati. Di solito, anzi, nelle società
postbelliche gli uomini che hanno combattuto al fronte vengono
smobilitati e marginalizzati, perdono la posizione di rilievo che
avevano raggiunto durante la guerra e non ne trovano una nuova nella
società in pace. Monta allora, in questi individui, il senso di
frustrazione, oltre al rancore e al disagio, che sfogano su mogli e
figli, nel chiuso della famiglia. Per questo sarebbe fondamentale, in
ogni società che esce da un conflitto, ideare e attuare programmi per il
recupero psicologico di reduci e prigionieri di guerra, e creare
strutture per aiutare anche gli uomini a recuperare un equilibrio e
tornare a vivere in una società ora in pace”.
In Bosnia, tuttavia,
a parte la clinica di Kocevo a Sarajevo, non sono stati creati o
adibiti altri centri medici per curare gli uomini dal disturbo dello
stress postraumatico (ptsd).
“Se soltanto ci fosse più attenzione
per queste problematiche - chiarisce Marijana - è probabile che la
violenza sociale e familiare diminuirebbe e sarebbe più facilmente
controllabile”.
Altro capitolo doloroso è quello relativo
all’impunità di chi, durante la guerra, e non di rado oggi, si è
macchiato di crimini a sfondo sessuale, e non ha scontato un solo giorno
di galera. Ma nella Bosnia del dopoguerra la giustizia spesso ha
rappresentato un aspetto marginale di una ricostruzione sociale e
materiale ancora incompleta. Così, nella latitanza delle istituzioni,
che sanno solo litigare,sono associazioni come “Medica” a doversi
rimboccare le maniche : “Nei tredici anni compresi dall’aprile 1993 al
dicembre 2005, a livello individuale abbiamo fornito novantunmila visite
mediche generiche e ginecologiche, sia nei nostri centri che grazie
agli spostamenti della nostra clinica mobile; abbiamo inoltre erogato
più di diecimila servizi psicologici.
Complessivamente abbiamo
dato riparo e aiuto medico e psicologico a più di milleduecento donne e
bambini. A livello di comunità, spesso sembriamo più vigili del fuoco
che operatori sociali: ci ritroviamo così a dover di volta in volta
estinguere focolai di disagio attraverso interventi psicologici. Per
questo stiamo cercando di lavorare sui gruppi, sensibilizzando e
formando poliziotti, operatori sanitari e sociali, dando loto strumenti
per comprendere il disagio e intervenire.
Abbiamo sviluppato un
programma che finora ha coinvolto circa settecentocinquanta
professionisti e sessantacinque municipalità della Bosnia Erzegovina:
obiettivo degli interventi è moltiplicare la conoscenza di questi
fenomeni, rendendo i partecipanti alle nostre iniziative di formazione
dei veicoli di informazione e di sensibilizzazione a più ampio livello
per prevenire la violenza sociale”.
Luca Leone. Da “Liberazione della domenica”, inserto del quotidiano “Liberazione”, 9 settembre 2007.
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